lunedì 18 aprile 2011

La spedizione dei Mille e L'Unità d'Italia

La spedizione dei Mille e l'unità d'Italia

In Italia nella primavera del 1860 la situazione politica era molto fluida e lo stesso Cavour cominciava a pensare alla possibilità di un’unificazione della penisola. Le difficoltà erano tuttavia ancora notevoli perché la Francia non avrebbe accettato un attacco piemontese contro lo Stato Pontificio e il Regno Borbonico, quest’ultimo difeso sul piano diplomatico anche dalla Russia; l’Austria, dal canto suo, avrebbe potuto approfittare di ogni passo falso per reinserirsi nel gioco politico italiano.
Ma il problema più grave consisteva nel fatto che l’armistizio di Villafranca e la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia avevano screditato la politica sabauda presso l’opinione italiana, per cui nella primavera del ’60 sembrava più facile una iniziativa democratico-repubblicana, che trovava il suo centro nel "partito d’azione" il quale aveva il vantaggio di poter agire al di fuori di ogni impedimento diplomatico e contava sull’enorme popolarità di Garibaldi.
Il "partito d'azione" non era un gruppo omogeneo di persone che avevano le stesse finalità e idealità politiche; era un organismo di agitazione e propaganda cui facevano capo sia i repubblicani mazziniani sia i democratici decisi all’azione come Pisacane e Garibaldi.
A dare l’avvio a una ripresa rivoluzionaria furono gli eventi siciliani quando, contro il giovane e inesperto sovrano Francesco II, nell’aprile del ’60 esplose l’ennesima rivolta a Palermo. Il partito d’azione convinse Garibaldi ad agire direttamente in Sicilia, anche perché Vittorio Emanuele, era disposto ad aiutare i volontari, contro il parere di Cavour il quale, come primo ministro, non poteva compromettersi specialmente agli occhi di Napoleone. Dal canto suo il Mazzini esortava tutti ad agire concordemente al fine di realizzare l’unità della penisola. Garibaldi ai primi di maggio del ’60 passava all’azione con i suoi Mille volontari.
Partiti da Genova, dopo una breve tappa nel porticciolo di Talamone, dove una piccola colonna lasciò Garibaldi per marciare direttamente su Roma, la spedizione raggiunse per mare la Sicilia occidentale e l’11 maggio sbarcò a Marsala. Garibaldi, assunta la dittatura in nome di Vittorio Emanuele, marciò verso l’interno con i suoi Mille, che rivestivano l’ormai leggendaria camicia rossa, rinforzati da "picciotti" cioè dai giovani contadini e braccianti che speravano in una riforma agraria che una volta per tutte eliminasse tanti soprusi ed ingiustizie. In seguito l’entusiasmo dei contadini che miravano a impossessarsi delle terre demaniali, promesse dallo stesso Garibaldi, fu deluso perché Garibaldi e i politici della sinistra garibaldina e mazziniana volevano il successo militare della spedizione. Tra la fine di giugno e di luglio il generale, per il successo della spedizione, cominciò a stringere rapporti con i grandi proprietari terrieri, i quali, perché non cambiasse niente per loro, erano disposti ad assumere atteggiamenti liberali e favorevoli a Casa Savoia. I contadini cominciarono a guardare con diffidenza alla politica di Garibaldi, soprattutto dopo che i garibaldini repressero i moti rurali, anche quando i contadini, in perfetta legalità, richiedevano la divisione dei terreni demaniali a suo tempo promessi dal "generale".
Battuti i borbonici nella difficile battaglia di Calatafimi, il 15 maggio Garibaldi occupava Palermo e nel luglio batteva ancora le truppe regie a Milazzo, mentre il sovrano di Napoli tentava disperatamente di fermarlo, concedendo una tardiva Costituzione e affidando il governo a Liborio Romano. Una speranza vana e una fiducia mal riposta: il Romano, d’accordo con Cavour cercò di provocare in Napoli un moto di moderati monarchici, allo scopo di precedere Garibaldi alla liberazione del napoletano. Intanto Garibaldi, superato lo stretto di Messina, risaliva liberamente la Calabria mentre l’esercito borbonico si disfaceva e il 7 settembre entrava in Napoli; Francesco II si rifugiava allora a Gaeta, protetta ancora da una parte del suo esercito, nonstante il "tradimento" di buona parte dell'ufficialità.
Praticamente l’Italia meridionale era libera, nonostante attorno a Gaeta si raccogliessero ancora forti contingenti di truppe borboniche e le piazzeforti di Civitella del Tronto e di Messina non si fossero arrese. Era il momento di prendere decisioni definitive, che avrebbero pesato sul destino di tutta la penisola.
Mazzini che aveva raggiunto Garibaldi a Napoli premeva perché si evitasse il solito plebiscito a favore della monarchia sabauda e insisteva sul progetto di una "Assemblea Costituente" che decidesse del nuovo assetto da dare all’Italia, anche se egli avvertiva chiaramente che ormai il principio monarchico aveva avuto partita vinta. Garibaldi dal canto suo, pensava di risalire con le truppe verso Nord per raggiungere Roma e di lì proclamare l’Unità d’Italia. Il Cavour, infine, si rendeva perfettamente conto della gravità della situazione; egli era consapevole che tra le file garibaldine i democratici ed i repubblicani erano molto forti e decisi a realizzare riforme sociali molto ardite, come l’assegnazione di terre ai combattenti meridionali e lo scorporo del latifondo anche a danno degli ordini religiosi. Temeva anche, a ragione, che l'invasione garibaldina del Lazio, oltre a suscitare in tutta la penisola un’ondata di entusiasmo democratico e anticlericale, avrebbe indotto l’imperatore francese a intervenire con le armi. Ancora una volta fu abilissimo a trasformare in vantaggio la propria debolezza: ancora una volta seppe agire abilmente su Napoleone. Prospettatogli lo spettro della formazione di una repubblica mazziniana e anticlericale nell’Italia centro meridionale, lo stesso imperatore sollecitò il Cavour a fare intervenire l’esercito regolare piemontese, che, al comando dei generali Fanti e Cialdini, penetrò nelle Marche e batté l’esercito papale, che tentava di sbarrargli il passaggio il 18 settembre 1860 a Castelfidardo. Nel frattempo, con la battaglia del Volturno, Garibaldi stroncava un estremo tentativo di riscossa dei borbonici, che erano costretti a rinchiudersi a Gaeta. L'incontro del 26 ottobre, a Teano, tra Garibaldi e Vittorio Emanuele poneva fine alla spedizione di Garibaldi e di fatto assicurava alla dinastia sabauda il Regno delle due Sicilie.
Le truppe garibaldine, non furono incorporate nell’esercito regolare, come era stato richiesto, e il re si rifiutò perfino di passarle in rivista. In conseguenza di questo atteggiamento, Garibaldi, deluso e sdegnato, si ritirò a Caprera.
Il 17 marzo il nuovo Parlamento italiano riunito a Torino poteva ratificare l’avvenuta unificazione, attribuendo a Vittorio Emanuele II il titolo di "re d’Italia"; il 26 marzo il Parlamento approvava un voto solenne che auspicava Roma capitale d’Italia. Il processo risorgimentale e unitario era praticamente compiuto, anche se il Lazio e le Venezie rimanevano escluse.










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