domenica 27 febbraio 2011

L'Eccidio di Pontelandolfo

Era l’alba del 1° agosto dell’anno 1861. A Pontelandolfo si avvertiva nell’aria odore di fermento. I poveri raccolti non bastavano più a pagare le tasse ed i balzelli imposti dalle autorità piemontesi. I contadini avevano assistito increduli alle gesta del generale Garibaldi. Ben presto si erano resi conto che stava dalla parte dei borghesi, dalla parte dei signorotti. Gli eccidi di Bronte, Niscemi e Regalbuto l’avevano detta lunga sulla sua appartenenza di classe a da che parte stava.

I pontelandolfesi erano stanchi delle razzie piemontesi, della guardia mobile, dei loro notabili. Le nuove disposizioni del giugno 1861 circa la coscrizione di leva avevano agitato ancora di più le acque. I giovani preferirono la macchia al nuovo padrone piemontese, preferirono gli stenti, i sacrifici, la morte. Il popolo rimpiangeva i tempi in cui governavano i Borbone (vedi foto) e non aspettava altro che il momento in cui la rabbia di un anno di vessazioni sarebbe esplosa.
L’arciprete Don Epifanio De Gregorio assieme ad una moltitudine di attivisti borbonici manteneva i contatti con i contadini, sapeva infondere loro la speranza di un domani migliore in quanto con il prossimo ritorno di Re Francesco si sarebbe ristabilito il vecchio ordine. Finalmente ci si poteva organizzare attorno ai partigiani che stazionavano sui monti e cacciare i liberali dissacratori di chiese e saccheggiatori di beni.
Nonostante il servizio al corpo di guardia fosse stato rinforzato, il giorno 2 agosto, il partigiano Gennaro Rinadi detto Sticco, si presentò al sindaco Melchiorre consegnandogli una missiva su cui c’era scritto che il sergente dei regi Marciano, comandante della brigata partigiana Frà Diavolo, chiedeva al primo cittadino 8.000 ducati, due some di armi e viveri entro 48 ore, altrimenti avrebbe messo a ferro e fuoco le case dei traditori liberali. Tale somma doveva essere consegnata al latore del biglietto.
Chiamato dal sindaco, il 3 agosto giunse in paese il colonnello della Guardia Nazionale De Marco a capo di una colonna di 200 mercenari. Una cinquantina di guardie chiusero l’entrata della piazza mentre gli altri cominciarono a razziare le case dei pontelandolfesi. Ma era rimasto ben poco da rubare, la gente era affamata. Venne saccheggiata anche la chiesa di San Rocco dove De Marco e i suoi mercenari avevano preso alloggio.Durante la notte tra il 4 ed il 5 agosto le montagne che cingevano Pontelandolfo brulicavano di partigiani: i fuochi accesi erano tantissimi e davano coraggio alla popolazione, scoramento e paura ai liberali.
Il colonnello garibaldino De Marco inquieto diede ordine alla sua colonna di prepararsi ad abbandonare il paese.Il 6 agosto emissari di Don Epifanio raggiunsero al galoppo l’accampamento di Cosimo Giordano per invitare i partigiani regi in chiesa a ringraziare il Signore.
La brigata Frà Diavolo composta da circa trenta partigiani, dopo l’azione di guerriglia di San Lupo si diresse verso Pontelandolfo. Il paese era in festa per la fiera di San Donato in pieno svolgimento. Tutti aspettavano con impazienza l’arrivo dei loro eroi, l’arrivo dei partigiani regi comandati da Cosimo Giordano (vedi foto) che stava combattendo la guerra santa contro gli infedeli piemontesi.
Il 7 agosto mentre il campanile rintoccava la quinta ora pomeridiana, la brigata d’eroi giunse in paese tra ali di folla in festa. L’arciprete Don Epifanio de Gregorio cominciò a lodare il signore con il Te Deum per ringraziare Francesco II. I guerriglieri, seguiti da oltre tremila popolani, si diressero verso il Corpo di Guardia, disarmarono i pochi ufficiali rimasti e lo devastarono. I quadri di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi furono ridotti in mille pezzi, le suppellettili furono messe sottosopra. La bandiera tricolore fu staccata e dal panno bianco si strappò lo stemma sabaudo. Il popolo eccitato, come ubriacato dall’avvenuta libertà, urlava, gridava la propria gioia.
