domenica 8 maggio 2011

G.Garibaldi: ricevuto dispaccio n° 1073.Obbedisco

Il 10 giugno 1866 giunge a Caprera un emissario del governo italiano per invitare Garibaldi a prendere il comando dei volontari che si stanno radunando in vista dell’imminente guerra contro l’Austria. “Io dimentico presto le ingiurie … . Lo stesso giorno si partì con un piroscafo per il continente”, scrive Garibaldi. L’Italia, alleata con la Prussia, prepara la terza guerra di indipendenza con un disegno strategico vago e vertici militari impreparati e discordi. Il re è comandante in capo ma non ha né la capacità né gli strumenti per dirigere e coordinare due armate di fatto separate: quella di Lamarmora sul Mincio e quella di Cialdini sul Po.

I volontari costituiscono una terza formazione cui Garibaldi e forse lo stesso Vittorio Emanuele vorrebbero affidare il compito di sbarcare sulle coste dalmate e di qui muovere verso il cuore dell’impero austro-ungarico con il supporto degli insorti locali. Si potrebbero concentrare in tal modo tre direttrici d’attacco su Vienna: dalla Prussia, dall’Italia e dai Balcani. Non se ne fa nulla per il parere contrario di Lamarmora e a Garibaldi è assegnata un’azione concorrente verso il Trentino sulla sinistra dell’armata del Mincio.
All’inizio della guerra oltre la metà dei circa 30.000 volontari arruolatisi sono ancora in Italia meridionale e i preziosi rinforzi dell’esercito regolare, soprattutto le artiglierie, arriveranno solo a ostilità già iniziate. I tempi ristretti di radunata e la lontananza dei centri di raccolta dal teatro di operazioni non hanno consentito alcuna attività di addestramento e di amalgama; l’equipaggiamento e l’armamento dei volontari sono come al solito di scarsa qualità: sono effetti negativi della legge approvata il 24 luglio 1861 per impedire la formazione della guardia nazionale come proposta da Garibaldi.
Ai volontari è assegnata come uniforme la camicia rossa e Garibaldi ricorda che alcuni di loro, per insufficienza delle scorte, sono costretti a combattere in abiti borghesi. A queste difficoltà si aggiunge la carenza qualitativa dei quadri; i migliori sono già diventati generali dell’esercito italiano, quelli che restano non sempre sono all’altezza e i loro limiti diventano ancora più evidenti davanti alle difficoltà della zona di operazioni. Le forze assegnate a Garibaldi sono suddivise in diverse aliquote tra Valtellina, val Camonica e valle del Chiese. Da quest’ultima deve partire l’offensiva verso Trento, ma le numerose valli che vi confluiscono devono essere controllate con conseguente dispersione delle forze. E’ difficile esercitare l’azione di comando e controllo in un territorio così vasto e compartimentato; ancora più arduo progredire in attacco lungo le valli che per loro natura favoriscono la difesa. Garibaldi rimedia adottando la tattica che egli stesso definisce del “fare l’aquila”: occupare le alture prima di avanzare a fondo valle.
Ma il nemico che fronteggia i volontari non è impreparato; a difendere il sud Tirolo (così gli austriaci chiamano il Trentino) è chiamato il generale Kuhn con circa 14.000 uomini, 32 pezzi di artiglieria e alcune compagnie di cacciatori tirolesi. Questi ultimi sono armati di ottime carabine che sanno usare al meglio e che mettono ancora di più in risalto la pochezza dell’armamento dei volontari.
Quando il 23 giugno iniziano le operazioni il generale Kuhn fa occupare i passi dello Stelvio verso la Valtellina e del Tonale verso la val Camonica. Entrambe le valli sono già presidiate da unità territoriali assegnate a Garibaldi, il quale rinforza la val Camonica e occupa il ponte sul Caffaro e monte Suello che garantiscono il controllo della valle del Chiese nella zona immediatamente a nord del lago d’Idro.
Un reggimento rimane a Salò per il controllo della sponda occidentale del lago di Garda su cui naviga quasi indisturbata una flottiglia austriaca di otto unità con 48 cannoni. Garibaldi ottiene il comando delle poche imbarcazioni da guerra italiane quasi tutte inefficienti e provvede a farle riparare e a fornirle di equipaggi traendo gli uomini dai suoi volontari: una ulteriore dispersione di forze.
Gli errori commessi a Custoza il 24 giugno sconvolgono ogni piano e Garibaldi deve concentrare i volontari su Lonato per garantire la protezione da nord all’armata del Mincio che si sta ritirando sull’Oglio: “… verso il 26, giorno probabile dell’apparizione del nemico, noi non avremmo potuto opporre al di sopra di ottomila uomini con una batteria da montagna e un pezzo da 24 della flottiglia, collocato sull’altura di Lonato”. Fortunatamente per l’esercito italiano, il nemico non insiste nel movimento verso ovest. Dopo pochi giorni Garibaldi riceve l’ordine di riprendere l’offensiva verso il Trentino e il 1° luglio una brigata formata da due reggimenti, un battaglione bersaglieri e una batteria di artiglieria muove verso monte Suello che nel frattempo gli austriaci hanno rioccupato e fortificato.
