La parola nazione (dal latino natio) non era certo nuova, ma fu soltanto al principio dell'Ottocento che si affermò nella cultura europea per definire una grande comunità omogenea che stava alla base della legittimità delle istituzioni; a cominciare naturalmente dallo Stato, che doveva comprendere tutti coloro che appartenevano ad una stessa comunità nazionale.Una tale comunità – si affermava – poteva essere definita come tale sulla base di elementi oggettivi (etnico-linguistici, culturali, storici) e soggettivi (la consapevolezza di un destino comune, la volontà di vivere assieme), diversamente miscelati nei diversi contesti storico-geografici. In ogni caso, per i movimenti che combattevano al fine di conquistare l'indipendenza della propria nazione, ma anche per gli esponenti politici liberali e democratici di Inghilterra o Francia, l'esistenza di un'Europa di liberi Stati nazionali corrispondeva a un ordine delle cose nello stesso tempo necessario e naturale. Scriveva ad esempio Cavour nel 1846 che «nessun popolo può raggiungere un alto livello di intelligenza e di moralità senza che sia fortemente sviluppato il sentimento della propria nazionalità».«Nazione» e «nazionalità» erano termini sostanzialmente equivalenti; come lo era, rispetto a «nazione», il termine «patria», caratterizzato però da una più marcata accentuazione affettiva: riferendosi alla propria nazione come «patria» si sottolineava il senso di attaccamento ad essa, la disponibilità – se necessario – a combattere fino al martirio per difenderla dai nemici o (nel caso di nazioni non indipendenti come l'Italia o la Polonia) per dare ad essa un'esistenza politica come Stato (nazionale).Il risveglio dell'Italia. Grazie all'affermarsi delle passioni nazionali, è l'intera politica europea che assume nel corso del XIX secolo un nuovo carattere: come scrisse lo storico Federico Chabod, «la politica, che nel Settecento era apparsa come un'arte, tutta calcolo, ponderazione, equilibrio, sapienza, tutta razionalità e niente passione, diviene con l'Ottocento assai più tumultuosa, torbida, passionale; acquista l'impeto, starei per dire il fuoco, delle grandi passioni; diviene passione trascinante e fanatizzante com'erano state, un tempo, le passioni religiose L'«amore sacro della patria» (come suona un verso della Marsigliese) dà una connotazione fortemente emotiva all'idea di nazione, fino al punto di fondare appunto una sorta di nuova religione, la religione della patria, che ha la sua fede, i suoi martiri, i suoi dogmi (in primo luogo l'assoluta necessità di ottenere o conservare l'indipendenza nazionale).In Italia – o meglio nell'ambito geografico comprendente la penisola, la Sicilia e la Sardegna – era diffusa da secoli la consapevolezza di far parte di una comunità definita da tratti letterari, storici e linguistici comuni. Negli anni della Restaurazione, la consapevolezza d'essere parte di una medesima nazione si affermò con forza presso i ceti colti dei vari Stati italiani, spinti a questo da una serie di opere diverse – tragedie, romanzi, poesie, drammi storici, melodrammi, dipinti –, che tutte però si riferivano a un insieme di valori, simboli, eventi storici (più o meno mitizzati), attinenti la nazione.Si pensi alle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo e dunque alla «nostalgica rivisitazione» dei grandi poeti della tradizione letteraria italiana compiuta dal protagonista «nel suo ultimo viaggio per l'Italia, da Petrarca a Parini e fino alle tombe di Santa Croce» in Firenze (G. Nicoletti). O, ancora, alla riscoperta/invenzione del passato nazionale realizzata attraverso opere come L'assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi o Ettore Fieramosca di Massimo d'Azeglio.La presenza della censura aveva impedito che nei vari Stati italiani si potesse affrontare liberamente il tema della nazione e della sua indipendenza; ma proprio questo «ebbe l'effetto imprevisto di rendere più sofisticato il discorso nazionale, e di spostarne l'ambito di elaborazione verso generi di più ampio consumo e diffusione» Il discorso nazional-patriottico che si diffuse nei primi decenni dell'Ottocento non si limitava a rappresentare la nazione, ad accreditarne l'esistenza come un soggetto storico necessario e ineliminabile, secondo quel che era un indirizzo della cultura del tempo e in particolare della cultura di matrice romantica, così sensibile al tema delle radici e delle specificità nazionali. Quel discorso, rappresentando la nazione italiana come asservita a dinastie straniere, incitava a lottare per dare all'Italia, alla propria patria, libertà e indipendenza.
venerdì 28 settembre 2012
La nazione e la patria
La parola nazione (dal latino natio) non era certo nuova, ma fu soltanto al principio dell'Ottocento che si affermò nella cultura europea per definire una grande comunità omogenea che stava alla base della legittimità delle istituzioni; a cominciare naturalmente dallo Stato, che doveva comprendere tutti coloro che appartenevano ad una stessa comunità nazionale.Una tale comunità – si affermava – poteva essere definita come tale sulla base di elementi oggettivi (etnico-linguistici, culturali, storici) e soggettivi (la consapevolezza di un destino comune, la volontà di vivere assieme), diversamente miscelati nei diversi contesti storico-geografici. In ogni caso, per i movimenti che combattevano al fine di conquistare l'indipendenza della propria nazione, ma anche per gli esponenti politici liberali e democratici di Inghilterra o Francia, l'esistenza di un'Europa di liberi Stati nazionali corrispondeva a un ordine delle cose nello stesso tempo necessario e naturale. Scriveva ad esempio Cavour nel 1846 che «nessun popolo può raggiungere un alto livello di intelligenza e di moralità senza che sia fortemente sviluppato il sentimento della propria nazionalità».«Nazione» e «nazionalità» erano termini sostanzialmente equivalenti; come lo era, rispetto a «nazione», il termine «patria», caratterizzato però da una più marcata accentuazione affettiva: riferendosi alla propria nazione come «patria» si sottolineava il senso di attaccamento ad essa, la disponibilità – se necessario – a combattere fino al martirio per difenderla dai nemici o (nel caso di nazioni non indipendenti come l'Italia o la Polonia) per dare ad essa un'esistenza politica come Stato (nazionale).Il risveglio dell'Italia. Grazie all'affermarsi delle passioni nazionali, è l'intera politica europea che assume nel corso del XIX secolo un nuovo carattere: come scrisse lo storico Federico Chabod, «la politica, che nel Settecento era apparsa come un'arte, tutta calcolo, ponderazione, equilibrio, sapienza, tutta razionalità e niente passione, diviene con l'Ottocento assai più tumultuosa, torbida, passionale; acquista l'impeto, starei per dire il fuoco, delle grandi passioni; diviene passione trascinante e fanatizzante com'erano state, un tempo, le passioni religiose L'«amore sacro della patria» (come suona un verso della Marsigliese) dà una connotazione fortemente emotiva all'idea di nazione, fino al punto di fondare appunto una sorta di nuova religione, la religione della patria, che ha la sua fede, i suoi martiri, i suoi dogmi (in primo luogo l'assoluta necessità di ottenere o conservare l'indipendenza nazionale).In Italia – o meglio nell'ambito geografico comprendente la penisola, la Sicilia e la Sardegna – era diffusa da secoli la consapevolezza di far parte di una comunità definita da tratti letterari, storici e linguistici comuni. Negli anni della Restaurazione, la consapevolezza d'essere parte di una medesima nazione si affermò con forza presso i ceti colti dei vari Stati italiani, spinti a questo da una serie di opere diverse – tragedie, romanzi, poesie, drammi storici, melodrammi, dipinti –, che tutte però si riferivano a un insieme di valori, simboli, eventi storici (più o meno mitizzati), attinenti la nazione.Si pensi alle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo e dunque alla «nostalgica rivisitazione» dei grandi poeti della tradizione letteraria italiana compiuta dal protagonista «nel suo ultimo viaggio per l'Italia, da Petrarca a Parini e fino alle tombe di Santa Croce» in Firenze (G. Nicoletti). O, ancora, alla riscoperta/invenzione del passato nazionale realizzata attraverso opere come L'assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi o Ettore Fieramosca di Massimo d'Azeglio.La presenza della censura aveva impedito che nei vari Stati italiani si potesse affrontare liberamente il tema della nazione e della sua indipendenza; ma proprio questo «ebbe l'effetto imprevisto di rendere più sofisticato il discorso nazionale, e di spostarne l'ambito di elaborazione verso generi di più ampio consumo e diffusione» Il discorso nazional-patriottico che si diffuse nei primi decenni dell'Ottocento non si limitava a rappresentare la nazione, ad accreditarne l'esistenza come un soggetto storico necessario e ineliminabile, secondo quel che era un indirizzo della cultura del tempo e in particolare della cultura di matrice romantica, così sensibile al tema delle radici e delle specificità nazionali. Quel discorso, rappresentando la nazione italiana come asservita a dinastie straniere, incitava a lottare per dare all'Italia, alla propria patria, libertà e indipendenza.
