Caduto Napoleone, l’onda della Restaurazione riportò Ferdinando IV a Napoli. Qui egli unificò il Regno di Napoli con quello di Sicilia formando il Regno delle Due Sicilie per cui assunse il nome di Ferdinando I, ma la triste esperienza rivoluzionaria lo indusse anche a ripristinare alcuni privilegi nobiliari come il maggiorascato, ad abolire il Codice civile introdotto dai Francesi, ad abbandonare molti dei lavori pubblici iniziati durante il dominio napoleonico ed a sospendere gli investimenti produttivi. Egli si adeguò al comportamento della maggior parte dei sovrani del tempo: restaurare significava riproporre i valori e gli istituti tradizionali cancellando quando poteva ricordare la Rivoluzione e il dominio francese.In questo modo Ferdinando I si distaccò dalla borghesia progressista ma soprattutto dagli intellettuali e dalle loro speranze riformiste, per cui la Carboneria (sezione italiana della massoneria europea) trovò nell’Italia meridionale un facile terreno di diffusione, anche presso molti ex ufficiali dell’esercito murattiano.In Calabria, ad esempio, probabilmente a seguito dell’attività di Antonio Jerocades, già nel 1811 c’era stata una prima «vendita» (cioè una riunione) di aderenti alla Carboneria ad Altilia; poi, tra gli ispiratori dei moti carbonari di Napoli del 1820 troviamo il tenente Michele Morelli di Vibo Valentia, educato alle idee liberali nel Liceo di quella città e impiccato nel 1822; ma anche Guglielmo e Florestano Pepe di Squillace, Luigi De Pasquale e Giacinto Dejesse di Catanzaro e Francesco Monaco di Dipignano.Il moto dimostra che la fine dell’ordinamento feudale aveva rafforzato la borghesia calabrese che adesso sentiva il bisogno di riforme istituzionali, a cominciare da una Costituzione; ma almeno sino a quando Ferdinando I non si decise a licenziare il ministro della polizia, che era il principe di Canosa, lo strumento di governo fu soprattutto la repressione.Quando quell’incarico venne assegnato a Luigi de Medici qualcosa cambiò: sopravvenne una certa tolleranza politica e si cercò di migliorare la situazione economica dello Stato con una politica protezionistica in favore dell’industria, limitando l’ingresso dei manufatti concorrenti provenienti dall’Italia del Nord e dall’estero. In effetti, a seguito di questi provvedimenti, ci fu un notevole aumento delle imprese artigianali, sempre presenti nella regione quanto meno per soddisfare i bisogni locali, e di alcune industrie.L’artigianato calabreseIn una regione di antica civiltà come la Calabria, nella quale si sono sedimentate nel tempo molte culture, in una regione nella quale la popolazione si è dovuta più volte ritirare verso l’interno, per motivi diversi, vivendo in una condizione di relativo isolamento, la necessità di far fronte da sé ai bisogni quotidiani del vivere ha fatto sviluppare l’artigianato che ha trovato modo di esprimersi in varie forme, anche a livello artistico.Si sa dell’industria serica e di quella laniera; ma c’è da aggiungere che nel passato non c’era casa senza un telaio di faggio che tessesse la lana, la più antica materia prima, e che non provvedesse al corredo delle ragazze. Poi, al tempo degli Arabi, il telaio ha tessuto il cotone tratto dalle piantagioni realizzate nella pianura di S. Eufemia e nella zona dello Stretto; ed inoltre la seta, la ginestra, il lino, la canapa.Per quel che riguarda i disegni dei tessuti prodotti in Calabria, quelli geometrici sono riconducibili all’influenza dell’arte greca; quelli a strisce all’influenza della cultura egizia; quelli a croce greca all’influenza del mondo bizantino.Ancora oggi è fiorente a San Giovanni in Fiore una scuola del tappeto orientale, di lavori al tombolo e di altri tessuti; ed è notevole la produzione di coperte ed arazzi a Longobucco, quella di scialli e la lavorazione di tessuti in lana e seta a Tiriolo, la tessitura di filati di ginestra a San Luca, a Palizzi e nelle comunità di lingua greca, ed ancora quella di arazzi, ma di tipo diverso, delle comunità albanesi.Altra espressione classica dell’artigianato calabrese era ed è la ceramica, i cui centri produttivi sono Seminara, Gerace, Roccella, Squillace, Badia di Nicotera, Bisognano, Belvedere, Roseto.Si producono ceramiche che hanno una funzione pratica (pignatte, quartare, giarre); ce ne sono altre che fanno invece la funzione di tenere lontano lo spirito del male e i portatori del malocchio; altre che riproducono le tavolette votive dei Greci; altre sono lucerne, a forma di pesce o colomba, di chiara derivazione cristiana; altri - i «babbaluti» - che sono dei portafortuna. Insomma, una incredibile varietà di oggetti diversi oltre che nelle funzioni, nel colore, nella forma, nell’ascendenza.Per tutto questo si può che l’arte della ceramica, come quella della tessitura, è una delle più importanti manifestazioni della nostra cultura popolare.Oltre alla tessitura ed alla ceramica, altra classica espressione della società tradizionale calabrese era l’artigianato del legno. Di esso rimane, tra l’altro, il coro ligneo di Santa Maria del castello di Castrovillari, la statua della Madonna della Serra di Montanto Uffugo ed il Cristo in croce di fra’ Umile di Petralia; ma rimangono anche (conservati nel Museo del folklore di Palmi, nel Centro di documentazione per le arti popolari di Reggio, nel Museo etnografico di San Giovanni in Fiore) le figurazioni ornamentali dovute all’arte dei pastori - questi classici