La patriota romana fu uccisa col figlio dai soldati pontifici. La sfortunata rivolta del 1867.
Bella («alta, aitante nella persona, sguardo scintillante»), romana di buona famiglia, seguace di Garibaldi. Gli spioni papali nei loro rapporti la definivano«sciagurata donna», «invasata dallo spirito d’abisso», «ossessa rivoluzionaria». E’ morta combattendo, pistola in pugno. Giuditta Tavani Arquati, uccisa a colpi di baionetta dagli zuavi pontifici venerdì 25 ottobre 1867, mentre tenta l’ultima disperata resistenza dopo la fallita sortita dei fratelli Cairoli. Uccisa insieme al figlio undicenne Antonio: asserragliata in quel “covo” di ribelli che è il lanificio Ajani in via della Lungaretta 97, a Trastevere, aveva cercato, insieme al marito e altri pochi combattenti, di coprire la fuga dei patrioti che si erano rifugiati in quel luogo, purtroppo ormai accerchiato dalle truppe papaline. Traditi da una delazione, sorpresi senza scampo, Giuditta e gli altri resistono fino all’ultimo, ed «è lotta corpo a corpo,», finché scatta la carneficina. «A colpi di revolver e di fucile, e poi di baionetta, uno dopo l’altro i ribelli furono uccisi e scannati dagli zuavi». Anche Giuditta e il suo bambino.
Sembra un instant book, tanto è vivido e “ravvicinato” nella sequenza degli avvenimenti, quasi seguiti ora per ora centoquarantadue anni dopo, questo nuovo libro di Claudio Fracassi – “La Ribelle e il Papa Re. Roma 1867: una storia vera”, Mursia, pag. 289, euro 18 – che ripercorre la vicenda cruenta e sfortunata di quel triennio, 1867-1870, che vide la tragedia dei fratelli Cairoli a Villa Glori, la vittoria delle truppe di Napoleone III calate in soccorso di Pio IX, la sconfitta di Garibaldi a Mentana. Prima che i famosi bersaglieri varcassero la Breccia di Porta Pia. Un libro di storia, rigorosamente documentato, ma anche e soprattutto una cronaca minuziosa e appassionata, come ripresa dal vivo. Un libro ma anche un film, volendo. O un romanzo.
I fatti, nudi e crudi, così come si sono svolti; e le persone, gli atti, le parole, i luoghi, le osterie e le strade, le botteghe e gli opifici, i palazzi, le carceri, i distretti di prefetti e sottoprefetti; e anche i proclami, le canzoni, le poesie, le invettive, i motti popolari, le sciabole, i cardinali, il patibolo, il boia nella sua veste rossa. E la Roma di Papa Re, che l’allora ministro inglese George Clarendon definiva «una città desolata…non vi è luogo più arretrato, più indietro nelle scoperte scientifiche, più negato per tutto ciò che attiene all’attività moderna». Sei volte meno popolata di Parigi, sette volte meno di Londra. Il libro è traboccante di tutto questo, una rivisitazione emozionante.Roma, tre anni prima della breccia di Porta Pia. «Il nucleo di ribelli di Trastevere raccolto attorno al lanificio Ajani e a Giuditta Tavani Arquati era formato, nel 1867, da figure non eminenti in città, ma attive negli ambienti popolari: Pietro Luzzi, 24 anni, era calzolaio; Romano Mariotti, 19 anni, garzone calzolaio; i due fratelli Martinoli e i Sabbatucci padre e figlio erano cappellai; Giacomo Marcucci ebanista: Oreste Tacchini sarto. Luigi Albanesi maiolicaro e così via». La ricerca di Claudio Fracassi offre anche un vivido quadro sociale di quella intristita Roma di Papa Re. «Gli interlocutori politici di Giuditta e dei patrioti del lanificio Ajani erano, prevalentemente, lavoratori e piccoli artigiani». Città di non più di 200 mila abitanti, Roma manca di quel «forte nucleo di presenza borghese, quella che in altre parti d’Italia e d’Europa aveva combattuto per il rinnovamento produttivo e civile». E’ perciò, come sempre, potente l’aristocrazia, mentre cresce l’influenza dei nuovi mercanti di campagna. Il potere politico è tutto, come sempre, nelle mani del clero, (e infatti Gioacchino Belli traduceva l’acronimo SPQR in «Solo Preti Qui Regneranno»); mentre la polizia prosegue ad arrestare coloro che per i prefetti sono «esteri sospetti e romani già pregiudicati in linea politica», quell’«importata accozzaglia di individui».