mercoledì 26 settembre 2012
Tazzoli Enrico Napoleone
Canneto, 1812 – Mantova, 1852
Sacerdote e patriota. Professore di filosofia nel seminario di Mantova (1841), fu impegnato in molteplici attività di carattere filantropico rivolte soprattutto all'infanzia e all'educazione dei contadini. Dopo il 1848 entrò nella cospirazione mazziniana e divenne il principale responsabile del Comitato rivoluzionario mantovano: in tale qualità si dedicò soprattutto a organizzare la sottoscrizione delle cartelle del prestito lanciato da Mazzini per sostenere il movimento nazionale. Arrestato il 27 gennaio 1852 dalla polizia austriaca, gli venne sequestrato in casa il registro cifrato con i nomi dei sottoscrittori del prestito; registro che, inviato a Vienna, fu ben presto decrittato (la chiave del cifrario era il testo latino del Padre Nostro), portando all'arresto di numerose persone. Sottoposto a una lunga inquisizione, in cui tenne un contegno di esemplare coraggio, fu condannato a morte dopo che la Segreteria di Stato della Santa Sede ebbe imposto al vescovo di Mantova, pur contrarissimo, di sconsacrarlo riducendolo allo stato laicale. Venne impiccato sugli spalti di Belfiore il 7 dicembre 1852.
lunedì 24 settembre 2012
FERDINANDO PETRUCCELLI DELLA GATTINA
Nacque a Moliterno il 28 agosto 1815 da una famiglia della media borghesia. Suo padre Luigi, avvocato iscritto alla carboneria, e sua madre, Maria Antonia Piccininni, nobildonna di Marsicovetere, lo affidarono alle cure della nonna materna, quando era ancora bambino. Ferdinando non ricordò mai con piacere quel periodo dell'infanzia, poiché la sua indole ribelle non poteva conciliarsi con l'educazione rigida che gli veniva impartita dalla nonna.Nella sua formazione culturale, assunse un ruolo determinante la figura dello zio Francesco Petruccelli prete e poi exprete, laureatosi in chirurgia e medicina a Napoli e sembra che lui stesso abbia costituito la Loggia Massonica "L'Aurora Lucana". Questi rappresentava l'uomo di successo e l'esempio da imitare per tutta (a sua famiglia. Non fu un caso che proprio lo zio decise che Ferdinando doveva cominciare i suoi studi a Castelsaraceno, presso Monsignor Cicchelli. Questo periodo dell'infanzia fu determinante ai fini della formazione ideologica di Ferdinando, perché fu proprio in questi anni che nacque in lui il sentimento dell'anticlericalismo. Egli trovò un ambiente troppo chiuso nelle proprie metodologie e così retrogrado da portarlo ad allontanarsi completamente allo studio. Intervenne nuovamente lo zio che, per avviarlo a studi più seri e regolari, lo inviò presso il seminario di Pozzuoli. Fu l'ennesima prova del rifiuto di Ferdinando per i seminari, infatti non ottenne risultati scolastici positivi ed inoltre manifestò i suoi aspri sentimenti in una lettera di insulti al Vescovo del seminario e fu, di conseguenza, allontanato dalla scuota. Lo zio ritenne opportuno affidare il nipote ai Gesuiti a Napoli, perché considerati culturalmente superiori. Ferdinando non poté svestire t'odiata veste del seminarista, mentre in lui si accentuava sempre più il disprezzo verso i preti che considerava sleali ed intolleranti, nel contempo ottenne, però, ottimi risultati nella conoscenza delle lingue classiche. Fu un periodo importante questo, per Ferdinando, poiché, in seguito alla lettura di alcuni romanzi, scoprì una nuova dimensione della vita, che, lo portò ad intraprendere la professione laica di medico. Si laureò a Napoli in medicina e chirurgia e svolse per un certo periodo l'attività insieme allo zio ma, ben presto, si rese conto di quanto in lui prevalesse il desiderio dì intraprendere la carriera giornalistica e politica. Si iscrisse probabilmente alla Giovine Italia, col desiderio di poter ottenere una riforma costituzionale e l'unificazione del Regno. Nel 1840 morì lo zio Francesco che lasciò un'ingente somma in eredità ai parenti di Moliterno, e ciò diede la possibilità, al Petruccelli di realizzare uno dei suoi più grandi sogni: viaggiare nei più grandi centri culturali dell'Europa. Egli fu sempre dotato di uno spiccatissimo senso di osservazione, prerogativa che gli ispirò le minuziose ed efficaci descrizioni presenti nelle sue opere. Le esperienze più valide, il Petruccelli, riuscì -a conseguirle a Parigi ed a Londra, città che rappresentarono per lui, insieme a Napoli, i suoi punti di riferimento principali Se in Inghilterra riuscì a trovare te testimonianze delta persistenza della tradizione scottiana ed a riscontrare il notevole successo che incontravano i romanzi di Dickens, Parigi fu ritenuta, da lui, la capitale della cultura. Nel suo soggiorno in questa città poté fare incontri decisivi con scrittori di grande levatura come Balzac, De Musset, La Mennais, Saint Beuve, Gautier, La-Martine, Stendal. Ebbe inoltre l'opportunità di seguire le importanti lezioni universitarie tenute da Jules Michelette ed Edgard Quinett, presso il Collège de France, lezioni caratterizzate da un'originale polemica anticlericale. In esse veniva sostenuto che la storia di un popolo non è altro che la sua evoluzione verso la libertà e si metteva in evidenza il ruolo fondamentale dell'uomo nel determinare il corso degli eventi. La passione anticlericale, sorta in Ferdinando negli anni della giovinezza, si sviluppò appieno nell'ambiente parigino sotto l'influsso, appunto, dei grandi rappresentanti della filosofia laica francese. AI fanatismo e agli atteggiamenti di idolatria