Il 3 luglio si combatte aspramente per la conquista di monte Suello dove i volontari diventano bersaglio delle micidiali carabine dei cacciatori tirolesi. Lo stesso Garibaldi è colpito a una coscia e per il resto della campagna sarà costretto a muoversi in carrozza. La battaglia si conclude con un nulla di fatto, ma l’indomani gli austriaci si ritirano in seguito agli ordini che il generale Kuhn già il giorno precedente riceve dall’arciduca Alberto, comandante dell’armata austriaca del sud (fronte italiano), per lasciare le posizioni più avanzate.
L’andamento delle operazioni sul fronte nord contro la Prussia è sfavorevole agli austriaci e l’imperatore Francesco Giuseppe ritiene di dovere rinforzare quel teatro di operazioni a scapito del fronte italiano. Quando poi il 3 luglio i prussiani vincono a Sadowa Francesco Giuseppe fa ritirare dall’Italia un corpo d’armata, ma le truppe del generale Kuhn restano a difesa del Tirolo. Si combatte il 4 luglio a Vezza d’Oglio in val Camonica. Gli austriaci occupano l’abitato, contrastano una forte resistenza ma poi ripiegano verso il passo del Tonale. All’alba dell’11 luglio in Valtellina gli austriaci sono respinti da Bormio verso lo Stelvio.
A difesa di queste valli è impiegata - sotto il comando di Garibaldi - una legione della guardia nazionale formata dal 44° battaglione val Camonica e dal 45° battaglione Valtellina. I due battaglioni - annota il Corsi - sono stati “levati e armati in fretta sul rompere delle ostilità e rinforzati d’un centinaio tra carabinieri reali, doganieri e guardie forestali, una compagnia di bersaglieri volontari e una cinquantina di tiratori volontari di Como e di Chiavenna, con 8 pezzi d’artiglieria regolare, 6 dei quali da montagna”.
L’azione nella valle del Chiese prosegue e il 15 luglio Garibaldi occupa l’abitato di Storo dove stabilisce il suo quartiere generale. Ha dovuto nel frattempo assicurarsi la valle del Caffaro, affluente di destra del Chiese, occupando Bagolino e ha fatto risalire alcuni reparti fino a Condino a nord di Storo per fermare eventuali infiltrazioni austriache. Su Storo sbocca da est la valle d’Ampola, protetta dall’omonimo forte che sbarra l’accesso verso il lago di Ledro, da cui si scende verso Riva del Garda: è l’itinerario più diretto per Trento. Arriva finalmente una brigata di tre batterie campali con “quindici magnifici pezzi da 12” in rinforzo dalla “nostra artiglieria italiana, ch’io stimo con orgoglio non seconda a nessuno nel mondo”. Garibaldi ne farà buon uso assecondato dal valido comandante della brigata, maggiore Dogliotti. Gli austriaci reagiscono il 16 luglio all’occupazione di Condino e i combattimenti investono anche l’abitato di Cimego, più a nord, dove alcuni volontari sono avanzati contrariamente agli ordini di Garibaldi. Si fa ancora sentire la superiorità delle carabine dei cacciatori tirolesi e gli italiani sono respinti da Cimego. Garibaldi interviene di persona e ferma la reazione degli austriaci utilizzando con tempestività ed efficacia le artiglierie.
Nei giorni successivi è posto l’assedio al forte d’Ampola che si arrende il 19 luglio. Alla manovra di accerchiamento viene mancare il 2° reggimento che Garibaldi ha fatto muovere da Gargnano sul lago di Garda per giungere attraverso le montagne a sud e a est del forte. “Molti furono i disagi e le fatiche sofferti in quella marcia dal 2°, e non pochi gli errori commessi”; non è l’unico caso in questa campagna in cui Garibaldi rileva errori commessi dai suoi subordinati, che tuttavia non cita quasi mai per nome e, se si rammarica, lo fa solo per la sorte delle sue unità. Sensibilità di comandante.
Dopo la caduta del forte d’Ampola Garibaldi può muovere verso la valle di Ledro. L’esercito italiano ha modificato intanto la sua articolazione: l’armata del Po agli ordini di Cialdini è diventata armata di spedizione e sta occupando il Veneto e il Friuli; l’armata del Mincio, ora agli ordini del re, rimane a controllare le fortezze del Quadrilatero. La 15^ divisione, agli ordini del generale Medici, deve risalire la Valsugana per ricongiungersi a Trento con i volontari di Garibaldi: un incontro anche simbolico tra due vecchi commilitoni. L’avanzata di Medici provoca qualche iniziale incertezza in Kuhn che tuttavia decide di fermare prima le forze di Garibaldi. Il punto chiave è l’abitato di Bezzecca su cui scende da nord la val Conzei mentre proseguendo verso est si sbocca su Riva. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio Garibaldi manda un battaglione a occupare le alture sul fianco destro della valle all’altezza di Bezzecca. “Codesto battaglione, non so per colpa di chi o se per caso, trovossi all’alba avviluppato da forze nemiche considerevoli”. Gli austriaci riescono a portarsi su Bezzecca e occupano posizioni dominanti minacciando il fianco destro dei volontari.
