domenica 20 dicembre 2009

Enrichetta Caracciolo

Il 7 settembre 1860, nel Duomo di Napoli, mentre Garibaldi assisteva al Te Deum di ringraziamento per la fuga di Francesco II, una suora benedettina deponeva su un altare il suo nero velo di monaca. Quella suora, che era rimasta quasi schiacciata dalla folla nel tentativo di essere la prima donna di Napoli a stringere la mano al Generale, si chiamava Enrichetta Caracciolo.

Enrichetta nacque a Napoli nel 1821 da don Fabio Caracciolo di Forino, maresciallo dell’esercito napoletano, e da Teresa Cutelli, gentildonna palermitana. Era la quinta di sette figlie femmine, e questo segnò il suo destino, in una famiglia che per generazioni aveva monacato tutte le figlie femmine tranne le primogenite, ed in un’epoca in cui un articolo del codice civile consentiva espressamente ai genitori di rinchiudere le proprie figlie in istituti religiosi, a qualsiasi età. Nonostante la generazione di Enrichetta fosse la prima in cui questa prassi si incrinava (più di una delle sue sorelle si sposò), una serie di circostanze fecero sì che lei fosse destinata ad una monacazione forzata.
Alla morte del padre Enrichetta fu affidata, ancora adolescente, alla tutela della madre, che, avendo deciso di risposarsi, a sua insaputa iniziò le pratiche per introdurla nel monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, dove già si trovavano due zie paterne della fanciulla. Nel 1841 Enrichetta pronunciò i voti solenni.
Colta e amante degli studi, nel convento si scontrò con la grettezza e la diffidenza di monache ignoranti, per lo più analfabete. Si procurò la fama di rivoluzionaria comprando senza nascondersi i giornali dell’opposizione, che leggeva ad alta voce nel convento, approfittando della libertà di stampa concessa dal papa Pio IX. E proprio incoraggiata dal clima di speranza nel Papa liberale, nel 1846 presentò al pontefice la prima di una serie di istanze per ottenere lo scioglimento dai voti, o almeno una dispensa temporanea per motivi di salute. Ma l’arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, le rivolse un’accanita persecuzione personale, negandole il suo nulla osta, perfino contro il parere del Papa.
Durante i moti rivoluzionari del 1848, mentre le monache pregavano per lo sterminio dei malvagi, Enrichetta innalzava taciti voti all’Onnipossente per la caduta della tirannide e pel trionfo della nazione, ma allo scatenarsi della repressione borbonica, temendo ripercussioni per sé e la sua famiglia, preferì dare fuoco alle sue memorie. Nel frattempo riuscì ad ottenere almeno l’autorizzazione a trasferirsi nel Conservatorio di Costantinopoli. Parzialmente sconfitto, Riario Sforza le impose di lasciare in convento le argenterie e le pietre preziose ereditate dalle zie monache.
Nel Conservatorio di Costantinopoli, però, il partito riunito intorno alla badessa era totalmente ligio alla Curia e ai Borbone, ed Enrichetta subì una drastica censura riguardo alle sue letture, all’esecuzione al piano dei brani di Rossini ed alla possibilità di scrivere lettere o tenere un diario. Enrichetta continuò lo stesso ad inviare lettere, nascondendole nel cesto della biancheria sporca con la complicità di una domestica, ma alcuni suoi scritti, sequestrati e pervenuti nelle mani di Riario Sforza, vennero da lui inviati a Pio IX affinché non cedesse alle reiterate suppliche di Teresa Cutelli (ora separata dal marito e riconciliata con la figlia) per la libertà di Enrichetta. Solo nel 1849, grazie ai disturbi nervosi di cui soffriva, ottenne finalmente il permesso di uscire con la madre per curarsi con i bagni. Riario Sforza, tuttavia, continuò a perseguitarla, valendosi della sua influenza presso Ferdinando II. Le negò una nuova licenza e le sequestrò l’assegno costituito dai frutti della sua dote di monaca, costringendola a vivere della carità dei parenti.
