mercoledì 31 agosto 2011

La famiglia dei Marchesi Casati

LA FAMIGLIA DEI MARCHESI CASATI


Quando si parla di una nobile famiglia che ha legato il suo nome a Muggiò non si può fare a meno di pensare ai Casati. Arrivarono a Muggiò nel Quattrocento, quando Pietro, figlio di Giacomo, fu costretto ad andarsene da Milano e tra il 1408 eil 1457 si rifugiò a Monza e nella zona acquistò vasti terreni. I possedimenti vennero estesi anche grazie ad uno strumento allo consueto per ampliare i patrimoni, quello del matrimonio. Fu così che Giovanni Battista Casati nella seconda meta del 1500 sposò Angela Scorpioni, figlia di un’altra nobile famiglia che a Muggiò aveva vasti possedimenti, che naturalmente la giovane portò in dote allo sposo.
Proprio alla metà del ‘500 abbiamo le prime prove certe dell’esistenza a Muggiò della villa Casati con una sua architettura ben più importante delle povere case dei contadini e con un mistero che si trascina fino ad oggi: un pozzo profondo una ventina di metri nel quale la leggenda vuole che i nobili Casati ed i loro amici di bisbocce gettassero le imprudenti e impudiche fanciulle che avevano allietato le feste. Nulla di storico, certo,. Ma è altrettanto sicuro che la famiglia Casati nei secoli ha sempre intrecciato la sua vita con le vicende storiche e politiche dell’Italia e anche con storie d’amore e di sesso dai contorni forti. Dunque se l’immaginazione popolare in ogni parte del mondo vuole che i pozzi nell’antichità servissero ai proprietari dei castelli più che per tirare fuori acqua, per gettarvi dentro fanciulle o nemici, rivali d’amore o avversari politici o concorrenti d’affari, il mistero e la leggenda del pozzo di villa Casati acquista un sapore del tutto particolare alla luce di quel che sarebbe successo secoli dopo.
Un contributo tutto particolare diedero i Casati alla lotta di Indipendenza nazionale. Il periodo napoleonico aveva liberato energie produttive e sociali e in questa parte della Brianza erano aumentati di numero e di importanza agli artigiani. Tessili, che già esistevano da tempo, e mobilieri. Si era affermato con l’arrivo deifrancesi un modo di pensare nuovo, più libero e consono alla volontà di cambiare lastruttura economica di questa zona molto dinamica della Lombardia.
I Casati, che a Muggiò avevano la loro villa, ma che stavano anche a Milano a continuo contatto con i settori più dinamici della società lombarda, furono tra i primi ad aderire fattivamente alle idee di indipendenza nazionale. Ma il primo personaggio della famiglia ad essere pesantemente coinvolto nella lotta antiaustriaca fu un parente acquisito, il conte Federico Confalonieri che aveva sposato Teresa Casati, sorella di Gabrio e di Camillo.
Confalonieri aveva fondato nel 1819 il periodico Il Conciliatore, sul quale scriveranno tra gli altri giovanni Berchet e Silvio Pellico, Carlo Cattaneo e Luigi Porro Lambertenghi e sognava di costruire una federazione con il Piemonte. Era anche un uomo d’affari concreto e aperto al nuovo, al punto che insieme ad Alessandro Visconti fece costruire il primo battello a vapore che navigò sul Po. Ma la sua fama è legata alla battaglia per l’indipendenza. Nel 1821 aveva cercato, insieme ad altri patrioti, di convincere il principe Carlo Alberto di Savoia a varcare il Ticino, come immaginò in una sua poesia Alessandro Manzoni, e a conquistare la Lombardia.
Due erano i gruppi di patrioti che premevano sul Savoia. Il primo era quello dei carbonari, guidato da Silvio Pellico e composta tra gli altri dal musicista romagnolo Pietro Maroncelli, dal Berchet e dal conte Giacomo Laderchi.
