martedì 6 settembre 2011

Garibaldi «educatore»

Dopo l’impresa nell’Italia Meridionale Garibaldi non è più soltanto un generale vittorioso ma anche un punto di riferimento per molteplici raggruppamenti d’ispirazione democratica e radicale, che danno vita a quel vasto e autonomo movimento politico noto come «garibaldinismo». Nel luglio del 1861 lancia una «crociata umanitaria» per distruggere il dispotismo e la superstizione: «la teocrazia papale è la più orribile delle piaghe da cui il mio povero paese è afflitto; diciotto secoli di menzogna, di persecuzioni, di roghi e di complicità con tutti i tiranni d’Italia, resero insanabile tale piaga. Ora, come sempre, questo vampiro della terra dei Scipioni sostiene il suo corpo corrotto e roso dalla cancrena; colla discordia, colla reazione, colle depredazioni, colla guerra civile, porge pretesto alla dimora di armi straniere e colla maledetta sua influenza impedisce ad una generosa nazione di costituirsi». Fa quindi il suo ingresso sulla scena politica, accettando la presidenza prima dell’associazione dei comitati di provvedimento per la liberazione di Roma e di Venezia, che si stavano diffondendo in tutta l’Italia, anche se con effettivi piuttosto esigui, poi del IX congresso delle Società operaie, nel settembre 1861, infine dell’assemblea che si svolge a Genova il 9 e 10 marzo 1862 fra i Comitati di provvedimento, le associazioni d’ispirazione mazziniana e le società operaie, dalla quale nascerà l’Associazione Emancipatrice Italiana. Da allora in avanti le più disparate organizzazioni, società operaie, di mutuo soccorso, di libero pensiero, fratellanze artigiane e logge masso¬niche, circoli di tiro a segno e sodalizi di veterani lo acclameranno loro capo, considerandolo come nume tutelare e simbolo di unità piuttosto che vera e propria guida politica. Sarà il medico Agostino Bertani a impegnarsi a fondo per trasformare quella miriade di associazioni in un partito autentico, con un centro direttivo sottratto alle ambiguità della linea politica del Generale, che non voleva rinunciare alla sua autonomia in vista di una nuova guerra d’indipendenza.
Nel 1862 cerca di marciare su Roma, ma viene fermato sull’Aspromonte dall’esercito italiano. Nel 1867, deciso comunque a rompere gli indugi, invade lo Stato Pontificio; assale Monterotondo, che, eroicamente difesa fino all’ultimo dagli zuavi pontifici, viene messa a sacco dai «liberatori»; e per due lunghi giorni, attestato con i suoi uomini alla periferia di Roma, attende che l’insurrezione gli apra le porte della città, ma i romani non accorrono al «supremo cimento». Gli episodi di Villa Glori e della caserma Serristori — dove due terroristi fanno saltare un’intera ala dell’edificio, provocando la morte di ventisette zuavi e di due civili — restano isolati. I garibaldini, delusi e scoraggiati, ripiegano su Monterotondo, dando luogo a fenomeni massicci di diserzione e di fuga, quali mai si erano visti fino ad allora. Di altra tempra saranno invece i volontari cattolici francesi della Legione d’Antibes, che rimangono fedele presidio di Roma. Lo scontro decisivo avviene a Mentana, il 3 novembre, e i garibaldini sono sbaragliati dai pontifici del generale germanico barone Hermann Kanzler (1822-1888), appoggiati dai soldati francesi che Napoleone III era stato nuovamente costretto a inviare. Era l’ultimo tentativo operato da Garibaldi per strappare Roma al Pontefice.