politico-religiosa, egli venne sostituendo la religione delle libere nazionalità, l'ideologia del progresso e dello Stato Costituzionale nuovo. Il contatto diretto con le realtà europee contribuì notevolmente ad arricchirlo dal punto di vista linguistico: gli fu di notevole efficacia formativa l'approccio con la grande stampa europea. soprattutto con il giornale francese "La Presse". Petruccelli conobbe il francese quanto e forse più della propria lingua. Nel 1842 ritornò in Italia con un bagaglio culturale ricco e rinnovato, che lo fece inserire tra i maggiori esponenti di quella che veniva definita l'Opposizione Europea. Fu in questo periodo che scrisse il suo primo romanzo storico "Malina da Taranto", che non fu apprezzato molto dalla critica del tempo, in quanto privo di toni originali. Seguì subito dopo "L'Ildebrando", nel quale si riscontrarono notevoli esaltazioni della figura del papa, che appaiono in forse contrasto con l'ideologia del Petruccelli, di chiara tempra anticlericale. Sul finire del '47 fu eletto deputato del Parlamento Napoletano, identificandosi con la Sinistra Parlamentare e si adoperò per l'attuazione di una politica che andasse incontro alle esigenze della piccola e media borghesia. Nella primavera del '48, in seguito alla situazione politica rivoluzionaria, il Petruccelli, insieme ad altri collaboratori, avvertì l'esigenza di trascrivere gli eventi e compilò un giornale denominato "Mondo vecchio e Mondo nuovo", che fu però rapidamente soppresso dai Borboni. II 15 maggio, giorno in cui si doveva inaugurare il nuovo parlamento, si giunse allo scontro a fuoco e Petruccelli fu tra i capì che organizzarono la rivoluzione di piazza e la resistenza sulle barricate. Fu costretto a fuggire perché ricercato dai Borboni, dapprima a Roma e qualche giorno dopo partì per la Sicilia, già insorta, prendendo parte a vari combattimenti, ma fu costretto a ritirarsi dopo la definitiva sconfitta a Campotenese. Fu arrestato, ma solo per pochi giorni, e, non appena in libertà, si adoperò per risvegliare il movimento rivoluzionario, ma l'impresa fallì. Questo episodio lo portò a nascondersi ulteriormente dai Borboni. S'imbarcò per la Francia dove trascorse dodici anni di esilio tra Parigi e Londra. I fatti accaduti nel '48 che lo vedono protagonista, vengono narrati nell'opera: "Notti degli emigranti a Londra". Lo spirito rivoluzionario che animava Ferdinando lo portò sulle barricate di Parigi nel 1851 e nel 1870, ottenendo ben tre espulsioni dalla Francia. Egli non smise mai di seguire le vicende politiche dell'Italia dove era giunto come corrispondente del "journal des Debats". Ritornò in Italia, dopo la caduta del regime borbonico, e, preso dall'entusiasmo, si candidò all'elezione per il primo Parlamento dell'Italia unita. Egli rimase molto deluso, a causa dei compromessi esistenti all'interno di questo sistema e, quell'entusiasmo, che lo caratterizzò inizialmente, andò via via scemando, fino a scomparire del tutto. Ferdinando decise drasticamente di abbandonare il suo paese e lo fece con animo angustiato e deluso tanto da considerare l'Italia non più una madre ma una matrigna.Le opere emblematiche di questo periodo sono: "I moribondi del Palazzo Carignano" e "Fattori e Malfattori della politica europea contemporanea" dove, oltre ad esternare il proprio disagio e la propria delusione, come uomo politico in Italia, si sofferma in taglienti critiche nei confronti di alcuni uomini politici del tempo, senza risparmiare coloro che appartenevano alla sua stessa corrente politica. Altre opere del Petruccelli sono: "La storia della Rivoluzione napoletana del `48", "Giorgione", "Imperia", "I suicidi di Parigi", "Il sorbetto della regina".Si stabilì definitivamente in Francia dove nel 1873 fu colpito da paralisi parziale e, nonostante le sue giornate fossero caratterizzate da acuti dolori, continuò il suo lavoro dettando gli scritti alla moglie o agli amici. II Petruccelli fu darwinista e credette nell'evoluzione della materia. Fu il primo giornalista di spirito europeo nell'Italia nuova, egli infatti pensava in termini europei e spesso scriveva con toni profetici. Possedeva una memoria straordinaria e una potenza evocativa singolare e rappresenta una delle espressioni più vive della cultura laica del nostro Risorgimento. Le qualità che faranno del Petruccelli uno scrittore originale ed efficace sono la potenza e la varietà di immagini, il lampeggiare dei paradossi ed i giudizi taglienti ed incisivi. Ebbe un animo molto impressionabile e, di conseguenza, un po' soggetto ad antipatie e simpatie improvvise, ma anche nei suoi giudizi più aspri, fu sempre disinteressato. Varie volte, accortosi di aver errato, sentì il dovere di modificare le sue opinioni. Non tollerava la corruzione e le brighe politiche, per cui non esitò mai a denunciarle. Petruccelli, secondo quanto precisa la moglie Maude, non avversava i preti, per aver iniziato ad odiarli nella scuola, nel Seminario e nella persona dello zio, ma perché aveva acquisito una mentalità positivistica, che lo portava al rifiuto di tutto ciò che ostacolava il progresso e la civiltà. Il 29 marzo 1890 si spense senza lasciare beni, quasi povero, probabilmente perché non fu mai avverso al risparmio. Sua moglie ne fece cremare le spoglie che furono tumulate a Londra per volontà dello stesso Petruccelli. Egli ebbe come preoccupazione costante della sua vita, quella di conservare integra l'onestà della persona.
