sabato 31 dicembre 2011

Il Corpo dei Bersaglieri


Il Corpo dei Bersaglieri nasce ufficialmente, in forza di un Regio Viglietto, il 18 giugno 1836 ed ha il suo "battesimo del fuoco" l'8 aprile 1848 nella battaglia di Goito durante la Prima Guerra d'Indipendenza.
Da lì in poi la battaglia della Cernaia e, quindi, il 20 settembre 1870, allorché le colonne d'attacco del Regio Esercito Italiano, con in testa i Bersaglieri, irrompono attraverso la Breccia di Porta Pia e travolgono gli Zuavi Pontifici.L'ideatore del Museo fu l'Ispettore dei Bersaglieri Edoardo Testafochi; la raccolta dei cimeli fu poi portata avanti dal suo successore, generale Bruti, fino al 1895, data di soppressione dell'Ispettorato.
l'opera del riordino dei cimeli fu continuata dal Comandante del 3° Reggimento, colonnello Butturini, dal 1902 al 1907, configurandoli in apposito Ente.Il Museo Storico dei Bersaglieri venne inaugurato dal re Vittorio Emanuele III il 18 giugno 1904, presso la Caserma "La Marmora" in Trastevere. Un momento significativo dei primi passi del Museo si ebbe quando, già riconosciuto con Regio Decreto del 16 maggio 1909, riscosse l'onore di custodire le decorazioni al valore collettivo guadagnate dai reparti Bersaglieri.Ai cimeli raccolti dai Reggimenti si aggiunsero quelli della Società di Mutuo Soccorso tra Bersaglieri, che costituiva il primo nucleo dell'Associazione d'Arma, poi inaugurata nel 1925.Il Museo, assurto nel frattempo al rango di Ente morale con il Regio Decreto del 27 dicembre 1921, venne trasferito - per una intuizione del Commissario Straordinario, generale Martinengo di Villagana - nei locali di Porta Pia. Il Comune di Roma mise a disposizione i locali nel 1931 e il 18 settembre 1932 avvenne l'inaugurazione, in concomitanza con quella del monumento al Bersagliere nella piazza antistante.Passando sotto il grande arco della Porta esterna del Vespignani si entra nel cortile interno del Museo ove sono collocatii busti in bronzo dei più illustri rappresentanti del Corpo, unitamente al monumento ad Enrico Toti, il più romano tra i bersaglieri, volontario per vocazione.Dal lato nord del cortile si accede ai locali interni in cui sono esposti i cimeli ed i ricordi relativi alla istituzione e all'evoluzione del Corpo, seguento il filo logico delle vicende alle quali parteciparono reparti di bersaglieri. Al piano terreno sono ubicati: la saletta La Marmora, il Salone d'Onore ed il Sacrario. Nella saletta La Marmora, sotto il busto del Fondatore, sono esposte due carabine, con fiaschetta per polvere a misurazione automatica per il rapido caricamento, da lui ideate prima del 1836; uno dei due modelli fu adottato nel 1839 quale armamento base per i primi reparti di bersaglieri. Nel Salone d'Onore tra i diversi prezioni cimeli c'è la Proposizione originale, uno scritto di pugno da La Marmora per ottenere dal re Carlo Alberto la costituzione del Corpo, documento che è alla radice di tutta la sua successiva e gloriosa vicenda. Il pianterreno si conclude con il Sacrario dedicato agli oltre centomila Caduti per la Patria; la Sala, al cui centro è esposta la sciabola che La Marmora impugnò l'8 aprile 1848 a Goito, ha nella parete di fronte un ritratto ad olio del Fondatore affiancato da due grandi teche contenenti le medaglie al valore collettivo assegnate ai reparti bersaglieri dal 1848 ad oggi.Nei locali del primo piano sono esposti i cimeli, le documentazioni ed i ricordi relativi alle campagne del Risorgimento, dal 1848 al 1866, taluni di estremo interesse storico e documentario, quali uniformi, armi da fuoco e armi bianche personali fino ai ricordi delle campagne contro il brigantaggio nelle province meridionali dopo il 1860.Il piano superiore del lato sud dell'edificio è dedicato, con le sue tre ampie sale, alle campagne coloniali, dal primo sbarco dei bersaglieri a Massaua, il 5 febbraio 1885, ai combattimenti di Agordat (1890 e 1893) e di Cassala (1894), alla battaglia di Adua (1896), alla spedizione in Cina (1900), alle operazioni per la conquista di Libia e del Dodecanneso (1911 - 1913), alla conquista dell'Africa Orientale (1935 - 1936). Il piano inferiore, primo piano del lato sud, è dedicato alla 1^ Guerra Mondiale (1915 - 1918): targhe, fotografie, gagliardetti di reparto, statue celebrative, ritratti e medaglieri di comandanti e bersaglieri semplici, armi italiane ed austriache e, tra queste, la mitragliatrice che falciò, alle ore 16 del 4 novembre 1918 al Quadrivio di Paradiso, il diciannovenne sottotenente Alberto Riva di Villasanta ed i suoi bersaglieri, ultimi Caduti della guerra.Alla 2^ Guerra Mondiale (1940 - 1945) è dedicato il pianterreno del lato sud. Sono qui raccolti ed esposti i cimeli e gli oggetti relativi ai numerosi teatri operativi nei quali i bersaglieri combatterono con tanto valore e sacrificio nella buona e nella avversa fortuna.Il Museo affianca, alle sue strutture espositive, una biblioteca ed un archivio storico, i quali detengono rispettivametne volumi ed opuscoli rari e di edizione esaurita e documenti originali di coloro i quali militarono, in anni lontani, nel Corpo, che ci tramandano la testimonianza dello spirito, delle modalità di addestramento e dell'impiego dei suoi primi reparti.Porta Pia è una delle vie di accesso ricavata sulle antiche mura Aureliane, le mura urbane del periodo classico. Esse sono un capolavoro di architettura militare, avviato dall'imperatore Aureliano nell'anno 271, rimasto in efficienza grazie alla cura costante dei papi per ben sedici secoli. Percorrendo le mura lungo il Corso d'Italia si giunge a Porta Pinciana e di lì a Villa Borghese.



