lunedì 21 giugno 2010

La battaglia di Milazzo


Giunti noi volontari Lodigiani a Palermo sul vaporetto il Saumon, dopo alcune peripezie (decimo dalla nostra partenza da Lodi) Garibaldi venne ad incontrarci con lo Stato Maggiore, in mezzo ad applausi e con grandissimo entusiasmo. Vestiti di una blouse di rigato ed armati, parte di carabine parte di fucili di modello austriaco, il giorno 18 mattina avemmo improvvisamente l'ordine della partenza, ad alle 10 antimeridiane ci trovammo - col Generale Garibaldi - a bordo della City of Aberdeen. Non conoscevamo la nostra destinazione. Percorso un breve tratto vedemmo una fregata Sarda (la Maria Adelaide) che seguiva le nostre mosse, come una madre amorosa sorveglia intenta i passi dei bimbi. Questo apparato fece sospettare qualche cosa di importante, giacché solevasi dire che Garibaldi non si muove per nulla. All'ora di colazione gli ufficiali scesero nella sala e Garibaldi prima di sedersi, pronunziava queste parole: Signori! Andiamo in Calabria! Vedremo se anche colà avremo la stessa potenza che abbiamo avuto in Sicilia. Prolungati e numerosi applausi proruppero dagli astanti e tutti concepirono l'idea di uno sbarco in Calabria; molto più che sul legno avevamo armi e munizioni in gran copia. I volontari - essendovi uniti i trasbordati dal Chipper, che era stato fino allora trattenuto prigioniero a Gaeta - erano in numero di circa 1500; le Guide formavano parte della spedizione - a piedi, però - Difettando di selle furono in compenso, armate di eccellenti carabine, come lo erano i Carabinieri Genovesi... bei giovani che formavano l'invidia dei nostri piotin in brache bianche e camicia bigia, armati di Stutzen di Cacciatori Austriaci, ai quali poche delle munizioni distribuite si adattavano, ond'è che dovemmo continuamente mutuarcene e ricambiarle. A mezzanotte del 18 la City si arresta e si sbarca; ma non già in Calabria sibbene a Patti. Il perché di quel cambiamento lo si apprese il giorno dopo a Barcellona Pozzo di Gotto. I Garibaldini che ci avevano preceduto verso Milazzo avevano avuto a Meri, proprio in quel giorno 18, una fiera lotta coi Borbonici che tentarono di soverchiarli e buttarli a mare. Ma avevano resistito e si voleva farla finita col Forte di Milazzo, senza prendere il quale lo sbarco era pericoloso. Alle 4 antim. del successivo giorno 19 lo sbarco era terminato, e la schiera lunghissima si internò nel paese. Alle dieci ci posero in marcia, sotto la sferza di un sole terribile, in direzione di Barcellona, che dista da Patti 18 miglia, ove pernottammo. In questa città di 20mila abitanti soffrimmo difetto di viveri, potendo trovare a stento del pane da sfamarci! La mattina del giorno 20 fu suonata l'Assemblea, si distribuirono le munizioni e ci avviammo verso Milazzo, ove erasi di nuovo impegnato già il combattimento. Luigi Cingia fu destinato a guidare l'avanguardia, composta di quasi tutti Lodigiani; in mancanza di Ufficiali, l'avvocato Antonio Scotti comandava la compagnia e qualche sott'ufficiale improvvisato (come ad esempio il sottoscritto) ebbe il comando di un reparto. Quasi tutti gli ufficiali del Battaglione Vacchieri, al quale appartenevamo, e che poi fu nostro Colonnello, erano rimasti a Palermo, tanto fu improvviso l'ordine della partenza! Era costume di Garibaldi di far così... e basta! Verso le 9 del giorno 20 giungemmo al teatro dell'azione. Messici in moto attraversando campi soleggiati solcati da enormi filari di fichi d'India, che formavano siepi foltissime e quasi impenetrabili, giungemmo ad un muro formante ripa la quale sovrastava ad una strada diritta che conduceva alla Città e Fortezza. I primi che saltarono da quel muro sulla strada furono colpiti dalla mitraglia. Bortolo Vanazzi, che l'anno precedente si era coperto di gloria alla presa della Controcania (S.Martino) ed aveva veduto morirgli a fianco il fratello Vincenzo, fu colpito presso la nuca nell'atto di spiccare il salto. Una pallottola di mitraglia gli sfiorò la parte posteriore del collo, praticandovi un solco che, per poco non divenne mortale! Venanzio Pojachi fu colpito all'occhio destro; Bulloni Giuseppe in un braccio. Quei maledetti Borbonici non ischerzavano! Avevano piazzato due cannoni al crocevia fra le due marine e la Città e prendendo d'infilata la strada sulla quale ci eravamo messi, la coprivano di mitraglia. Ritirati i nostri feriti, altri, non so dire se più animosi o temerari, vollero persistere in quella pericolosa posizione. Ricordo un Francese che, levato da una bettola vicina un tavolo, lo collocò - quasi diaframma - nel bel mezzo della strada, coll'intento di costruirvi una barricata! Un colpo di mitraglia attraversò il