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sabato 22 settembre 2012
Antonio Panizzi
L' avvocato Antonio Panizzi fu condannato a morte in Italia ma nominato Sir Anthony Panizzi dalla regina Vittoria dopo avere rifiutato l' onorificenza per ben due volte. Nel 1822 Panizzi era un ispettore scolastico quando - il 22 ottobre - venne arrestato dal duca Francesco IV, appena restaurato, che lo sospettava di essere un carbonaro. Panizzi negò l' accusa perché apparteneva invece ai Sublimi Maestri Perfetti. Con l' aiuto del secondino, riuscì a fuggire fino al Ticino. Molte pressioni vennero fatte perché gli svizzeri si liberassero di lui, e nel maggio 1823 Panizzi era già a Londra. L' anno seguente una lettera dall' Ispettore ed esattore di Finanza di Modena raggiunse Panizzi. Era un conto di 225 franchi e 25 centesimi per la sua esecuzione in effigie, compresa una mancia per il boia. Panizzi rispose ironicamente «dai Campi Elisi». Foscolo consigliò Panizzi di andare a Liverpool dai suoi amici filoitaliani, il banchiere e patrono della cultura italiana Sir William Roscoe e il ministro della chiesa unitaria reverendo William Shepherd, che gli trovò in fretta lavoro come «venditore di verbi ed articoli»: imparare l' italiano veniva allora considerato obbligatorio per un' educazione liberale. Panizzi aveva il dono di coltivare importanti amicizie. E quando Foscolo lo raccomandò come avvocato esperto in diritto romano, per aiutare il suo amico Henry Brougham in un caso complicato, fece una grande impressione sull' uomo che stava per diventare Lord Cancelliere e Lord Brougham. Dato che Brougham faceva anche parte del Consiglio dell' University College di Londra, appena fondato, Panizzi ne divenne il primo professore di italiano. Pochi studenti volevano dire pochi soldi: così Brougham - membro anche del Consiglio del British Museum - assicurò a Panizzi il posto di assistente bibliotecario, nonostante i Tory obiettassero che quell' incarico dovesse essere affidato a qualcuno che non fosse uno straniero appartenente alla Chiesa cattolica romana. Come risposta Panizzi presentò con successo domanda per la naturalizzazione britannica - avvenuta con Atto del Parlamento - grazie al sostegno di due membri della Camera dei Lord, e alla sua capacità di coltivare molti amici influenti. Panizzi si sarebbe in seguito assicurato la nomina a cavaliere perché fu lui a compilare il primo catalogo dei libri stampati del British Museum. Inoltre per Atto del Parlamento trasformò poi questo catalogo in una Biblioteca del copyright che doveva ricevere per legge una copia di ogni libro pubblicato, introducendo così per la prima volta l' idea della proprietà intellettuale (tutti i romanzi di Dickens negli Stati Uniti erano «copie pirata» e quando il romanziere protestò venne attaccato come un nemico della libertà di espressione). Panizzi inoltre disegnò e costruì la famosa Sala di Lettura a cupola frequentata da Marx. La sua invenzione della proprietà intellettuale probabilmente ebbe conseguenze più epocali di Marx: fornì la materia prima di quella rivoluzione informatica con la quale Murdoch e Microsoft hanno poi trionfato, non solo su Marx e la meccanizzazione, ma anche sul tempo e sullo spazio. Comunque, Panizzi ottenne nel 1861 la sua carica di senatore italiano e la legion d' onore dall' imperatore Luigi Napoleone nel 1852, per il suo lavoro pubblico e segreto a favore di un' Italia costituzionale. Non solo Panizzi diede aiuto e trovò lavoro ai rifugiati italiani, ma come commensale abituale alle tavole che contavano sostenne la causa dell' Italia. Nei weekend era un ospite abituale a Broadlands, la tenuta di campagna dell' «italianissimo» Lord Palmerston, ministro degli Esteri nel 1848-49 e primo ministro nel 1860. Durante la rivoluzione del 1848 i lombardi avevano nominato Panizzi loro ambasciatore presso la regina Vittoria a Londra mentre Cavour, che gli fece visita nel 1852, lo usava come tramite per Palmerston. Nel 1845 Panizzi, ora possessore di un passaporto britannico, aveva incontrato il duca Francesco di Modena a Vienna, ma l' intransigente fantoccio asburgico gli rifiutò il perdono. Quando nel 1851 aveva fatto visita a Poerio e Settembrini in prigione a Napoli trovandoli in condizioni peggiori di quanto non fosse sembrato a Gladstone, che aveva seguito il processo, Panizzi non potè far altro che confermare il giudizio sul regime borbonico espresso dallo stesso Gladstone nella famosa lettera al suo primo ministro tory Lord Aberdeen: «La negazione di Dio eretta a sistema di governo». Subito Panizzi si lamentò di persona con il Re Bomba (Ferdinando II re di Napoli) che interruppe così il colloquio: «Addio, terribile Panizzi». Deciso ad aiutare i nobili ministri costituzionali imprigionati da Francesco II, che aveva sospeso la sua Costituzione del 1848 e trascinato i ministri in galera, Panizzi iniziò una corrispondenza segreta tramite lettere fatte trapelare di nascosto e inchiostro invisibile. Poi cominciò a progettare un piano per liberare i ministri dalla loro isola-prigione di Ponza con la forza. Panizzi finanziò l' impresa con buona parte del suo salario di 1.400 sterline ma raccolse denaro anche da Lord Overstone, Lord Zetland, Lord e Lady Holland, e la signora Gladstone che contribuì con 100 e 200 sterline prese dai suoi amici. Lord e Lady Palmerston contribuirono in modo anonimo mentre Sir William Temple, fratello di Lord Palmerston e ambasciatore plenipotenziario britannico a Napoli, avrebbe coordinato quella che in codice chiamavano «la speculazione commerciale». I conservatori erano al governo così Palmerston, il ministro degli Esteri ombra, chiese al vero ministro degli Esteri Lord Clarendon di rendere disponibili dei soldi dal fondo dei servizi segreti per aiutare a comprare una nave, The Isle of Thanet, e ingaggiare Garibaldi - la cui nave era ormeggiata a Newcastle - come comandante della spedizione. Garibaldi stesso aveva dubbi sul successo di una avventura così rischiosa, così fu tutto sommato una fortuna che la nave affondasse in una tempesta nel 1856 e che Sir William Temple venisse informato con queste parole: «La nostra speculazione commerciale è cancellata». Sarà la diplomazia, dopo tre anni di rottura delle relazioni per protesta, a ottenere il rilascio dei ministri costituzionali imprigionati. Tutta questa attività da cospiratore non impedì a Panizzi di diventare, nell' approvazione generale, capo bibliotecario al British Museum in quello stesso anno. E in più Garibaldi - durante la sua trionfale visita nel 1864 - pretese di cenare con il suo compagno di tresche e di visitare con lui la tomba di Foscolo a Chiswick. Panizzi sarà stato pure un inglese d' adozione ma nel cuore, e nelle azioni, rimase un patriota italiano.
