domenica 27 novembre 2011

Ferdinando II

Ferdinando II fu un re migliore del padre e del nonno, dalla vita familiare irreprensibile, dedito al bene del popolo del quale si riteneva padre e padrone, grande lavoratore e grande accentratore. Riuscì a sottrarsi alla tutela austriaca e a iniziare e continuare in una politica di indipendenza e di neutralità. Giacinto De Sivo, sanguigno scrittore borbonico, autore della Storia del Regno delle Due Sicilie, settario, fazioso, reazionario ma legato da un amore viscerale alla sua patria, così lo descrive "A sé volse la somma delle cose alte e basse; e spese la vita a un lavorio immenso, cui uomo non bastava, e vi macerò i giorni suoi. Schiacciato da faccende e suppliche innumerevoli era, che ogni cosa doveva iniziarsi da esso; e seguendo la macchina dello Stato tal verso, l'ingegno v'avea poco a fare, sendo mestieri anzi di chi cieco ubbidisse, che di chi perspicace pensasse. Quindi molta forma, poco pensiero,". Benedetto Croce osservava che "l'ideale del re era un regno delle due Sicilie, nelle cui faccende nessun altro stato avesse da immischiarsi, un regno che non desse noia agli altri e non ne permettesse a sé". Proclamava Ferdinando "Io sarò re, solo e sempre! Il mio popolo non ha bisogno di pensare, io mi incarico della sua felicità!". Sosteneva di non avere ambizioni e che il regno era difeso dall'acqua santa nei confini terrestri e dall'acqua salata per quelli marittimi, mentre i Savoia, ambiziosi e risoluti, avevano un nemico, l'impero austroungarico e un campo di battaglia, la pianura padana.
Con Ferdinando II l'esercito acquistò una propria identità e fu oggetto di attente cure sin dal marzo 1827 quando, principe ereditario, ne era stato nominato comandante in capo con la carica di Capitano Generale. L'otto novembre 1830 nel suo primo proclama il nuovo re scriveva "... sperando che dal suo canto ci darà in tutte le occasione le pruove della sua inviolabile fedeltà e che non macchierà mai l'onore delle sue bandiere". La nuova legge per l'arruolamento prescriveva che le "reclute siano trattate con dolcezza ... e si usino verso di esse de' mezzi atti ad affezionarle al Real servizio, e non mai a far concepire loro una falsa idea della disciplina militare, la quale non permette abuso di autorità". I regolamenti disciplinari vennero mitigati anche se restavano le punizioni corporali e i "servizi ignobili in caserma", ossia la pulizia delle latrine. Le punizioni corporali venivano inflitte con una verga sulle spalle nude o con bastonate sul sedere. Con un decreto si stabilì che "tutti gli uffiziali da colonnello in giù, e tutti i sottuffiziali e soldati delle nostre reali truppe, a qualunque arma o corpo del reale esercito essi appartengano, porteranno indistintamente i mustacchi" e si confermò che le reclute "devono essere di religione cattolica, apostolica, romana". L'altezza minima dei soldati rimase quella di 5 piedi pari a metri 1,624. Vi fu una maggiore cura nell'addestramento, frequenti manovre a fuoco nelle quali il soldato sparava 50 colpi a salve, miglioramenti nell'armamento e addestramento a lunghe marce in colonne mobili alle quali erano obbligati a partecipare anche gli ufficiali di età avanzata, tanto che si disse "che a molti si apparecchiò la fossa".I battaglioni avevano un cappellano il quale giornalmente celebrava la santa messa, dirigeva la recita del rosario, provvedeva all'insegnamento del catechismo a sottufficiali e soldati. Sant'Ignazio di Loyola, fondatore dell'ordine dei Gesuiti, fu nominato maresciallo dell'esercito e il suo stipendio veniva versato alla casa professa dell'ordine. Gli ufficiali venivano formati