Sul posto giunge Garibaldi che è partito all’alba del 21 in carrozza da Storo e ha ordinato l’afflusso di rinforzi tra cui il 9° reggimento: “E ben ci valsero, poiché la salvazione prima della giornata furon quelle posizioni, occupate dai prodi di quel reggimento, capitanati, lo dico con vero orgoglio, da mio figlio Menotti”. Misurata fierezza di padre, che subito dopo ricorda anche i nomi dei due comandanti di battaglione “Cossovich e Vico Pellizzari, ambi dei Mille e ben degni d’esserlo”.
Il centro e la destra dei volontari sono tuttavia costretti a retrocedere e alle 10 del mattino gli austriaci sono padroni di Bezzecca. Sei pezzi di artiglieria del maggiore Dogliotti riescono e ripiegare e riprendono posizione con altri tre pezzi in riserva. Assicuratosi il supporto di fuoco ora Garibaldi si adopera per rianimare i suoi e riportarli al contrattacco. L’artiglieria dalle nuove posizioni “… fulminava il nemico con tiri tali, che più sembravano fuoco di moschetteria anziché di cannone, tale era la loro celerità”. Gli austriaci si ritirano e Bezzecca è riconquistata. Le perdite sono elevate da entrambe le parti, ma ora Kuhn deve solo pensare a difendere Trento, visto che anche Medici sta avanzando in Valsugana.
Il 22 luglio Garibaldi va a Pieve di Ledro dove finalmente incontra il comandante del 2° reggimento che non era arrivato in tempo al forte d’Ampola e non era intervenuto a Bezzecca dove avrebbe potuto prendere gli austriaci alle spalle. Questa volta Garibaldi cita per nome il comandante, colonnello Spinazzi, che si giustifica dicendo di non essere intervenuto per mancanza di munizioni. L’ufficiale è arrestato e processato e dagli atti del processo sembra che, dopo essersi consultato con i suoi ufficiali, abbia deciso di marciare verso Bezzecca senza però arrivare in tempo per la battaglia. Garibaldi accenna a una possibile forma di demenza del colonnello Spinazzi, ma il suo giudizio è inflessibile: “.. quando il cannone rugge, e si sa essere i compagni impegnati, non v’è scusa che tenga, là si deve marciare. Vi mancano munizioni, ebbene, i feriti ed i cadaveri possono provvedervele”.
Mentre si combatte a Bezzecca le forze a presidio di Condino nella val di Chiese respingono a cannonate un tentativo di diversione fatto da un reparto di cavalleria austriaca. Garibaldi allora si assicura che la valle del Chiese sia sgombera fino ai forti di Lardaro presso il colle di Roncone che immette verso nord nella valle del Sarca; di qui si potrebbe scendere a Tione e muovere su Trento. Vengono anche fatte affluire attraverso la val di Fumo e la val Daone le forze già a presidio della val Camonica attraverso itinerari che superano i 2.000 metri di quota. Assicuratosi la val di Chiese, Garibaldi decide di arrivare a Trento proseguendo dalla valle di Ledro su Riva del Garda, ma la politica fa tacere le armi il 25 luglio. Garibaldi si rammarica che in quel giorno: “… non si trovavan più nemici sino a Trento; che Riva si abbandonava, gettando i cannoni delle fortezze nel lago; che per due giorni non si poté trovare il generale nemico, a cui si doveva partecipare la sospensione”. Una nuova mediazione della Francia, più corretto sarebbe definirla ingerenza, pone fine alla guerra. Si saprà poi che la cessione del Veneto era stata concordata tra Napoleone III e Francesco Giuseppe già nei primi giorni di luglio. Un telegramma con poche parole di testo e la famosa “Obbedisco” è l’epilogo di questa campagna che replica in maniera ancora più bruciante la disillusione di Villafranca nel 1859. Garibaldi dà prova di essere un soldato leale nei confronti del re ma soprattutto si conferma comandante generoso: “In tutta la campagna del 66 io fui molto secondato dai miei ufficiali superiori, non potendo io stesso assistere a dovere i movimenti e le operazioni di guerra per essere obbligato ad andare in carrozza”. Non sono parole di circostanza, visto che quando c’erano errori da rimarcare lo ha fatto. Conclusa la campagna i volontari si riuniscono a Brescia dove il corpo viene sciolto. Garibaldi ancora una volta torna a Caprera.

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