martedì 18 settembre 2012
Angelo Masini
Il giovane eroe che cadde accanto a Garibaldi Il colonnello dei lancieri della morte di Bologna perse la vita il 3 giugno 1849 per difendere la Repubblica RomanaQuella mattina non ebbe neanche il tempo di indossare la sua bella giubba blu con gli alamari d' oro. Fu svegliato dall' attendente. «I francesi stanno per attaccare. Sono al Gianicolo. Garibaldi chiede di lei». Angelo Masini si precipita fuori dalla sua casa di via Condotti. Quella Roma sonnacchiosae amorfa, pensa fra sé, è pronta ad adattarsi. Il colonnello bolognese è turbato, la Repubblica Romana ( nella foto grande:i difensori con le insegne) è in pericolo. «Maledetto il giorno in cui, per ubbidire a Mazzini, non ricacciammo in mare i soldati di Oudinot». Iniziano le cannonate, piovono proiettili, arriva l' ordine. «Respingerli». I Lancieri della morte di Masini sono pronti: dietro di loro, centinaia di garibaldini. Un gesto, una sciabola puntata e comincia l' inferno. Cadono in tanti, colpiti da fucilate che stracciano le divise. Masini perde sangue, ha un braccio ferito e impugna a fatica la sciabola. Si fa medicare. «Stringi forte, questa benda». Il cavallo schiuma, vorrebbe riposare, ma uno strattone delle briglia lo riporta in battaglia. Masini con un cenno richiama i suoi Lancieri, ne mancano tanti. Di nuovo, con la sciabola, disegna un cerchio nell' aria, poi la punta d' acciaio indica Villa Corsini, dove i francesi sono più numerosi. Si lancia per primo all' assalto, supera la cancellata e arriva sulla grande scalinata di accesso alla residenza patrizia. I garibaldini lo seguono, si esaltano nel vederne il coraggio, ma non si accorgono che il loro colonnello, l' amico di Garibaldi, quel giovane bolognese intransigente ha nove palle di piombo nel petto. Per lui è finita. E' la sconfitta. Ci vorranno giorni prima di poterne recuperare il corpo maciullato. Oggi non sappiamo neppure dov' è sepolto. Era il 3 giugno 1849 quando Angelo Masini morì da eroe vero: con lui, molti dei suoi Lancieri. Aveva conosciuto Garibaldi a Bologna nel novembre del ' 48, quando il generale s' era acquartierato vicino a Pianoro e le autorità felsinee gli avevano imposto di non far entrare le giubbe rosse, ritenute poco rassicuranti per l' ordine pubblico. Garibaldi aveva capito subito che Masini era un uomo d' arme come lui: non gli parve vero di arruolare i Lancieri. Questi non erano inquadrati in nessun esercito: erano l' esercito di Masini, che lui si inventò e mantenne a sue spese per poter partecipare alle guerre di quegli anni. Una cavalleria di circa 50 uomini addestratissimi, ed elegantissimi, in un' uniforme dal giubbotto blu , i calzoni rossi e il chepì con le insegne di Bologna e la scritta "Libertas". Natoa Bologna il 24 settembre 1815, Angelo Masini morì che aveva 34 anni. Alto, magro, occhi azzurri, spavaldo, s' era unito nel 1831, non ancora sedicenne, ai volontari che si battevano contro i papalini. Nel 1836 lo ritroviamo in Spagna nell' esercito della "liberale" Isabella, decorato per le sue azioni temerarie nella "guerra carlista". Torna a Bologna, viene imprigionato: passerà quasi un anno a Castel Sant' Angelo. Fu forse l' unico periodo in cui s' applicò alle letture:a Bologna ne ricordavano scarse inclinazioni per gli studi e forti per le fucilate quando, ancora adolescente, tirava ai vasi da fiori. Nel ' 48 partecipò alla Prima guerra d' Indipendenza. Quando arrivò in città la notizia della caduta della Repubblica e della sua morte, molte bolognesi lo piansero. «Bastava vederlo una volta sola per amarlo e apprezzarlo», scriverà Garibaldi. Il Museo del Risorgimento ne conserva quell' uniforme che non indossò sul Gianicolo e diversi do cumenti. Fra questi, un minuzioso ordine del giorno per lo squadrone: perfino dove applicare, sulla giubba, i distintivi.
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domenica 16 settembre 2012
Garibaldi e la musica
L'Eroe dei Due Mondi amava la musica, non a caso nel Museo sono custoditi vari strumenti recentemente restaurati e funzionanti. I brani preferiti da Giuseppe Garibaldi si prestavano al canto, ed erano eseguiti al pianoforte dalla figlia Teresita. Non è difficile immaginare le serate in allegria della famiglia Garibaldi, risuonanti della voce baritonale del Generale, che cantava pezzi italiani oltre che dell'antico repertorio di canzonette francesi, nizzarde e genovesi. Si ascoltavano altresì inni, stornelli, canti popolari, e serenate dai dischi "Ariston", nonché valzer, quadriglie polke e mazurche. La passione di Garibaldi per Verdi nasceva dal fatto che nelle sue opere il compositore sottolineava, attraverso la musica, il gioco perverso al quale dovettero soccombere tante figure emblematiche capaci, d'altronde di emozionare le folle. Tutti i compositori prediletti da Garibaldi, come Rossini, Bellini, Donizetti erano capaci di racchiudere attraverso le note e le parole i caratteri e le passioni forti dei personaggi. In molte opere da lui prescelte si nascondeva l'ideologia nazionalista e il fondamento del diritto all'autodeterminazione dei popoli e si avvertivano motivazioni indipendentiste o di emancipazione politica.
sabato 15 settembre 2012
Maria Sofia Amalia di Wittelsbach
Possenhofen, Baviera, 1841 – Monaco di Baviera, 1925
Regina delle Due Sicilie. Passò la giovinezza in Baviera con i suoi numerosi fratelli e sorelle, tra le quali Elisabetta, che sposò l'imperatore Francesco Giuseppe. Il 22 maggio del 1859 sposò Francesco di Borbone, salito al trono di Napoli alla morte del padre, il re Ferdinando II, con il nome di Francesco II.
Donna di forte carattere, esercitò un così grande ascendente sul marito, che le era legatissimo, al punto da prenderne facilmente il sopravvento nella direzione degli affari familiari e dello Stato. Di fronte all'avanzare di Garibaldi e delle sue truppe verso Napoli, Maria Sofia consigliò la resistenza ad oltranza ma non fu ascoltata.
Quando la corte fu costretta a ritirarsi a Gaeta, partecipò personalmente alla difesa della cittadella contro le truppe italo-piemontesi, incoraggiando i soldati e visitando gli ospedali pieni di feriti e di ammalati. Dopo la capitolazione della dinastia borbonica si ritirò a Roma, dove rimase fino al 1870 coltivando progetti per la riconquista del Regno perduto con l'aiuto dei legittimisti, manovre cui i servizi di informazione del governo italiano risposero con una subdola campagna di denigrazione, mirante a dipingere Maria Sofia come un'avventuriera di facili costumi.Quando le truppe italiane occuparono Roma, Maria Sofia si stabilì con il marito a Parigi. Rimasta vedova nel 1894, dalla sua nuova dimora di Neuilly-sur-Seine continuò a sperare nella restaurazione della vecchia monarchia, accogliendo in casa socialisti e anarchici fuorusciti, nonché dubbie figure di millantatori.La sua irrequietezza giunse al punto che nel 1904 il governo italiano, dopo aver arrestato ed espulso un agente da lei inviato, dovette per via diplomatica intervenire presso l'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe e la repubblica francese perché ammonissero l'ex regina. Trascorse gli ultimi anni a Monaco di Baviera.