personaggi della vecchia civiltà contadina -, oggetti d’uso agricolo e domestico, mobili che ricordano il buon livello dell’artigianato del legno di Longobardi, Palmi, Montebello, San Giorgio Morgeto, e di numerosi altri centri.C’era, dunque, sino al secolo scorso, un buon artigianato che oggi sopravvive in qualche settore come attività complementare al turismo, ma parecchio è andato perso, travolto dalla produzione industriale, dal diverso gusto delle nuove generazioni e dalle nuove forme di vita. Così, insieme all’artigianato del legno è decaduta la produzione di zampogne, tamburelli e zufoli; ed è venuta meno l’arte della lavorazione del vimine già fiorente a Crucoli, Cosenza, San Giorgio Morgeto, Delianova, San Roberto, Vibo, PolistenaBisignano e Rosarno.Modesta era, invece, l’attività industriale, limitata alle due ferriere di Mongiana e Ferdinandea istituite nel 1782 dal governo borbonico per soddisfare le esigenze dell’esercito, che lavorano la limonite dei giacimenti del monte Stella, e alle miniere di lignite e antimonio esistenti presso Agnana e date in concessione nel 1838 ad un imprenditore inglese.Verso la metà del secolo scorso aumentò in Calabria la produzione della seta grezza e lavorata, soprattutto nelle filande di Reggio, Catanzaro e Vibo Valentia, e ci fu anche, specialmente nel Napoletano, un notevole investimento di capitali stranieri attratti dalla situazione di monopolio protezionistico e dallo scarso costo della mano d’opera locale. Ma se la politica protezionistica poteva risultare utile al settore industriale ed artigianale, essa era dannosa per l’agricoltura perché rendeva più difficile l’esportazione dei prodotti agricoli.E’ vero che la crescita dei centri urbani, provocando una maggiore richiesta di derrate agricole, aveva determinato lo sviluppo dei giardini, degli orti e dei frutteti nelle campagne prossime alle città, l’estensione della coltura dell’ulivo e delle vite, e l’introduzione della barbabietola; ma l’agricoltura era sostanzialmente arretrata ed aveva bisogno di nuove tecniche agrarie, di bonifiche e di infrastrutture possibili solo con una direzione politica più illuminata.Dopo la parentesi francese sarebbe stato necessario sollecitare con opportuni provvedimenti governativi le timide iniziative della parte più attiva della borghesia meridionale, ma anche Francesco I, succeduto nel 1825 a Ferdinando I, e Ferdinando II, salito sul trono nel 1830, temendo le rivendicazioni costituzionali delle forze liberali, si preoccuparono più della conservazione del proprio potere assoluto che dei veri interessi delle popolazioni del Sud.Eppure l’esigenza del rinnovamento è ben presente nella cultura locale. Nei poemi e nelle poesie di Domenico Mauro, nato a S. Demetrio Corone nel 1812, animatore di moti insurrezionali calabrese, volontario a Roma nel 1849 e garibaldino, è espresso il desiderio di rinascita della Calabria; e così Vincenzo Padula (Acri, 1819-1893), sacerdote e intellettuale, denunciò in «Antonello, capobrigante calabrese» e negli scritti apparsi sul suo giornale «Il Bruzio», il bisogno di moralizzazione della vita civile e di trasformazione della realtà sociale, anche dopo l'Unità.A questi vanno aggiunti scrittori politici come Francesco Scaglione, Saverio Vitali, Domenico Spanò-Bolani di Reggio, Saverio Albo, Nicola Tarsia, Michele Bello di Ardore e Gaetano Ruffo di Bovalino, questi ultimi due fucilati per avere guidato il movimento insurrezionale di Gerace; il poeta e letterato Biagio Miraglia di Strongoli, iscritto alla Giovine Italia e garibaldino; Nicola Palermo e Michele Castellano, poeti garibaldini; Vincenzo Gallo-Arcuri, scrittore e poeta, ed altri.La borghesia calabrese, dopo avere atteso inutilmente la concessione della Costituzione da parte dei sovrani di casa Borbone e l'attuazione di riforme liberali, a poco a poco orientò le sue simpatie verso quel lontano Stato piemontese costituzionale che stava interessandosi del problema dell'unità politica della Penisola e che si presumeva ben disposto verso la borghesia meridionale.Come sempre, i motivi che spinsero molti calabresi ad abbracciare la causa del Risorgimento sono d'ordine ideale e di carattere pratico, ma c'è anche da dire che parte della popolazione rimase indifferente, resa tale da secolari esperienze politiche negative, ma anche da quanto la legava a quella piccola patria che era il Regno meridionale.È vero che il Piemonte era uno Stato costituzionale, ma il suo re parlava in francese o in un dialetto incomprensibile, quello piemontese, mentre il sovrano borbonico, pur con tutti i suoi difetti - molti dei quali egli aveva in comune con i suoi sudditi - si esprimeva in modo comprensibile al popolo.I maggiori esponenti del movimento risorgimentale a Cosenza furono Luigi Giordano, Raffaele Laurelli e Domenico Frugiuele, e l'insurrezione del marzo 1844 - esplosa a favore di un «Regno italico costituzionale» - esercitò tale fascino sui fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, mazziniani veneti, da indurli a venire in Calabria con 18 compagni per aiutare gli insorti. Sbarcati la notte del 16 giugno 1844 presso Crotone, essi si avviarono verso S. Giovanni in Fiore dove la popolazione, scambiandoli per banditi, li aggredì e li catturò. Il processo che ne seguì si concluse con la fucilazione, nel vallone di Rovito, di nove patrioti, tra cui i Bandiera.
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