Quanto a Trastevere, il quartiere, scrive Fracassi, «aveva pessima fama tra gli aristocratici e negli ambienti borghesi. Era considerato un covo di “accoltellatori”. La stessa composizione sociale ne faceva un luogo di agitazione e di ribellione. Lì erano nate le prime “Vendite carbonare” della città. Lì si era radicata la base popolare attorno a Garibaldi, Mazzini, Mameli nella breve stagione repubblicana del 1849». Ragion per cui, «lì era molto imprudente per i soldati francesi frequentare le osterie e percorrere di notte i vicoli».
Nel cuore del “malfamato” quartiere, il lanificio di Giulio Ajani, anche lui cospiratore, era diventato «uno dei principali punti di ritrovo, insieme con le osterie trasteverine, tenuti d’occhio dalla polizia come luoghi di sovversione».Non per caso. «I lavoratori lanari, per parte loro, avevano una ricca tradizione di organizzazione e di proteste. L’industria tessile, e in particolare quella dei drappi di lana, era la più sviluppata a Roma. Essa impiegava nei primi decenni del secolo oltre diecimila persone, uomini e donne». Ma dalla prima metà dell’Ottocento era subentrata una crisi devastante, dovuta all’introduzione dei primi macchinari, alla concorrenza estera, alla mancata modernizzazione. I lavoratori lanari, disoccupati e ridotti in miseria, «cominciarono a organizzarsi, arrivando persino – cosa insolita in quel tempo e in quei luoghi – a iniziative di sciopero».Attorno a Giuditta e ai suoi, secondo i rapporti polizieschi, si raccoglievano dunque «figli degeneri, vile plebaglia». Tra loro anche Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Nel piano d’insurrezione preparato dal gruppo del lanificio in attesa di Garibaldi (che nel frattempo è fuggito da Caprera), Monti e Tognetti vengono incaricati, nell’ottobre di quel 1867, di far saltare con una carica d’esplosivo la caserma “Serristori” degli zuavi pontefici, nel rione Borgo a Roma, a cento metri da San Pietro. L’attentato avviene il 22 dello stesso mese e provoca la morte di 23 soldati papalini e cinque civili. Monti, immigrato a Roma da Fermo, aveva trentatré anni, lasciava la moglie e un figlio di ventitré mesi. Tognetti, romano, era poco più che un ragazzo e non era sposato; manteneva i genitori e quattro fratelli più piccoli. Traditi da una delazione, arrestati e condannati a morte, dopo tredici mesi di carcere sono portati al patibolo.
E’ una pagina particolarmente toccante del libro di Fracassi. Secondo le carte processuali, «il giudice inquirente sottolineò che i due condannati a morte erano poverissimi… che Monti e Tognetti vivevano delle loro braccia meschinamente… donde il movente in essi ad abbracciare il partito del disordine»; vale a dire «la famigerata consorteria cui riuscì di insediarsi al potere nello Stato sabaudo», in combutta con le «orde garibaldesche», portatrici di quei «principi sovversivi che si erano sventuratamente diffusi anco nelle infime classi dei popoli». E’ il 24 novembre 1868. E’ ormai l’alba, quando i due condannati, in un cocchio chiuso, vengono portati sul luogo, poco oltre il Teatro di Marcello, dove è stata sistemata la ghigliottina. «Ormai da un decennio le esecuzioni si facevano lì, in piazza dei Cerchi». In quel 1868, per uccidere Monti e Tognetti fu mobilitato un allievo e collaboratore di Mastro Titta, il boia di Roma, che si era da poco ritirato in pensione (trenta scudi mensili) dopo avere effettuato 516 esecuzioni. «Tutt’intorno c’era un solido quadrato di truppe zuave; il popolo era stato tenuto lontano. Il carnefice, come d’uso, indossava una sontuosa veste scarlatta. Giuseppe Monti chiese di salire scalzo sul palco della ghigliottina. Alle sette cadde la sua testa; due minuti dopo rotolò sul palco la testa di Gaetano Tognetti. Il boia le afferrò ambedue per i capelli e le alzò per mostrarle agli zuavi, che fecero rullare a lungo i loro tamburi». Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, due semplici muratori. Gli ultimi due ghigliottinati dal Papa Re.