giovedì 13 settembre 2012
Sacchi Gaetano
Pavia, 1824 – Roma, 1886
Generale e patriota. Al seguito di Garibaldi in America, nel 1848 tornò con questi in Italia e combatté al suo fianco a Luino, contro gli austriaci, e nel 1849 in difesa della Repubblica romana.Costretto all'esilio dopo la Restaurazione del governo pontificio, nel 1859 tornò in patria per arruolarsi nei Cacciatori delle Alpi, e l'anno seguente partecipò alla spedizione dei Mille.Nel 1862 entrò nell'esercito regolare col grado di maggiore generale; fu senatore dal 1876.
martedì 11 settembre 2012
Bentivegna Francesco
Corleone, 1820 – Mezzoiuso, 1856
Patriota siciliano. Appartenente ad una numerosa famiglia, avviato dapprima alla carriera ecclesiastica, passò poi nel Real Convitto Ferdinando di Palermo. Esuberante e irrequieto, non completò il corso degli studi; mostrò invece interessi alla vita politica dell'isola, condividendo quei sentimenti antiborbonici diffusi nel ceto intellettuale e tra le élites siciliane, tendente a separare la Sicilia da Napoli secondo la costituzione del 1812. Partecipò all'insurrezione di Palermo del gennaio 1848 e alla difesa della città nel maggio 1849. In prigione dal 1853 al 1856, riorganizzò, appena libero, una rivolta contro il governo borbonico, subito soffocata. Fu fatto prigioniero e fucilato.
domenica 9 settembre 2012
Ferrari Andrea
(Napoli, 1770 circa – Terracina, 1849)
Generale e patriota. Partecipò ad alcune campagne napoleoniche e nel 1820 ai moti rivoluzionari. Esule, combatté in Algeria (1831) e in Spagna (1834) tra le file dei costituzionali.Tornato in Francia servì nell'esercito regolare fino al collocamento a riposo (1844). Raggiunse nel 1848 lo Stato pontificio con l'incarico di formare una legione di volontari che partecipasse alla lotta contro gli austriaci. Partecipò alla difesa di Venezia e nel dicembre 1848 raggiunse Roma dove il governo repubblicano gli affidò un corpo d'osservazione a Terracina.
sabato 8 settembre 2012
Anzani Francesco
(Alzate, Como, 1809 – Genova, 1848)
Patriota italiano. Studente di matematica a Pavia, abbandonò gli studi ed emigrò a Parigi. Fu poi fra i volontari di Oporto nell'esercito costituzionale portoghese, quindi in Spagna, nella legione straniera, al comando di Gaetano Borso di Carminati.Esule in Sud America combatté con Garibaldi in Uruguay partecipando alla difesa di Montevideo assediata dalle truppe di Oribe. L'elezione di Pio IX lo convinse a partire insieme a Garibaldi e ad altri pochi esuli.Il 15 aprile 1848, già gravemente ammalato, salpò da Montevideo alla volta dell'Europa. Sbarcò a Nizza il 21 giugno. Morì due settimane dopo a Genova in casa del vecchio amico pittore Gaetano Gallino.
giovedì 6 settembre 2012
Michele Lessona
Michele Lessona (Venaria Reale, 1823- Torino, 1894), medico, naturalista, divulgatore, evoluzionista, diffusore del pensiero darwiniano e senatore del Regno d’Italia nasce il 20 settembre 1823 a Venaria Reale, nei pressi di Torino, da Agnese Maria Cavagnotti e da Carlo, docente di medicina veterinaria presso la Scuola di Venaria. La prima formazione avviene in casa, con insegnanti privati. A 11 anni si trasferisce però a Torino per frequentare la scuole superiori e poi iscriversi all’università, alla facoltà di medicina. Si laurea nel 1846 e inizia a lavorare presso un ospedale della capitale sabauda. A causa di contrasti con la famiglia, che avversano il suo matrimonio con Maria Ghignetti, emigra all’estero e dopo un lungo giro finisce in Egitto, dove svolge un’intensa attività clinica. Tuttavia perde la moglie (muore nel corso di un’epidemia di colera) e con la figlia, nel 1850, torna a Torino. Iniziando una nuova carriera, quella di naturalista. È già un evoluzionista convinto, di scuola lamarckiana. Grazie a Filippo De Filippi ottiene di insegnare scienze naturali prima presso un liceo astigiano, poi all’università di Torino torinese e infine, nel 1854, ottiene una cattedra all’Università di Genova. Nella città ligure Lessona resta dieci anni, durante i quali si risposa. Nel 1861 fonda l’Archivio per la zoologia, l'anatomia e la fisiologia. Nel 1864 ottiene una cattedra a Bologna, ma poi viene chiamato a Torino. Svolge un’intensa attività di ricerca (è uno zoologo attento alla fauna piemontese) e diventa famoso dopo un viaggio di studio in Persia. Intanto coltiva la sua opera di divulgatore, sia attraverso i quotidiani sia pubblicando libri. Di particolare successo è Volere è potere, uscito nel 1869 e destinato a diventare uno dei primi best sellers nell’Italia unita.Lessona dirige anche una delle prime riviste di divulgazione scientifica italiane, La Scienza a dieci centesimi.Ma è ormai uscita l’Origine delle specie di Charles Darwin e Lessona si fa gran divulgatore del pensiero del naturalista inglese in Italia. In particolare traducendo (L'origine dell'uomo, nel 1871); il Viaggio di un naturalista intorno al mondo, nel 1872 e La formazione della terra vegetale per l'azione dei lombrici, nel 1882. Nel 1883 scrive un libro divulgativo sul naturalista inglese, intitolato Carlo Darwin.Intanto dal 1877 e fino al 1880 diventa rettore dell'Università di Torino. Un’esperienza che narrerà in un nuovo libro, Confessioni di un rettore (1880). L’anno dopo diventa presidente della Reale Accademia di medicina di Torino e poi a seguire, membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e Presidente dell'Accademia delle scienze di Torino. Nel 1892, infine, diventa Senatore del Regno. È molto attivo in campo soacile. Assicura le sue prestazioni sia di medico si di divulgatore alle società operaie torinesi, ed è consigliere comunale di Torino dal 1877 fino al 1893.
lunedì 3 settembre 2012
BOZZO GIO. BATTA
BOZZO Gio. Batta (n. 9-III-1841 a Genova, m. 5-XI-1909 ivi), figlio di Francesco e di Bagnaseo Maria, partito con Garibaldi da Quarto, appartenne al corpo dei Millo, prima come bersagliere nella compagnia Bixio, e poi, dal 12 luglio 18óO, nel battaglione carabinieri genovesi al n, 267 di matricola. In premio del valore dimostrato nel combattimento di Milazzo ottenne il grado di caporale in dotto battaglione il 22 luglio 1860. Finita la campagna meridionale, fu congedato a Caserta il 6 dicembre 1800. Ma, soggetto al servizio militare obbligatorio, ed ascritto l'anni appresso alla seconda categoria del contingente di leva del 1861, venne chiamalo sotto le armi il 14 marzo 1802 e rimase nell'esercito regolare, snidato di seconda classe, e quindi caporale, fino al 1.° ottobre 1864 partecipando alla repressione del brigantaggio. Richiamato in servizio, secondo la circolare 28 aprile 18GG, venne infine congedato in Sant'Arcangelo TU giugno dell'anno medesimo. Nel 18G7 ritornò garibaldino a Montcrotondo ed a Montana, dove si distinse dirigendo il tiro dei due cannoni di cui disponeva Garibaldi in quella campagna. Il 13. esercitò in gioventù il mestiere dell'untore di polli insieme al padre conciatore, tenne poi per una diociaa d'anni il posto di provveditore dei galeotti del forte Castellacelo in Genova, e nell'ultimo periodo di sua vita quello di vivandiere militare alle caserme dell'Annona, pure in Genova.