nel Real Collegio della Nunziatella, i migliori venivano assegnati all'artiglieria e al genio, i sottufficiali nella Scuola militare di San Giovanni a Carbonara. Era il re che nominava i generali, mentre non esistevano limiti di età per il loro pensionamento, quasi sempre affidato alle leggi della natura. Le paghe erano modeste se rapportate a quelle degli altri eserciti della penisola, ma le divise erano estremamente sfarzose. Nel 1859 si imposero tutta una serie di economie, venne ridotta la razione di biada ai cavalli e si dispose che "gli ospedali serbassero le briciole cadenti da' tagliamenti del pane, onde non si comprasse il pane grattugiato". L'esercito era il cosiddetto esercito di caserma modellato su quello francese, con un nucleo di mercenari svizzeri e una grossa componente di soldati di professione con una ferma di otto anni, rinnovabile alla scadenza. Dalla leva, dalla quale erano esclusi i siciliani per antico privilegio, si ricavava con il sistema del sorteggio una aliquota estremamente ridotta in quanto molti elementi si prestavano al cambio dietro compenso o rinnovavano la ferma. In teoria gli effettivi ammontavano a 60.000 uomini in tempo di pace e 80.000 in tempo di guerra, mentre nell'esercito piemontese gli organici erano rispettivamente di 25.000 e 80.000. L'esercito si ripartiva in venti reggimenti di fanteria di cui tre della Guardia Reale, quattro Svizzeri e 13 di linea tutti su due battaglioni oltre a sette battaglioni di cacciatori. L'artiglieria era composta da otto batterie da campo e una a cavallo tutte su otto pezzi, la cavalleria aveva sette reggimenti, due di lancieri, tre di dragoni e due di ussari di 600 cavalli ciascuno. L'arma si era messa in luce nelle guerre napoleoniche tanto che l'imperatore in esilio a Sant'Elena ricordava ancora i Diavoli Bianchi cavalleggeri napoletani dai mantelli bianchi che nel 1796 gli si erano opposti nelle pianure padane. Era un esercito di soldati di professione, che dalla loro professione ricavavano il sostentamento, "spada ncoppo 'o culo, pane sicuro" era il motto ricorrente. L'armamento individuale non era inferiore a quello piemontese, a differenza dell'artiglieria.La stima per i "pennaruli" gli ufficiali dediti agli studi non era grande: Ferdinando e i suoi generali facevano proprio il motto del maresciallo francese Mac-Mahon che sosteneva, prima di arrendersi ai prussiani a Sedan, "Io cancello dai quadri di avanzamento ogni ufficiale di cui abbia letto il nome sulla copertina di un libro". Eppure molti furono gli studiosi che avevano militato nell'esercito napoletano. Giuseppe Palmieri, nobile pugliese della seconda metà del Settecento, ricordato da Benedetto Croce, fu autore di Riflessioni critiche sull'arte della guerra del quale si complimentò il grande Federico II di Prussia. Luigi Blanc scrisse Discorsi sulla scienza militare considerata nei suoi rapporti colle altre scienze e col sistema sociale, che interessò Napoleone III, Marmont e Iomini. Carlo Pisacane figlio cadetto del duca di San Giovanni, abbandonato l'esercito nel 1847 chiuse la sua vita a 38 anni a Sanza capitanando la disperata spedizione di Sapri. Apprezzato teorico della guerra scrisse con Saggi storici-politici-militari sull'Italia pubblicati postumi nel 1858 e nel 1860 la sua opera migliore. Niccola Marselli, transitato dall'esercito borbonico a quello italiano, i cui interessi spaziarono dalla musica all'architettura, da Tucidide a Erodoto, ricordato per l'interessante La guerra e la sua storia. Ad essi vanno uniti i fratelli Ulloa Calà Antonio e Girolamo che fondarono la prestigiosa Antologia Militare (1835-1846) della quale il