Sembra un instant book, tanto è vivido e “ravvicinato” nella sequenza degli avvenimenti, quasi seguiti ora per ora centoquarantadue anni dopo, questo nuovo libro di Claudio Fracassi – “La Ribelle e il Papa Re. Roma 1867: una storia vera”, Mursia, pag. 289, euro 18 – che ripercorre la vicenda cruenta e sfortunata di quel triennio, 1867-1870, che vide la tragedia dei fratelli Cairoli a Villa Glori, la vittoria delle truppe di Napoleone III calate in soccorso di Pio IX, la sconfitta di Garibaldi a Mentana. Prima che i famosi bersaglieri varcassero la Breccia di Porta Pia. Un libro di storia, rigorosamente documentato, ma anche e soprattutto una cronaca minuziosa e appassionata, come ripresa dal vivo. Un libro ma anche un film, volendo. O un romanzo.
I fatti, nudi e crudi, così come si sono svolti; e le persone, gli atti, le parole, i luoghi, le osterie e le strade, le botteghe e gli opifici, i palazzi, le carceri, i distretti di prefetti e sottoprefetti; e anche i proclami, le canzoni, le poesie, le invettive, i motti popolari, le sciabole, i cardinali, il patibolo, il boia nella sua veste rossa. E la Roma di Papa Re, che l’allora ministro inglese George Clarendon definiva «una città desolata…non vi è luogo più arretrato, più indietro nelle scoperte scientifiche, più negato per tutto ciò che attiene all’attività moderna». Sei volte meno popolata di Parigi, sette volte meno di Londra. Il libro è traboccante di tutto questo, una rivisitazione emozionante.Roma, tre anni prima della breccia di Porta Pia. «Il nucleo di ribelli di Trastevere raccolto attorno al lanificio Ajani e a Giuditta Tavani Arquati era formato, nel 1867, da figure non eminenti in città, ma attive negli ambienti popolari: Pietro Luzzi, 24 anni, era calzolaio; Romano Mariotti, 19 anni, garzone calzolaio; i due fratelli Martinoli e i Sabbatucci padre e figlio erano cappellai; Giacomo Marcucci ebanista: Oreste Tacchini sarto. Luigi Albanesi maiolicaro e così via». La ricerca di Claudio Fracassi offre anche un vivido quadro sociale di quella intristita Roma di Papa Re. «Gli interlocutori politici di Giuditta e dei patrioti del lanificio Ajani erano, prevalentemente, lavoratori e piccoli artigiani». Città di non più di 200 mila abitanti, Roma manca di quel «forte nucleo di presenza borghese, quella che in altre parti d’Italia e d’Europa aveva combattuto per il rinnovamento produttivo e civile». E’ perciò, come sempre, potente l’aristocrazia, mentre cresce l’influenza dei nuovi mercanti di campagna. Il potere politico è tutto, come sempre, nelle mani del clero, (e infatti Gioacchino Belli traduceva l’acronimo SPQR in «Solo Preti Qui Regneranno»); mentre la polizia prosegue ad arrestare coloro che per i prefetti sono «esteri sospetti e romani già pregiudicati in linea politica», quell’«importata accozzaglia di individui».
