Una vicenda storica che ancora oggi viene ricordata con dolore dai genovesi e che è stata riportata alla luce dal Mil, il Movimento degli indipendentisti liguri. Tutto ebbe inizio all'indomani del 23 marzo 1849. Dopo la sconfitta di Novara e la conseguente abdicazione di Carlo Alberto in favore di Vittorio Emanuele II i genovesi insorsero per riprendersi l'indipendenza. Ma, su ordine del re, il generale Alfonso La Marmora, al comando di almeno trentamila soldati, condusse una feroce repressione contro il popolo in rivolta. Genova fu saccheggiata per 36 ore. Senza sosta né pietà. Persino l'ospedale di Pammattone fu colpito e, solo in quell'assurdo assalto, morirono duecento ricoverati. Il re approvò e scrisse addirittura una lettera di congratulazioni a La Marmora per il suo intervento, definendo tra l'altro i genovesi: "vile e infetta razza di canaglie". Il presidente del Mil, Vincenzo Matteucci, sull'argomento è piuttosto categorico: «La repressione della rivolta di Genova dell'aprile del 1849 al pari dell'insurrezione anti-sabauda di Torino nel 1864, del massacro garibaldino a Bronte e di tanti altri episodi non ha mai guadagnato l'attenzione degli storici. L'antefatto di questa tragedia è semplice: i genovesi non avevano mai accettato la forzata annessione al regno di Sardegna, sancita dal congresso di Vienna, un'annessione che non fu mai ratificata nemmeno da quei plebisciti-farsa, avvenuti nel 1859 in altre regioni, cosicché oggi la Repubblica di Genova è da considerarsi, per il diritto internazionale, sempre sovrana, e sono sempre rimasti fedeli alla loro Repubblica». Che significa tutto ciò? Significa secondo il presidente che almeno l'interpretazione di alcuni fatti va rivista: «Episodi come i moti carbonari del 1821, considerati dalla storiografia tradizionale ispirati dall'irredentismo italiano, sono invece da considerarsi alla luce del mai sopito indipendentismo ligure. L'ostilità dei genovesi verso l'occupazione sabauda raggiunse l'apice dopo il 1848. Nell'aprile del 1849, dopo la sconfitta subita dai piemontesi a Novara da parte del generale austriaco Radetzky, il momento sembrò propizio per sancire nuovamente l'indipendenza di Genova, una sollevazione della Guardia nazionale (composta da residenti) appoggiata dalla popolazione segnò l'inizio della rivolta.Fu allora che il re di Sardegna Vittorio Emanuele II, ordinò al generale La Marmora, a capo di 30.000 bersaglieri, di reprimere nel sangue l'insurrezione. Solo il bombardamento di diversi giorni, che fece centinaia di morti tra la popolazione civile, schiacciò l'eroismo dei genovesi. Riconquistata la città, i bersaglieri di La Marmora si abbandonarono a sfrenate violenze sulla popolazione, senza risparmiare donne e bambini».Il generale Alfonso La Marmora comandò i 30.000 bersaglieri che misero a ferro e fuoco Genova causando centinaia di vittime.Uno degli eroi di quella rivolta è quell'Alessandro De Stefanis, studente savonese, ricordato da un monumento visibile nella chiesa di Oregina. Ma ciò che è ancora più sconcertante è che i resti delle vittime sono oggi sepolti, senza peraltro nessuna 1apide o segno di identificazione, nella chiesa dei Cappuccini e a pochi metri di distanza, in Piazza Corvetto, per una crudele beffa, gli "occupanti italiani", come il Mil li ha definiti, hanno edificato un monumento equestre a Vittorio Emanuele, il sovrano "massacratore" del 1849. Uno "scandalo" dapprima denunciato solo da singole personalità del mondo intellettuale ligure, come il professor Franco Bampi, segretario del Mil, o il segretario dell'Arge, l'Associazione Repubblica di Genova, Matteucci, affiancato da membri del Movimento indipendentista ligure ma poi anche dalle forze politiche autonomiste (recentemente Francesco Bruzzone, capogruppo della Lega Nord in Regione, ha impegnato la giunta a ricordare adeguatamente i patrioti del 1849). A chi gli rimprovera di riattizzare inutili polemiche, il professor Bampi replica: «Non sono cose vecchie o idee bizzarre, come sostengono i cinici, ma memorie storiche da custodire gelosamente perché gran parte dei problemi dell'Italia del 2000 hanno la loro origine nel carattere brutale che ebbe il processo di unificazione nazionale, realizzato col ferro e col fuoco contro la volontà dei popoli che occupavano l'attuale Stato italiano, fossero essi i "cafoni" calabresi fucilati come briganti dai carabinieri sabaudi o i contadini padani nelle cui cascine irrompevano i gendarmi per prelevare la tassa sul macinato. Chi non conosce il passato è destinato a riviverlo, disse un filosofo, e noi abbiamo il dovere di conoscere la nostra storia, i suoi episodi gloriosi e quelli tragici»
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