maestro della storia militare in Italia Piero Pieri osservava "... rappresentò veramente il pensiero militare italiano in questo campo di studi, e fu tale da non impallidire, sotto certi aspetti, al confronto con le migliori riviste straniere" Girolamo lasciò vari scritti tra cui La guerra per l'indipendenza italiana nel 1848-1849. A titolo di curiosità va citato l'alfiere di fanteria Nicolò Abbondati per un un trattato di ginnastica, scritto nel 1842, definita l'arte dei ladri dai suoi superiori.Lo spessore culturale degli ufficiali borbonici era considerato superiore a quello dei piemontesi, anche se riservato agli ufficiali delle "armi dotte", artiglieria e genio. In massima parte provenivano dalla media e dalla piccola borghesia, su molti la propaganda liberale aveva buona presa. Solo una minoranza seguì Francesco II a Gaeta, gli altri entrarono nella quasi totalità nel Regio Esercito, nato dall' esercito piemontese, nel quale negli anni a venire altri contrasti sorsero e durarono sino alla fine del secolo. I piemontesi chiamavano i borbonici "napulitan" con ricercato disprezzo, i napoletani, con la verve che li caratterizzava, rispondevano con un non immeritato "cape e' lignamme". L'aristocrazia, a differenza di quella sabauda che compatta scendeva in campo col suo re, snobbava la carriera delle armi preoccupata solamente di difendere i suoi privilegi. Impenetrabili a ogni forma di propaganda restavano i soldati, quasi tutti analfabeti, legati al re garante delle loro condizioni di vita.Il generale francese Oudinot nel suo De l'Italie e de ses forces militaires scritto nel 1835 osservava: "L'esercito napoletano é istruito e molto bello. Le truppe che lo compongono sono oggetto di una sollecitudine attiva e illuminata da parte di un sovrano dotato di inclinazioni militari. Infine esso possiede in tutte le armi degli ufficiali di alto merito". A lui si univa negli elogi il il critico militare svizzero A. Le Masson. Aggiungeva Guglielmo Pepe nel 1848: "L'esercito napoletano era devoto al Re, il quale a forza di vivere in mezzo alle truppe era pervenuto a sapere il nome dei semplici soldati di cavalleria ... Il Re si occupava dei matrimoni degli ufficiali e dei bassi ufficiali e dava impieghi civili ai parenti di questi ultimi e ai parenti delle loro donne". Nel tempo le cose cambiarono. Nel febbraio 1860 il generale Pianell, una delle teste pensanti dell'esercito borbonico che dimostrerà le sue capacità nell'esercito italiano combattendo a Custoza, scriveva "Che non venga mai il momento di dover agire perché sarebbe il momento del disastro" e l'ambasciatore sardo Di Groppello "eccettuati i corpi svizzeri … l'esercito napoletano si trova in tristi condizioni, senza spirito militare che lo informi, senza intelligente direzione che lo guidi". Eppure quell'esercito aveva, primo in Europa, sotto la guida di Ferdinando II, posto fine alla rivoluzione del 1848 senza ricorrere all'aiuto straniero estirpando i restanti focolai nelle province calabresi di Catanzaro e Cosenza e successivamente in Sicilia. De Sivo icasticamente tratteggiò la situazione "Nell'esercito napoletano c'erano vecchi impotenti e giovani scontenti" ed aggiunse che tutti erano di scarsa cultura, usi a non prendere decisioni. Era a questi giovani che si rivolgevano Mariano d'Ayala e Giuseppe La Farina esuli a Torino quando rispettivamente scrivevano: "Il bene della patria e l'obbedienza nazionale sono obbligo più sacro del giuramento al re" e "Soldati napoletani mostrate di essere degni figli di quella illustre schiera di prodi che i Borboni fecero morire sulle forche e sul palco e nelle miserie dell'esilio". Restava un