venerdì 30 dicembre 2011

Vittorio Alfieri


Vittorio Alfieri (1749-1803) nasce ad Asti da famiglia nobile. Considerato il maggiore poeta tragico del Settecento, la sua formazione è riportata nell'autobiografia "Vita", cominciata intorno al 1790. Dal 1758 al 1766 frequenta l'Accademia militare di Torino. A conclusione degli studi viene nominato alfiere dell'esercito. Comincia una lunga serie di viaggi, visita l'Italia, l'Inghilterra, la Francia, la Prussia, e perfino la Scandinavia. Nel 1775, dopo dieci anni, torna a Torino; completa una prima tragedia, "Cleopatra", e si dedica allo studio. Il successo di "Cleopatra" lo sprona, negli anni successivi compone le maggiori tragedie: "Antigone", "Filippo", "Oreste", "Saul" e "Mirra" tra le altre. Nel 1777 conosce la contessa Luisa Stolberg, moglie del pretendente al trono d'Inghilterra. Nasce un rapporto che Alfieri manterrà sino alla morte e che mette fine alle sue inquietudini amorose. L'anno successivo si trasferisce a Firenze, poi a Siena, per apprendere il toscano. Gli anni dal 1775 al 1790 sono molto operosi, oltre alle tragedie compone trattati ("Della tirannide " e "Del principe e delle lettere") e gran parte delle "Rime". Tornato a Firenze si dedica alla composizione delle "Satire", di sei commedie e della seconda parte della "Vita". Nel 1803, a soli cinquantaquattro anni, muore, assistito sempre dalla Stolberg. La salma riposa nella chiesa di Santa Croce a Firenze.