tavolo e gli squarciò il ventre! Poveretto! Soccorso di acqua e non so come meglio, spirava poco dopo fra spasimi atroci. La faccenda si complicava e lo spettacolo non era troppo consolante pei nostri giovani animosi! La resistenza tenace dei Borbonici - degna di miglior causa - diveniva sempre più micidiale! Si tenne un piccolo consiglio di guerra e, senza essere né Dessaix, né Blücher, si decise di prendere quella batteria di fianco. Il muro costeggiante la strada e le siepi di fichi d'India servirono a meraviglia. Disposto in catena, tutto il Battaglione Vacchieri, preceduto dall'avanguardia di Cingia, procedeva cauto e silenzioso. I primi col Cingia, a testa bassa, saltellando come caprioli fra siepe e siepe, riuscirono a guadagnare l'angolo interno delle case che sovrastavano il quadrivio ove erano piazzati i due cannoni. Tutto, in quella specie di recinto, era silenzio. Solo fuori rombavano le cannonate. Messa una scala a piuoli, tre o quattro salirono e per una finestra penetrarono nel piano superiore. Di là scesero quieti quieti al pian terreno. Si vedeva che le camere di questo avevano servito di momentaneo ricovero ai Borbonici che di fuori cannoneggiavano. Gli avanzi di una refezione, diverse giberne da artigliere e qualche sciabola, lo rivelavano. D'ordine del sergente che prima era salito, si fecero scendere le materasse dei letti e si tamponò l'uscio di entrata in guisa che più non si potesse aprire. Quindi risaliti (si erano intanto riempite le camere dei volontari) ci appostammo faccia a terra, puntando le carabine rasente il piano dei numerosi poggiuoli. Il Sergente, che era ad una specie di occhio di bove, comandò ed eseguì lui pure, il fuoco. Fu una scena quasi pazzesca! Alla caduta degli Artiglieri feriti, corrispose uno scatto dei vicini, come di scintilla elettrica. E mentre ai nostri colpi di carabina risposero numerose fucilate, i rimasti si affrettarono a ritirare i cannoni e fuggire verso la Città, non abbastanza presto però che un cannone non dovesse essere abbandonato a mezza via. Pei nostri tiratori che erano bocconi, la cosa andò liscia non così pei numerosi raccoltisi nelle camere interne, giacché le palle dei Borboni, penetrate pei vetri dei poggioli, passarono difilato le muraglie interne che erano di cannicci e ferirono parecchi dei nostri, uccidendone uno, un bel Veneto alto ed aitante nella persona, di cui non seppi mai il nome! Ma l'improvvisata aveva fatto il suo effetto; Vacchieri, con buon nerbo di animosi, fece una sortita pel cancello del Brolo, che dava in una strada campestre laterale al quadrivio e parte ne lanciò ad inseguire gli artiglieri ed i fantaccini, ai quali quelli del 2° piano mandavano continui saluti... di confetti fischianti; parte mandò verso Marina, ove si svolgeva un episodio, che dall'occhio di bue si scorgeva benissimo. Garibaldi, con forte numero di guide e Carabinieri Genovesi, percorreva la Marina dal lato di nord-est per investire il Forte, quando gli fu addosso un drappello di cavalieri, dai mantelli o bournus bianchi. Fu un attimo d'angoscia, un tafferuglio seguito da colpi di rivoltella. Caddero parecchi cavalieri (l'Ufficiale era stato da Garibaldi stesso letteralmente decapitato). Agli altri pensò Missori, a cui presto s'aggiunsero i compagni ed i cavalieri si diedero al fuje! fuje! che più volte nella campagna sentimmo echeggiare. Allora mi tornarono in mente le parole del carmelitano da me udito nel Duomo di Palermo ed io stesso fui tratto a ripetere: Chiddu è l'uomo providençali!. Garibaldi era salvo per miracolo. Mi si dice che il cannone abbandonato fosse stato dai nostri rivoltato e fatto esplodere contro la Porta della Città. (Il cannoniere improvvisato fu un Evangelisti di Genova, che per dare lo stoppaccio di pressione alla carica adoperò la sua blouse e diede fuoco al cannone con uno zolfanello!). Fatto sta che quando vi giunsi, la porta era aperta e sgangherata. Poco lungi da essa agonizzava il maggiore Migliavacca - pavese -. Dal ponte della Borbona che cannoneggiava in rada, un obice l'aveva squarciato! Si dovette lasciar colà perché l'attraversare quella radura - avvalendoci, come avrebbe insegnato poi Waldersec, di ogni sporgenza - era già un affare serio; e si arrivò entro la Città. Di qua e di là dalla via principale, in fondo alla quale nereggiavano le mura ed il portone ferrato del forte, ci tenemmo rasenti i muri, rispondendo ai colpi che taluni fuggenti ci mandavano dalle finestre del lato opposto. Passiamo davanti ad una Chiesa, dalla quale i primi arrivati avevano tolto lo panche ed i confessionali per costruire una barricata contro la cavalleria. Su, su, su, passiamo il portone e rasentiamo