Angelo Tedeschi da San Lupo, ritenuto essere la spia dei piemontesi, fu scovato rannicchiato nella sua stalla, sotto il fieno, e freddato con un colpo di fucile da Saverio Di Rubbo. Nella bolgia, un colpo vagante colpì, ferendolo, Pellegrino Patrocco, eremita di Sassinoro, ed un altro colpì in casa sua, uccidendolo, Agostino Vitale. L’esattore Michelangelo Perugini, liberal massone e reo di aver spremuto e ricattato i contadini, fu ammazzato e la sua casa bruciata. Il popolo poteva sfogare la propria rabbia repressa da un anno di sudditanza totale, di dittatura, di terrore, di ruberie, di violenze subite e mal celate. Cosimo Giordano ed il suo vice, seguiti dal popolo, si diressero verso la casa Comunale, ove distrussero i registri dei nati per evitare la chiamata alle armi dei giovani di Pontelandolfo in caso che i piemontesi avessero rimesso i piedi nel paese. La bandiera tricolore fu bruciata sul balcone e al suo posto venne issata quella borbonica. I prigionieri furono liberati dal carcere. Venne istituito un governo provvisorio. Pontelandolfo, dunque, era diventata il centro della reazione borbonica nel Sannio. Guerriglieri dei paesi limitrofi, specialmente quelli di Casalduni e di Campolattaro, erano venuti ad ingrossare la banda di Giordano per tenere alto l’onore del Regno delle Due Sicilie e di Francesco II.Il 9 agosto, trenta partigiani furono scelti per attaccare la carrozza postale che ogni giorno passava per la provinciale, portando qualche passeggero e i soldi che servivano alle spese della truppa e degli impiegati piemontesi. Soldi e balzelli che il governo di Torino esigeva dalle popolazioni, che dovevano persino pagare la famosa tassa di guerra. Non vi fu alcuna azione cruenta, a tutti i passeggeri furono rubati solo i soldi ed i loro preziosi. Intanto Cosimo Giordano fece fucilare Libero D’Occhio dopo un processo sommario che lo riconobbe spia dei piemontesi e traditore della patria.
La bandiera gigliata sventolava sui pennoni più alti. Con i soldi sequestrati dai partigiani furono sfamate le famiglie che più avevano bisogno. Al Comune si distribuiva il pane, i muri delle case erano tappezzati di manifesti inneggianti alla rivolta contro i piemontesi e le strade piene di volontari. I manifesti affissi durante la notte dai partigiani della banda Giordano riportavano il proclama del Comandante in Capo Chiavone (vedi foto) che operava tra la Ciociaria e gli Ausoni.
Su ordine del Generale Cialdini il 13 agosto partì da Benevento una colonna di bersaglieri, tutti tiratori scelti, comandata dal Generale Maurizio De Sonnaz detto Requiescant per le fucilazioni facili da lui ordinate e per il massacro di parecchi preti e l’attacco ad abbazie e chiese. Il generale piemontese era a capo di novecento bersaglieri assassini e criminali di guerra. Il colonnello Negri procedeva a cavallo, con al suo fianco il garibaldino del luogo de Marco e due liberali pure del posto a far da guida ai cinquecento bersaglieri, che costituivano la colonna infame che stava dirigendosi verso Pontelandolfo. Un’altra colonna di quattrocento bersaglieri si stava portando verso Casalduni.