Il secondo, quello dei federati, faceva capo al Confalonieri. Gli uni e gli altri pensavano di poter trovare un sostegno in Carlo Alberto, erede al trono perchè nè Vittorio Emanuele I° nè suo fratello Carlo Felice avevano figli maschi, che in gioventù era stato vicino ai carbonari. Effettivamente il 6 marzo 1821 Carlo Alberto incontrò cinque congiurati e promise loro che si sarebbe fatto sostenitore delle loro richieste davanti al re, dopo che fossero scoppiati moti nella notte tra il 7 e l’8 marzo. Ma subito dopo Carlo Alberto fece marcia indietro. L’insurrezione a Torino venne bloccata, ma non si fece in tempo a fermare quella di Alessandria. Tutto fallì e Pellico, Maroncelli ed altri vennero arrestati, processati a Venezia e condannati a morte, ma poi la pena venne commutata nell’ergastolo da scontarsi nel tremendo carcere dello Spielberg. Confalonieri venne arrestato solo il 13 dicembre. Era rimasto a casa sua nonostante che lo stesso comandante delle forze austriache in Lombardia conte Bubna gli avesse inviato la moglie con il suggerimento di fuggire. E quando arrivarono le guardie per arrestarlo, Confalonieri scoprì che qualcuno aveva murato il passaggio segreto attraverso il quale sperava di fuggire. Molti si sono chiesti perchè il conte non era scappato prima.
Eccesso di fiducia nell’importanza del proprio nome? Imprudente gioco con gli austriaci? O un romantico correre incontro al proprio destino, qualunque esso potesse essere? O un diverso romanticismo, la volontà di non allontanarsi dall’amore di una donna che non era la moglie?
Fatto sta che Confalonieri venne arrestato mesi dopo Pellico e Maroncelli e condannato a morte al processo di Venezia. Teresa Casati fu sempre con lui, anche quando l’inquisitore Antonio Salvotti le mostrò un pacco di lettere che un’amante aveva scritto al marito. “Non ho nulla da dichiarare” rispose Teresa all’inquisitore che la spingeva a denunciare Confalonieri, a pagare tradimento con tradimento. Non solo. Quando il conte fu condannato a morte, Teresa con Gabrio andò a Vienna e fece di tutto per ottenere dall’Imperatore la grazia. Che alla fine arrivò, anche se sotto forma di ergastolo da scontare allo Spielberg.
La dedizione di Teresa andò oltre. Mentre il marito attraversava le sue prigioni, la moglie cercava in ogni modo di aiutarlo e trovò persino una via clandestina per scambiarsi lettere e notizie. Fino a quando nel 1830 seppe che ormai, nonostante la giovane età, stava per morire. Allora decise che non avrebbe potuto dare a Federico questo dolore che avrebbe dovuto continuare il più possibile a donargli la consolazione di una lettera di tanto in tanto. E cominciò a scriverne in quantità, lasciando l’ordine, come in un estremo testamento amoroso, che ogni mese avrebbero dovuto spedire una di quelle lettere senza tempo e che parlavano d’amore e di vita normale al prigioniero dello Spielberg. E così fu, tanto che per qualche mese Confalonieri non seppe della morte di Teresa ed anzi riuscì a mandarle anche qualche risposta, in una sorta di dialogo amoroso tra due diverse morti. Fino a quando, nel febbraio 1831, a 5 mesi dalla scomparsa di Teresa, entrò nella cella del conte un commissario che, compunto, comunicò: ”Numero quattordici: Sua Maestà L’imperatore si degna di farvi sapere che vostra moglie è morta”. E se ne andò richiudendo la porta.
Teresa venne sepolta nel cimitero di Muggiò e la sua lapide fu scritta dall’amico Alessandro Manzoni. “Teresa, nata da Gaspare Casati e da Maria Origoni il XVIII settembre MDCCLXXXVII maritata a Federico Confalonieri il XIV ottobre MDCCVI ornò modestamente la prospera fortuna, l’avversa soccorse con l’opera e partecipò con l’animo quanto ad opera e ad animo umano è conceduto, consunta ma non vinta dal cordoglio, morì sperando nel Signore degli afflitti il XXVI settembre MDCCCXX. Gabrio Angelo Camillo Casati alla sorella amantissima e amatissima eressero e a sè prepararono questo monumento per riposare tutti un giorno accanto alle ossa care e venerate”.