sabato 1 settembre 2012
Angelo Tarantini
Un maddalenino tra i Mille di Garibaldi
Si hanno notizie documentate
sulla presenza della famiglia Tarantini nell'arcipelago già dal 1811. All'epoca
La Maddalena era una piccola comunità, indipendente dalla madrepatria corsa da
più di quarant'anni e ormai inserita nel Regno di Sardegna; una delle sue
attività economiche più importanti era, ovviamente la pesca. La storia era già
entrata in rapporto con le acque dell'Arcipelago: Un giovane tenente
d'artiglieria, Napoleone Bonaparte, aveva guidato un tentativo di conquista
francese dell'isola, nel febbraio del 1793, fallito per la resistenza dei
locali e per il coraggio in particolare di un nocchiere della Regia Marina
Sarda, il maddalenino Domenico Millelire, al quale per tale azione fu concessa
al prima medaglia d'oro al valor militare del piccolo Regno sabaudo. Dalla fine del Settecento, poi,
l'Arcipelago era divenuto sede della Regia Marina Sarda, riparatasi nelle sue
acque per fuggire alle conquiste napoleoniche. Infine, tra il 1803 e il 1804,
L'ammiraglio della Marina Britannica Horatio Nelson soggiorno nella rada
prospiciente la costa maddalenina, da dove, poteva meglio seguire gli
spostamenti dei nemici francesi. In questo quadro storico, a
cavallo tra il Settecento e l'Ottocento, la famiglia Tarantini, di origine
procidana, si mosse, come molte altre famiglie di pescatori e corallari
provenienti dall'area campana, alla ricerca di migliori condizioni lavorative
lungo le coste sardo-corse. Dai documenti in possesso dell'archivio
parrocchiale di La Maddalena si trova come capostipite un certo Angelo
Tarantini, sposato a Maria Teresa Jannò (Jannone) e dal matrimonio nacquero
cinque figli: Clara, nata attorno al 1793, Salvatore, nato nel 1795, Antonio e
Giuseppe, nati nel 1798 e Maria nata presumibilmente all'inizio del nuovo
secolo. Mentre per la prima figlia si
trovano precisi riferimenti sulla provenienza dall'isola di Procida, per gli
altri è attestata la provenienza dalla città corsa di Bastia. si può quindi
ritenere che tutta la famiglia Tarantini, lasciata Procida, si sia diretta da
prima a Bastia, dove rimase per lo meno una decina d'anni e solo in un secondo
momento si stabilì a La Maddalena, nel primo decennio dell'Ottocento. Il nostro Angelo Tarantini
nacque a La Maddalena, in regione Carone n. 5 in località Moneta, il 13
dicembre 1836 da Giuseppe e Maria Scotto, Il padre Giuseppe di professione era
marittimo, imbarcato su un bovo, tipica imbarcazione da traffico molto comune
in Liguria, impegnato nei traffici nel Mediterraneo, è probabile che egli visse
a lungo lontano dall'arcipelago come testimonia il fatto che Angelo, suo unico
figlio, nacque quando lui aveva già trentotto anni, in un periodo nel quale
ogni famiglia, comprese quelle dei fratelli e delle sorelle, era composta da
numerosi figli. I Tarantini, sicuramente, erano
tutti legati ad attività marittime e il loro livello economico era basso: ciò è
confermato dal fatto che "nessuno dei Tarantini risulta proprietario, al
contrario degli altri isolani, né di casa né di vigna (1). Angelo Tarantini,
giovanissimo, rimase orfano di padre, infatti il padre Giuseppe morì all'età di
soli quarantacinque anni nel 1843. Il registro parrocchiale, a conferma dello
stato di indigenza dellafamiglia, riporta nell'atto di morte del padre la
seguente frase: testamentum non fecit quia pauper". E' importante rilevare un fatto:
sempre dai registri parrocchiali appare che, come le famiglie Tarantini
improvvisamente apparvero nella nostra isola, così altrettanto improvvisamente scomparvero,
in particolare dalla metà dell'ottocento, dopo la morte di Giuseppe (1843),
Antonio (1853) e Salvatore (1854), non
risultano più decessi e nascite della nuova generazione, tanto da farne
supporre un progressivo distacco dall'isola, quanto meno nella discendenza
maschile. Nella loro permanenza a La
Maddalena vi è solo un episodio che lega queste famiglie alla figura del
Generale Garibaldi. Siamo nel 1849, nel periodo della breve presenza coatta di
Garibaldi nell'arcipelago, dopo la caduta della Repubblica Romana, la fuga
verso Venezia, la morte di Anita e l'arresto che egli subì a Chiavari il 6
settembre dello stesso anno. Era il 12 ottobre 1949 e
Garibaldi si trovava nella vigna della famiglia maddalenina Susini Millelire,
con i quali era legato da consolidati rapporti di amicizia. Si possono seguire
i fatti, dalla narrazione del dr. Angelo Falconi, pubblicata in un suo
opuscolo. "Adunque, tutti gli uomini della comitiva, mentre le donne
accudivano nella casetta ai preparativi del pranzo, con a capo il Generale, si
recarono all'Isuleddu, che sta di contro a Caprera dalla parte di tramontana,
per la partita di pesca prestabilita. In quei paraggi il vento infuriava e il
mare erasi fatto grosso; una barca di pescatori, con a bordo il patrono Antonio
Tarantini, un figlioletto di questo (Domenico (2) che vive ed è in Maddalena
pensionato) e altri due uomini, non potendo reggere il fortunale, si capovolse.