la muraglia del forte, carponi sotto le feritoie, ormai vomitanti invano mitraglia e schioppettate, ed arrampicandoci come capre e scoiattoli, ci troviamo in una specie di mammellon o cucuzzolo dirupato, dal quale sotto scorgevamo l'andirivieni vorticoso che in un vasto cortile, andavan facendo pêle-mêle, Borbonici di ogni arma. E di lassù i nostri colpi di carabina fioccavano e non indarno. Breve fu la controffesa: non tanto però che il nostro Antonio Scotti, che per primo si era arrampicato fin lassù per impiantarvi una bandiera, non ricevesse di rimbalzo, un proiettile in direzione del cuore. Il portafoglio ed un coltello lo salvarono, ma il colpo fu così forte che al momento parve cadesse! Era fortunatamente uno spavento più che un vero colpo ricevuto. Poco stante, per evidenti trattative di resa già iniziate, venne l'ordine di cessare il fuoco e l'avanguardia Lodigiana rimase padrona di quella specie di scoglio (residuo di un fortilizio antico) sul quale si era appollaiata. Ricevuto quell'ordine, il Comandante Cingia (che fungeva da capitano, grado al quale fu assunto - collo Scotti - dopo la resa del Forte) spedì il Sergente sottoscritto alla Marina per avere ordini. Il Generale Garibaldi, al quale fu presentato il dispaccio, stavasene seduto sui gradini della Chiesa e commentando il fatto glorioso della giornata, andava dicendo cogli Ufficiali del suo Stato Maggiore: Io ritengo più la presa di Melazzo (Garibaldi diceva Melazzo e non Milazzo) che non quella di Palermo. Ciò era grandemente vero, perché quella presa apriva le porte al continente! Pare anche oggi un sogno come noi, senza cavalleria e senza cannoni, si sia potuto conquistare quelle forti posizioni! Intanto era scesa la notte ed il Sergente, per non avventurarsi su pei dirupi che sovrastavano la fortezza, a rischio di buscarsi una schioppettata anonima, si fermò alla marina e dopo essersi rifocillato, si addormentò accanto alla bottega dell'unico caffè esistente in quella specie di piazza. La giornata era stata molto calda ed il sonno scese profondissimo. Alle prime albe si desta, ed un spettacolo di ineffabile dolcezza gli si presenta agli occhi. Dall'altro lato della bottega, sopra una semplice materassa, dormiva Garibaldi! Nel sonno - lieve lieve come quello di un bambino - il suo volto pareva trasfigurato! Una vera testa da Nazzareno, un viso calmo, quasi sorridente!... A quale sogno? All'immagine cara della sua Anita sepolta laggiù nella Pineta di Ravenna? Alla sua Teresita, che a stento veniva impedita di unirsi all'eroico suo padre ed ai due fratelli Menotti e Ricciotti? Gli sorrideva forse la visione di quella Partenope, nella quale sarebbe entrato trionfalmente il 7 settembre?... Quanta semplicità! Oh come a ragione egli poté scrivere un giorno Io non fui mai povero; dal dì che a S.Antonio del Salto non avevo che una camicia di ricambio sotto alla sella del mio cavallo, a quello in cui divenni Dittatore delle Due Sicilie! La campana della vicina Chiesa ruppe quell'incantesimo, Garibaldi si mosse, si alzò e si apprestò a dettare i patti della resa del Forte. Ad agevolarla ed a procurare il ritiro delle truppe Borboniche concorse una nave da guerra Francese. I patti della resa semplici: le truppe uscirebbero disarmate. Agli ufficiali la sciabola. Solo il Generale Bosco, particolarmente compromesso per aver mancato alla parola data a Palermo, fu fatto uscire a piedi e disarmato. Il suo cavallo (un bel cavallo bianco!) divenne preda bellica non so di chi [2]. E' ventura che in una lotta così sanguinaria, combattuta con accanimento incredibile, non abbiansi a deplorare perdite gravi all'infuori del povero Migliavacca, ma solo leggere ferite; e torna a lode del nostro paese che giovani soldati, molti dei quali nuovi affatto alle armi come alla milizia ed alla vita faticosa del campo, abbiano operato valorose gesta e tali da affidarci possa l'Italia fra breve ricuperare piena ed intera la propria indipendenza integrandosi a Trento, a Trieste, a Pola a Fiume ed a Zara! Furono posti all'ordine del giorno Luigi Cingia ed Antonio Scotti (promossi ben presto capitani) il Sergente Sommariva Bassano, Torniamenti Virgilio, Pigna Arrigo, Baccigaluppi Gaetano, Messa, Bulloni, Moro, De Stefani, che tutti erano nell'avanguardia comandata da Cingia. Così avvenne che, arresasi la piazza di Milazzo, Garibaldi poté entrare in Messina, ove il Vacchieri divenne Colonnello del II Reggimento Brigata Simonetta, Divisione Medici. Ivi il primo battaglione del II Reggimento poté essere armato di una carabina inglese di fattura elegante, e quantunque molto delicata di grilletto, di una mirabile euritmia di forme da fare innamorare!