Quanto a Trastevere, il quartiere, scrive Fracassi, «aveva pessima fama tra gli aristocratici e negli ambienti borghesi. Era considerato un covo di “accoltellatori”. La stessa composizione sociale ne faceva un luogo di agitazione e di ribellione. Lì erano nate le prime “Vendite carbonare” della città. Lì si era radicata la base popolare attorno a Garibaldi, Mazzini, Mameli nella breve stagione repubblicana del 1849». Ragion per cui, «lì era molto imprudente per i soldati francesi frequentare le osterie e percorrere di notte i vicoli».
Nel cuore del “malfamato” quartiere, il lanificio di Giulio Ajani, anche lui cospiratore, era diventato «uno dei principali punti di ritrovo, insieme con le osterie trasteverine, tenuti d’occhio dalla polizia come luoghi di sovversione».Non per caso. «I lavoratori lanari, per parte loro, avevano una ricca tradizione di organizzazione e di proteste. L’industria tessile, e in particolare quella dei drappi di lana, era la più sviluppata a Roma. Essa impiegava nei primi decenni del secolo oltre diecimila persone, uomini e donne». Ma dalla prima metà dell’Ottocento era subentrata una crisi devastante, dovuta all’introduzione dei primi macchinari, alla concorrenza estera, alla mancata modernizzazione. I lavoratori lanari, disoccupati e ridotti in miseria, «cominciarono a organizzarsi, arrivando persino – cosa insolita in quel tempo e in quei luoghi – a iniziative di sciopero».Attorno a Giuditta e ai suoi, secondo i rapporti polizieschi, si raccoglievano dunque «figli degeneri, vile plebaglia». Tra loro anche Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Nel piano d’insurrezione preparato dal gruppo del lanificio in attesa di Garibaldi (che nel frattempo è fuggito da Caprera), Monti e Tognetti vengono incaricati, nell’ottobre di quel 1867, di far saltare con una carica d’esplosivo la caserma “Serristori” degli zuavi pontefici, nel rione Borgo a Roma, a cento metri da San Pietro. L’attentato avviene il 22 dello stesso mese e provoca la morte di 23 soldati papalini e cinque civili. Monti, immigrato a Roma da Fermo, aveva trentatré anni, lasciava la moglie e un figlio di ventitré mesi. Tognetti, romano, era poco più che un ragazzo e non era sposato; manteneva i genitori e quattro fratelli più piccoli. Traditi da una delazione, arrestati e condannati a morte, dopo tredici mesi di carcere sono portati al patibolo.
E’ una pagina particolarmente toccante del libro di Fracassi. Secondo le carte processuali, «il giudice inquirente sottolineò che i due condannati a morte erano poverissimi… che Monti e Tognetti vivevano delle loro braccia meschinamente… donde il movente in essi ad abbracciare il partito del disordine»; vale a dire «la famigerata consorteria cui riuscì di insediarsi al potere nello Stato sabaudo», in combutta con le «orde garibaldesche», portatrici di quei «principi sovversivi che si erano sventuratamente diffusi anco nelle infime classi dei popoli». E’ il 24 novembre 1868. E’ ormai l’alba, quando i due condannati, in un cocchio chiuso, vengono portati sul luogo, poco oltre il Teatro di Marcello, dove è stata sistemata la ghigliottina. «Ormai da un decennio le esecuzioni si facevano lì, in piazza dei Cerchi». In quel 1868, per uccidere Monti e Tognetti fu mobilitato un allievo e collaboratore di Mastro Titta, il boia di Roma, che si era da poco ritirato in pensione (trenta scudi mensili) dopo avere effettuato 516 esecuzioni. «Tutt’intorno c’era un solido quadrato di truppe zuave; il popolo era stato tenuto lontano. Il carnefice, come d’uso, indossava una sontuosa veste scarlatta. Giuseppe Monti chiese di salire scalzo sul palco della ghigliottina. Alle sette cadde la sua testa; due minuti dopo rotolò sul palco la testa di Gaetano Tognetti. Il boia le afferrò ambedue per i capelli e le alzò per mostrarle agli zuavi, che fecero rullare a lungo i loro tamburi». Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, due semplici muratori. Gli ultimi due ghigliottinati dal Papa Re.
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