E fu tutt'uno vedere Garibaldi tuffarsi in mare e condurre alla spiaggia i tre
uomini; ma avendogli detto che il ragazzo, avvolto nella vela, era calato in
fondo, si rituffò, stette alcuni secondi sott'acqua e ricomparve con in braccia
il piccolo Tarantini quasi svenuto...." All'epoca Angelo Tarantini aveva
tredici anni e non è improbabile che il ragazzo rimase colpito da quel gesto di
coraggio e che gli avvenimenti successivi della sua vita possano essere meglio
compresi proprio alla luce di questo fatto. Da quel 1849 passarono molti
anni: Garibaldi visse un secondo esilio americano, lavorò in Nord America,
negli Stati Uniti, viaggiò nell'Estremo Oriente e tornò in Europa nel 1854. L'anno dopo, con l'aiuto dei
tanti amici rimastigli nell'arcipelago (in particolare Pietro Susini), riuscì
ad acquistare numerosi terreni nell'isola di Caprera. Fu per lui un nuovo
inizio, con la costruzione di una casa e di un'attività agricola. Nel 1859
combatté, guidando i Cacciatori delle Alpi, nella Seconda Guerra di
Indipendenza e nel 1860 iniziò i preparativi di quella che fu la più grande
impresa della sua vita, La Spedizione dei Mille, partito da quarto, presso
Genova, il 5 maggio 1860 Agli inizi di maggio del 1860,
all'età di ventiquattro anni, Angelo Tarantini si trova proprio a Quarto, e si
unirà, unico maddalenino insieme ad altri due sardi Efisio Gramignano e
Francesco Grandi fra i 1089 che accompagneranno il Generale Garibaldi nella
spedizione contro il regno borbonico. Per quanto riguarda le ragioni
della presenza di Tarantini a Quarto in quel momento si possono fare
principalmente due supposizioni: la prima che fosse stato arruolato, come gran
parte dei giovani maddalenini di quel periodo, nella Regia Marina Sarda e pertanto
si trovasse su qualche nave di base a Genova; la seconda ipotesi può essere che
lui svolgesse: la seconda ipotesi può essere che lui svolgesse, come il padre
il mestiere di marittimo e che quindi si trovasse all'epoca nei pressi di
quarto per motivi di lavoro. A tale proposito va anche
considerato che suo padre aveva lavorato su un bovo, naviglio assai diffuso i ,
e che forse, durante gli anni della sua attività, possa aver intessuto
relazioni e conoscenze, che furono utili al giovane Angelo, ormai capofamiglia,
quando venne il momento di trovare un lavoro. In entrambi i casi è comunque
impossibile spiegare perché il Tarantini abbia deciso di aderire alla
spedizione dei Mille, ne azzardare una interpretazione dei sui ideali o delle
sue aspirazioni patriottiche; in definitiva l'unico episodio che lega le
famiglie Tarantini di La Maddalena con Garibaldi e il già citato del 1849 del
piccolo Domenico. Dopo lo sbarco a Marsala dell'11
maggio, la documentazione non da grandi notizie di Tarantini nella marcia verso
Palermo, e poi verso Milazzo: si sa che entrò a far parte del Servizio
Sanitario dei Mille (ruolo probabilmente assegnatoli al momento in cui il corpo
iniziò ad operare in terraferma), servizio costituitosi fin dall'inizio grazie
all'energia dell'inesauribile Jessie
White Mario e di Agostino Bertani, al quale venne dato l'incarico di
Sottocommissario di guerra. Nello specifico, Tarantini venne
inquadrato nell'Ambulanza Generale per l'esercito di Sicilia, dipendente allora
dal Commissario di guerra Michele Garini. La conferma di ciò avviene da
limitati documenti che si trovano presso il fondo dell'Istituto per la Storia
del Risorgimento di Roma. Non si conoscono le ragioni di questa sistemazione,
ma certamente essa farebbe supporre una mancanza di precedenti esperienze
militari del Tarantini o una sua adesione ad anteriori campagne belliche. Sempre tra i documenti del sopra
citato Istituto, si trovano altri riferimenti al nostro personaggio: un buono
datato Palermo, per il tenente d'ambulanza Angelo Tarantini", relativo al
ritiro di un paio di pantaloni e un paio di scarpe; una lista, datata Messina
27 agosto 1860, voluta da Garibaldi stesso al fine di prevenire l'abuso di
gradi militari da parte delle truppe, che riporta l'elenco completo degli
ufficiali e dei sottufficiali invitati ad iscriversi (nell'elenco figura Angelo
Tarantini, che riporta solo il suo nome senza il grado, con una calligrafia
infantile, fatto che denoterebbe una modesta preparazione culturale). L'ultima notizia di Tarantini
durante la spedizione dei Mille, si riferisce ad una nota, datata Napoli 21
settembre, inviata dal "Luogotenente Tarantini" al commissario Garini
per segnalare quattro disertori. Da ciò si possono desumere due fatti: Intanto
che partecipò alla spedizione almeno fino a Napoli, inoltre che non si può
affermare con certezza che si sia trovato al Volturno, nella battaglia del 1°
ottobre, decisiva per le sorti dell'intera spedizione; la qualifica di
luogotenente farebbe poi pensare ad un innalzamento di grado, rispetto a quello
di tenente del maggio dello stesso anno. Germano Bevilacqua asserisce
che Angelo Tarantini, terminata l'impresa dei Mille, sia stato uno degli
ufficiali che nel 1861 vennero ammessi nei quadri del Regio Esercito (complessivamente
furono trecentoventi, dei quali una cinquantina tornò presto a casa); la sua
permanenza durò molto poco, infatti il 20 maggio 1862 Tarantini, Con Missori,
Nullo, Fruscianti, Miceli ed altri, si dimise dall'esercito regolare. A questo punto è plausibile
pensare che il nostro uomo sia tornato in sardegna e abia definitivamente
abbandonato l'esperienza non solo garibaldina, ma anche risorgimentale, e abbia
lasciato una vita militare che, dai dati in possesso, sembra essersi racchiusa
in pochi anni. Insomma, un periodo di grande fervore patriottico, culminato
nella partecipazione alla più importante e decisiva impresa militare
dell'intero Risorgimento italiano, compreso fra due lunghi periodi di una vita
quasi sconosciuta e dove l'uomo Tarantini sembra essere lontano dalle
eseperienze risorgimentali. Ritornato presumibilmente
nell'isola, nel 1864 sposò a Thiesi in provincia di Sassari Antonia Fadda nata
nella città logudorese nel 1846 e dal matrimonio nacquero dodici figli (tra il
1865 e 1887), di cui tre maschi. Il Tarantini visse lunghi anni a Thiesi
esercitando la professione di negoziante. A un certo punto, per motivi
assolutamente sconosciuti, decise di tornare nell'isola dove era nato. Una scelta che, ancora, non pare
spiegabile: come detto in precedenza, i Tarantini lasciarono La Maddalena,
attorno alla metà dell'Ottocento, quindi non fu il richiamo familiare quello
che spinse Angelo a tornare nel luogo dove era nato. Inoltre la sua vita si era
svolta a Thiesi, dove erano nati tutti i suoi figli. Dopo alcuni anni vissuti
probabilmente nella casa dove era nato, questo garibaldino schivo, il solo
maddalenino che fu col Generale da Quarto a Marsala, seppure in un ruolo
modesto, conclusa la sua breve esperienza di patriota risorgimentale, visse una
vita appartata e tranquilla, morendo a Moneta, frazione di La Maddalena il 1°
agosto 1905. Nel certificato di morte , conservato nell'anagrafe del Comune di
La Maddalena, si può leggere la residenza in "regione Moneta" e il
fatto che fosse "Pensionato dei Mille di Marsala".