esercito che non era forgiato da obbiettivi futuri perché nessuna minaccia si profilava all'orizzonte, un esercito dinastico strumento di repressione interna. Nel 1820 dovette procedere alla sanguinosa rioccupazione della Sicilia, nel 1822 al soffocamento delle rivolte nel Cilento, nel 1828 ancora nel Cilento e a Laurenzana e Calvello nella Basilicata, nel 1837 in Sicilia e negli Abruzzi, nel 1841 all'Aquila, negli anni 1847 e 1848 a Messina, a Napoli, nelle Puglie e nel Cilento, per tutti gli anni cinquanta le rivolte nell'isola furono frequenti. Nel 1860 si ebbe l'ultima, decisiva rivolta di Palermo e dell'isola. Inoltre dovette opporsi a tre tentativi esterni di sollevare le popolazioni, quello di Gioacchino Murat del 1815, dei fratelli Bandiera del 1844 e di Carlo Pisacane nel 1857. Grande impressione fece il fallito attentato al re al Campo di Marte a Capodichino da parte di Agesilao Milano soldato dell'undicesimo battaglione Cacciatori. La morte gli venne data per impiccagione "col quarto grado di pubblico esempio". Fu portato al patibolo vestito di nero, con un velo nero sul volto, a piedi scalzi e con un cartello "uomo empio" nella piazza del Cavalcatoio presso Porta Capuana. Con il metallo della sua carabina e della baionetta venne fusa una statuetta della Madonna dell'Immacolata che venne donata alla famiglia reale.Nel 1859 morì a Napoli a 49 anni Ferdinando II cui successe il figlio ventiquattrenne Francesco II. Veniva così meno l'ultimo baluardo al dissolvimento del regno. "... mancato esso appunto nel gran momento del bisogno, non si trovò chi abbrancasse il timone; e lo stato fra' marosi fu nave senza pilota". ll console sardo a Napoli nell'agosto 1859 esaminava con acutezza la nuova situazione creatasi. Il regno era indebolito, in preda a una profonda crisi morale, ma le forze rivoluzionarie interne non erano in grado di rovesciare il governo e occorreva quindi una forza esterna che non poteva essere il Piemonte per la recisa opposizione delle potenze continentali europee. La rivolta avrebbe dovuto iniziare in Sicilia da sempre in endemica rivolta contro i Borboni e doveva essere guidata da un capo carismatico al cui nome la gente accorresse; tale era Garibaldi uomo da lanciarsi in una impresa dalle incognite paurose. Sulla valutazione del console sardo concordava il De Sivo "V'era un malessere latente inesplicabile, una fiacchezza uffiziale tra gagliardie di parole, un'audacia speranzosa fra' tristi, un malcontento sfiducioso fra gli amatori della patria e della monarchia. Veri oppressori e finti oppressi lavoravano concordi per contrario verso all'opera stessa". E il Buttà, cappellano del 9° Cacciatori "... eravi molto marcio nell'esercito e poca coesione".All'epoca dello sbarco di Marsala la Sicilia era presidiata da 21.000 soldati con 64 pezzi di artiglieria quasi tutti concentrati nella capitale. Di essi saranno impiegati rispettivamente duemila e quattromila soldati nelle battaglie di Calatafimi e Milazzo e, in disordinate scaramucce, poche centinaia di uomini a Palermo. Comandante in capo era il settantuenne tenente generale Paolo Ruffo principe di Castelcicala di nobile famiglia calabrese nei cui ricordi giovanili vi era la partecipazione alla battaglia di Waterloo del 1815, "uomo buono a ubbidire, salvo l'onestà e la fedeltà, non avea pregio da stare in tanta sede". Verrà sostituito dall'inetto settantaduenne generale Ferdinando Lanza "tristo amministratore, mediocre soldato, niente generale". Al 23 maggio in Palermo aveva a sua disposizione 571 ufficiali, 20.290 soldati, 684 cavalli, 457 muli e 36 cannoni.

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