Federico Confalonieri rimase allo Spielberg 15 anni, poi fu graziato, ma a patto che se ne andasse in esilio in America subito, senza nemmeno potersi fermare a pregare sulla tomba della moglie. Dallo Spielberg fu mandato direttamente alla nave che doveva portarlo al di là dell’Oceano e solo Alessandro Manzoni riuscì ad intercettarlo con un suo libro dono e con una dedica affettuosa: “Che può l’amicizia lontana per mitigare le angosce del carcere, le amarezze dell’esilio, la desolazione di una perdita irreparabile? Qualche cosa quando preghi; che, se sterile è il compianto che nasce nell’uomo e finisce con lui, feconda è la preghiera che vien da Dio e a Dioritorna. Milano, 23 aprile 1836”.
Dopo due anni passati in America, il conte tornò in Europa, malatissimo. E quando era ormai chiaro che sarebbe morto di lì a poco, l’Austria gli permise di tornare anche a Milano, dove arrivò con una nuova moglie, l’irlandese Sofia Ò'Farrel, che aveva vissuto tanti anni alla corte di Danimarca. Molti non gli perdonarono questo matrimonio che interpretavano come un tradimento postumo di Teresa, quasi fosse una continuazione di quello che le aveva inflitto in vita. Al punto che Confalonieri sentì il bisogno di scusarsi, o per lo meno di spiegarsi, con Maroncelli, suo compagno di prigionia allo Spielberg, in una lunga lettera. Sofia viene descritta dal conte come una ammiratrice di Teresa e proprio per questo amata da Confalonieri. “La sua adorazione per l’angelica mia Teresa, di cui non domandava che di compiere presso di me qualche vece, non ti taccio che fimmi potentissimo impulso alla determinazione: e, quasi a consacrazione dell’espressomi suo voto, il giorno che le impegnai la mia parola, le cinsi un braccialetto dei capegli di Teresa, ch’ella serberà qual reliquia di tutta la vita. A te non fa bisogno ch’io cenni tutti i misteri di dolore e di amore, di legame tra passato, il presente, e l’avvenire che in sè racchiude questo semplice rito”.
Poi Confalonieri fa una descrizione di Sofia, colta, poliglotta, devota. Ma quella parte della lettera che parla della nuova moglie come di una pallida adoratrice di quella morta 15 anni prima, suona come una scusa per coloro che mal dicono di lui e di lei. Romantico, un pò falso e anche macabro Confalonieri, con quel particolare del braccialetto di capelli di Teresa cinto al polso di Sofia. Comunque di lì a poco il conte morì e Sofia, tenendo fede alla sua immagine di devozione totale per Federico e Teresa, fece seppellire il marito a Muggiò accanto alla prima moglie. Poi andò ospite della contessa Cristina di Belgioioso, che in precedenza aveva criticato duramente Confalonieri per i fatti del1821, e quindi tornò nel suo nord. Ma il Casati più famoso è senza dubbio Gabrio, il maggiore dei quattro fratelli.
Anche lui venne in seguito criticato dalla Belgioioso, perchè era stato nominato nel 1837 podestà di Milano dal governo austriaco, ma poi nel 1848 fu uno dei massimi responsabili delle 5 Giornate. Il 18 marzo 1848, con una coccarda tricolore sul petto, Gabrio guidò un lungo corteo popolare che si recò al palazzo del Governo di Milano dove risiedeva il governatore austiaco e lo obbligò a firmare la costituzione della guardia civica e la convocazione di una assemblea legislativa milanese, cioè in pratica i fondamenti del nuovo potere. E mentre Gabrio guidava la manifestazione, il fratello Camillo salvava dalla possibile rabbia dei milanesi la moglie del prefetto austriaco, la contessa Spaur. Gabrio venne così nominato presidente del governo provvisorio lombardo e quindi presidente del Consiglio dei ministri di Carlo Alberto, carica dalla quale si dimise quando venne firmato l’armistizio con gli austriaci. Quando tornò Radetzki, per Gabrio si aprirono le vie dell’esilio. Dopo l’Unità d’Italia non solo tornò, ma fu il primo ministro della pubblica istruzione e nel 1859-60 elaborò e fece approvare una riforma della scuola che rimase in vigore fino al 1923.