Era l’alba del 14 agosto. Gli ordini di Cialdini erano precisi: Pontelandolfo doveva pagare con la morte la sfida fatta al potente Piemonte.La banda di Cosimo Giordano bivaccava a circa un chilometro dal paese, nella selva, tra i monti presso la località Marziello. I partigiani avvertiti dai pastori, s’erano appostati per tendere un agguato ai piemontesi, ma erano solo cinquanta. Una scarica di pallottole colse di sorpresa i bersaglieri. Tutti scesero da cavallo, qualcuno cadde morto, altri furono feriti, altri ancora risposero al fuoco, ma era ancora buio e la selva copriva le ombre dei partigiani borbonici, i quali continuavano a sparare sul mucchio, alla cieca, non potendo mirare giusto data l’ora mattutina. La sparatoria durò pochi minuti, ma fu feroce e ravvicinata. Gli uomini di Giordano, avvantaggiati dall’effetto sorpresa vedendo che i bersaglieri prendevano posizione di combattimento e presagendo una sconfitta, naturale, date le forze in campo, si diedero alla fuga. I bersaglieri contarono venticinque morti. Il colonnello Negri, anziché inseguire i patrioti di Giordano, diede ordine al plotone di comporre le salme dei caduti e di proseguire la marcia verso Pontelandolfo. L’esercito piemontese circondò il paese, fucile alla mano, pronto a far fuoco. Un plotone, con il De Marco e due liberali, entrò nella città ad indicare le case dei settari massoni da salvare. Portata a termine l’operazione salvataggio dei settari, che non superavano la decina, i bersaglieri si gettarono a capofitto nei vicoli e nelle strade di Pontelandolfo. Erano le quattro del mattino quando ebbe inizio l’eccidio. Le case furono incendiate. Gli abitanti, armati di roncole e forche, tentarono una sterile difesa, ma i fucili dei piemontesi ebbero inesorabilmente la meglio su di loro. Alcuni vennero stesi nella propria abitazione, altri dormienti nel proprio letto, altri mentre fuggivano. Qualcuno riusciva ad oltrepassare la porta di casa ma veniva abbattuto sull’uscio senza pietà. Grida, urla, gemiti dei feriti, pianti dei bambini. Pontelandolfo fu messa a ferro e fuoco. Tutto il paese bruciava. Nicola Biondi, contadino sessantenne, fu legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri, i quali denudarono la figlia Concettina, di sedici anni, e tentarono di violentarla. Ma la ragazza difese strenuamente l’onore. Dopo un’aspra colluttazione, sanguinante cadde a terra esanime. Una scarica micidiale di pallottole abbatté il padre Nicola. Decine e decine erano i cadaveri disseminati nei vicoli, nelle strade, nelle piazze. Alle ore sei metà paese era in fiamme, mentre i bersaglieri continuavano la mattanza Ancora uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla. I vecchi venivano fucilati subito e così i bambini che ancora dormivano nei loro letti. Dopo aver ammazzato i proprietari delle abitazioni, le saccheggiavano: oro, argento, catenine, bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti. Il sangue scorreva a fiumi per le strade di Pontelandolfo. Prima ad essere saccheggiata fu la chiesa di San Donato, ricca di ori, di argenti, di bronzi lavorati, di voti, persino le statue dei santi furono trafugate. Il saccheggio e l’eccidio durarono l’intera giornata del 14 agosto 1861. Donne seminude, sorprese mentre dormivano, cercavano scampo fuggendo; ma, se vecchie, venivano subito infilzate, se giovani ed avvenenti, venivano violentate e poi uccise. I morti venivano accatastati l’uno sull’altro. Chi non riusciva a morire subito doveva anche sopportare la tortura del fuoco, che veniva appiccato sopra i cadaveri con legna secca e fascine fatte portare lì da giovani sotto la minaccia delle baionette.
Dopo ore di stragi, di eccidi, di massacri, di ruberie, il generale De Sonnaz fece suonare l’adunata ed il ritiro della colonna infame. Al suono del trombettiere tutti si ritirarono. Inquadrati sull’attenti al cospetto del generale De Sonnaz e del colonnello Negri, si diressero verso Benevento, ove il giorno dopo, nei loro alloggiamenti, mercanteggiarono tutto il bottino sacro profanato. Il laconico messaggio del colonello Negri, di passaggio da Fragneto Monforte, recitavaL’ennesimo truculento eccidio era stato portato a compimento con forsennata ferocia e senza pietà alcuna verso una popolazione inerme, fiera del suo Re Borbone, fiera della sua dignità, fiera della sua libertà, fiera della sua storia ultrasecolare, fiera di essere italiana, fiera della sua religione.

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