Nel giugno 1851 Enrichetta, con la complicità della madre, lasciò il Conservatorio di Costantinopoli e si recò a Capua, a casa di una sua sorella, sotto la protezione del vescovo Serra di Cassano, ma il suo protettore morì pochi giorni dopo. Arrestata e condotta nel ritiro di Mondragone, rifiutò il cibo e tentò il suicidio, colpendosi al petto con un pugnale, riuscendo però solo a ferirsi. Sopravvisse, e superò un intero anno di isolamento, nel quale le fu impedito di ricevere i parenti e di lasciare il ritiro, persino per visitare la madre morente.Dopo la scomparsa della madre, mediante l’intercessione di una zia, Enrichetta ottenne dalla Sacra Congregazione dei Vescovi il permesso di recarsi a Castellammare per la cura dei bagni. Fu uno stratagemma attraverso il quale la Congregazione, fortemente critica verso il comportamento dell’arcivescovo di Napoli, mirava a liberare Enrichetta dal suo persecutore. A Castellammare godette di una relativa libertà, anche se ormai era entrata a tutti gli effetti nelle reti cospirative. Per sfuggire alla sorveglianza della Curia e della polizia borbonica cambiò in sei anni diciotto abitazioni e trentadue donne di servizio.
Quando Garibaldi sbarcò in Sicilia coi Mille, Enrichetta tornò clandestinamente a Napoli, affidandosi a persone di sua fiducia per depistare i poliziotti in borghese messi alle sue costole e, come già detto, era nel Duomo ad accogliere il Generale il giorno del suo ingresso a Napoli. La mia storia finisce in questo giorno, che per l’Italia è giorno di nuova creazione scrisse in una lettera ad un amico. Pochi mesi dopo avere abbandonato i voti sposò col rito evangelico il patriota napoletano di origine tedesca Giovanni Greuther.
Nel 1864 pubblicò le sue memorie presso la società editrice Barbera di Firenze col titolo Misteri del chiostro napoletano. Il libro venne accolto con grande interesse e ripubblicato ben otto volte negli anni successivi. Fu tradotto in varie lingue e venne molto apprezzato da critici e autori dell’epoca, tra cui Alessandro Manzoni (che nella storia di Enrichetta trovò molti punti in comune con il personaggio di Gertrude) e Luigi Settembrini. Garibaldi le scrisse, invece, per ringraziarla di alcuni bellissimi sonetti. La pubblicazione del libro le valse, però, non solo una grande notorietà, ma anche la scomunica da parte delle autorità ecclesiastiche, che interpretarono l’esposizione delle ipocrisie nascoste all’interno delle mura dei conventi come un attacco calcolato alla Chiesa Cattolica.Nel 1866 pubblicò Un delitto impunito: fatto storico del 1838, che narra l’assassinio di un’educanda da parte di un sacerdote respinto dalla fanciulla, e nel 1883 Un episodio dei misteri del Chiostro Napolitano, un dramma in cinque atti tratto dalle sue memorie. Fu corrispondente di giornali politici, tra cui La rivista partenopea di Napoli, La Tribuna di Salerno e Il Nomade di Palermo. In occasione della terza guerra d’indipendenza, pubblicò un Proclama alla Donna Italiana in cui esortava le donne a sostenere la causa nazionale, e fece parte, con la sorella Giulia Cigala Caracciolo, del Comitato femminile napoletano di sostegno al disegno di legge di Salvatore Morelli per i diritti femminili.
Nonostante la sua notorietà e la sua infaticabile attività, Enrichetta non ebbe alcun riconoscimento ufficiale dal governo italiano. Garibaldi, partendo per l’assedio di Capua, non fece in tempo a firmare il decreto con cui aveva intenzione di nominarla ispettrice agli educandati di Napoli. De Sanctis, dopo averle promesso un incarico, la dimenticò. Gli oggetti di sua proprietà che Riario Sforza le aveva sequestrato non furono mai ritrovati. A settant’anni, quando Francesco Sciarelli ne scrisse la biografia, Enrichetta viveva, vedova, ignorata dai suoi concittadini, modesta e solitaria. È ignota la data della morte.

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