Del resto Gabrio fu uno di quegli uomini del Risorgimento che pensavano che l’unità e la prosperità d’Italia fossero possibili solo con un alto livello di istruzione dei suoi abitanti e la riforma, pur con gli inevitabili limiti dell’epoca, cercò proprio di essere lo strumento per la formazione di una identità culturale del Paese.
Camillo Casati, oltre ad avere salvato la Spaur, è ricordato per essere stato il primo sindaco di Muggiò dopo l’Unità d’Italia, fino al 1869.
Alla famiglia Casati, come alla Isimbardi, si deve l'iniziativa dell'acquisto del quadro che ha arricchito per molti decenni la chiesa di Muggiò e che ora si trova a Milano, il “Gesù crocifisso con la Maddalena” di Francesco Hayez, dipinto nel 1827. Come siano andate le cose, lo ricorda lo stesso Hayez in un suo scritto: “Le famiglie Isimbardi e Casati, proprietarie principali del Comune di Muggiò, mi diedero la commissione di eseguire un quadro d’altare per quella chiesa, “Gesù crocefisso con la Maddalena ai piedi della Croce”; ricorso che quando mi recai a collocare al suo posto la tela, due delle signore committenti si trovarono presenti, una delle quali, la graziosa marchesa Luigi Isimbardi Litta Modigliani, gentilmente volle invitarmi a colazione”.
Ma la storia di questo quadro è particolarmente travagliata. Già a metà del 1800 cominciò ad avere problemi e lo stesso Hayez venne chiamato ad eseguire lavori di restauro nel 1864. Scrisse in quella occasione il pittore: “Giacchè amai sempre fare i confronti fra le mie opere eseguite in epoche diverse, dovetti scorgere più di un difetto, di cui voglio conservare il segreto”.
Nel 1878 però il quadro già mostrava altri problemi ed il parroco don Giovanni Ferrario, scrisse ancora una volta all’Hayez per chiedere aiuto. Mal gliene incolse: per tutta risposta ebbe una lettera di rimbrotti violenti. “Mi rincresce che il mio primo lavoro sacro al quale mi sento grandemente affezionato vada a perire. L’alito dei fedeli, è questo che lo distrugge, perchè l’alito è corrosivo. Ci vorrebbe una chiesa grande! Se può ritirarlo in casa sua almeno finchè non si provveda ad una nuova chiesa il quadro è salvo”.
Per anni i tentativi di restaurare il quadro andarono a vuoto e nel mezzo ci fu anche una polemica, nel 1892, di don Ferrario con il sindaco che aveva accusato il parroco di lasciare deperire volontariamente il dipinto. Fu solo alla fine del 1895 che finalmente il “Gesù crocifisso” venne restaurato per la seconda volta, grazie all’intervento del marchese Pietro Isimbardi, al quale don Ferrario invia una lettera riconoscente: “Ringraziamo la S:V: illustrissima per la generosità con la quale, seguendo l’esempio del compianto di lei nonno, l’illustrissimo Signor Marchese Pietro Isimbardi, ha voluto assumersi la spesa occorrente per il restauro”.
Il dipinto rimase ancora qualche decennio esposto nella chiesa, poi venne spostato dal nuovo parroco don Luigi Gadda nella sua casa, per evitare che la tela, ormai di grande valore anche economico, fosse rubata. Quindi venne spostata all’Arcivescovado di Milano, dove si resero conto che l’Hayez doveva essere restaurato per la terza volta. Si pose di nuovo il problema dei soldi, e alla fine l’operazione fu possibile grazie alla sponsorizzazione della società milanese Pro Svi.
Il quadro, restaurato per la terza volta, fu esposto nel maggio 1991 al centro culturale San Carlo di Milano. L’altro dipinto ospitato per decenni nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo era la “Madonna con bambino” che nel 1825 ornava la cappella Casati. Era opera del pittore Pelagio Pelagi, uno dei maestri dell’Hayez, architetto e scultore, oltre che pittore. Di questo dipinto si sono perse le tracce: negli anni dell’ultimo immediato dopoguerra è scomparso. Un altro dei misteri di Muggiò.
Rubato come sostengono alcuni, o venduto per pagare debiti della chiesa, come insinuano altri?







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