Negli anni seguenti il nizzardo prosegue nella sua opera di «educatore». Il suo atteggiamento va ricondotto alla duplice aspirazione di unificare l’Italia e di procedere al «rinnovamento» morale degli italiani, cioè «fare l’Italia» per «disfare gli italiani». Egli riteneva che la lacerazione fra «paese legale» e «paese reale» fosse la conseguenza del radicamento della cultura religiosa presso la stragrande maggioranza della popolazione e che, pertanto, occorresse unificare concretamente la nazione con l’elaborazione di una cultura popolare fondata su una nuova concezione della religiosità. Mentre altri operavano a livello della minoranza colta, Garibaldi diffonde, in forme più immediate e comunicative, fermenti anticattolici presso i ceti popolari, anche con la distribuzione capillare di opuscoli e di catechismi che attribuivano a lui la vera rappresentanza della legge di Cristo contro le imposture del Papa. Nella sua indulgenza verso talune manifestazioni di devozione laica — come la celebrazione non sacerdotale di alcuni sacramenti, soprattutto il battesimo e il matrimonio, e la diffusione della sua immagine di redentore —, viene colto un intento politico-pedagogico, mirante a una inculturazione che, ma¬chia¬vel¬li¬ca¬mente, utilizzava gli strumenti di comunicazione adatti agli italiani del suo tempo.
Sono di questi anni le battaglie del nizzardo per assicurare, in funzione anticattolica, pieni diritti ai protestanti e ai liberi pensatori — al cui movimento dà pubblica adesione nel 1864 —, per impadronirsi dei beni ecclesiastici, per laicizzare l’istruzione elementare, per estendere ai sacerdoti l’obbligo del servizio militare, per diffondere la pratica della cremazione allo scopo di togliere alla Chiesa «il pascolo dei morti». Promuove anche una miriade di organizzazioni culturali, società operaie, leghe e fratellanze, che dovevano contribuire a trasformare il paesaggio sociale e culturale dell’Italia unita. Perno di questo fronte laico e radicale doveva essere la massoneria, considerata da Garibaldi una fratellanza al di sopra di ogni fazione: «Io sono di parere che l’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia [...]. Io reputo i massoni eletta porzione del popolo italiano. Essi [...] creino l’unità morale della Nazione. Noi non abbiamo ancora l’unità morale; che la Massoneria faccia questa, e quella sarà subito fatta». Infine, accentua in modo quasi parossistico il suo furore anticlericale. «Gli ultimi anni di vita — scrive il gesuita Pietro Pirri — sono anche i più miserevoli sotto l’aspetto morale. Garibaldi non trovò di meglio che sfogare i suoi cruc¬ci con libri in prosa e in versi, per lo più insulsi, riboccanti di volgari ingiurie e di denigrazioni contro il clero e il Papa, e di roboanti declamazioni contro una società che aveva il torto di non pigliare sul serio i sogni della sua mente ottenebrata da vieto anticlericalismo e da grette idealità massoniche».
La nostra narrazione termina qui, perché il resto della storia è noto e la figura di Garibaldi, a questo punto, è abbastanza evidente. Senza entrare nei dettagli, è necessario ricordare le false vittorie di Garibaldi in Sicilia (dovute più ai tradi¬menti dei comandanti militari borbonici che all’eroi¬smo garibaldino), le violenze, le rapine e gli assassini commessi dai garibaldini, soprattutto emblematici quelli di Bronte, di cui il Garibaldi fu il principale responsabile. Da ricordare anche lo sbarco avvenuto in Sicilia, subito dopo quello dei «mille», di circa 22.000 soldati piemontesi fatti «disertare» e che l’unica vera battaglia fatta dai garibaldini fu quella sul Volturno, dove solo l’insipienza del comandante borbonico impedì che tutta quella teppaglia fosse spazzata via.
Del resto lo stesso savoiardo Vittorio Emanuele, subito dopo il presunto incontro di Teano, indica chiaramente qual era il personaggio, quando scrisse (in francese) al Cavour : «... come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certi, questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attri¬buirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa». In ogni angolo delle Due Sicilie gli hanno eretto monumenti, dedicate piazze e strade. Muore a Caprera il 2 giugno 1882.

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