giovedì 29 dicembre 2011

Il sacco di Genova


Una vicenda storica che ancora oggi viene ricordata con dolore dai genovesi e che è stata riportata alla luce dal Mil, il Movimento degli indipendentisti liguri. Tutto ebbe inizio all'indomani del 23 marzo 1849. Dopo la sconfitta di Novara e la conseguente abdicazione di Carlo Alberto in favore di Vittorio Emanuele II i genovesi insorsero per riprendersi l'indipendenza. Ma, su ordine del re, il generale Alfonso La Marmora, al comando di almeno trentamila soldati, condusse una feroce repressione contro il popolo in rivolta. Genova fu saccheggiata per 36 ore. Senza sosta né pietà. Persino l'ospedale di Pammattone fu colpito e, solo in quell'assurdo assalto, morirono duecento ricoverati. Il re approvò e scrisse addirittura una lettera di congratulazioni a La Marmora per il suo intervento, definendo tra l'altro i genovesi: "vile e infetta razza di canaglie". Il presidente del Mil, Vincenzo Matteucci, sull'argomento è piuttosto categorico: «La repressione della rivolta di Genova dell'aprile del 1849 al pari dell'insurrezione anti-sabauda di Torino nel 1864, del massacro garibaldino a Bronte e di tanti altri episodi non ha mai guadagnato l'attenzione degli storici. L'antefatto di questa tragedia è semplice: i genovesi non avevano mai accettato la forzata annessione al regno di Sardegna, sancita dal congresso di Vienna, un'annessione che non fu mai ratificata nemmeno da quei plebisciti-farsa, avvenuti nel 1859 in altre regioni, cosicché oggi la Repubblica di Genova è da considerarsi, per il diritto internazionale, sempre sovrana, e sono sempre rimasti fedeli alla loro Repubblica». Che significa tutto ciò? Significa secondo il presidente che almeno l'interpretazione di alcuni fatti va rivista: «Episodi come i moti carbonari del 1821, considerati dalla storiografia tradizionale ispirati dall'irredentismo italiano, sono invece da considerarsi alla luce del mai sopito indipendentismo ligure. L'ostilità dei genovesi verso l'occupazione sabauda raggiunse l'apice dopo il 1848. Nell'aprile del 1849, dopo la sconfitta subita dai piemontesi a Novara da parte del generale austriaco Radetzky, il momento sembrò propizio per sancire nuovamente l'indipendenza di Genova, una sollevazione della Guardia nazionale (composta da residenti) appoggiata dalla popolazione segnò l'inizio della rivolta.Fu allora che il re di Sardegna Vittorio Emanuele II, ordinò al generale La Marmora, a capo di 30.000 bersaglieri, di reprimere nel sangue l'insurrezione. Solo il bombardamento di diversi giorni, che fece centinaia di morti tra la popolazione civile, schiacciò l'eroismo dei genovesi. Riconquistata la città, i bersaglieri di La Marmora si abbandonarono a sfrenate violenze sulla popolazione, senza risparmiare donne e bambini».Il generale Alfonso La Marmora comandò i 30.000 bersaglieri che misero a ferro e fuoco Genova causando centinaia di vittime.Uno degli eroi di quella rivolta è quell'Alessandro De Stefanis, studente savonese, ricordato da un monumento visibile nella chiesa di Oregina. Ma ciò che è ancora più sconcertante è che i resti delle vittime sono oggi sepolti, senza peraltro nessuna 1apide o segno di identificazione, nella chiesa dei Cappuccini e a pochi metri di distanza, in Piazza Corvetto, per una crudele beffa, gli "occupanti italiani", come il Mil li ha definiti, hanno edificato un monumento equestre a Vittorio Emanuele, il sovrano "massacratore" del 1849. Uno "scandalo" dapprima denunciato solo da singole personalità del mondo intellettuale ligure, come il professor Franco Bampi, segretario del Mil, o il segretario dell'Arge, l'Associazione Repubblica di Genova, Matteucci, affiancato da membri del Movimento indipendentista ligure ma poi anche dalle forze politiche autonomiste (recentemente Francesco Bruzzone, capogruppo della Lega Nord in Regione, ha impegnato la giunta a ricordare adeguatamente i patrioti del 1849). A chi gli rimprovera di riattizzare inutili polemiche, il professor Bampi replica: «Non sono cose vecchie o idee bizzarre, come sostengono i cinici, ma memorie storiche da custodire gelosamente perché gran parte dei problemi dell'Italia del 2000 hanno la loro origine nel carattere brutale che ebbe il processo di unificazione nazionale, realizzato col ferro e col fuoco contro la volontà dei popoli che occupavano l'attuale Stato italiano, fossero essi i "cafoni" calabresi fucilati come briganti dai carabinieri sabaudi o i contadini padani nelle cui cascine irrompevano i gendarmi per prelevare la tassa sul macinato. Chi non conosce il passato è destinato a riviverlo, disse un filosofo, e noi abbiamo il dovere di conoscere la nostra storia, i suoi episodi gloriosi e quelli tragici»

mercoledì 28 dicembre 2011

Augusto Elia


Patriota, partecipò alla spedizione dei mille durante il risorgimento italiano. Figlio di Antonio Elia, fucilato dagli austriaci nel 1849 durante la prima guerra di indipendenza italiana, a cui anche Augusto prese parte, cercando di difendere la città di Ancona. La vittoria delle forze straniere e la successiva riannessione della città nello Stato della Chiesa costrinse Augusto alla fuga. Ma nel 1859 ritorna per combattere accanto a Giuseppe Garibaldi nella spedizione dei mille del 1860. In particolare, a Calatafimi, con un eroico gesto salva la vita al generale Garibaldi, riportando un grave ferita al volto.Anni dopo, sempre a fianco di Garibaldi parteciperà anche alla battaglia di Mentana nel 1867 nel tentativo di strappare Roma al governo papalino.Dal 1876 al 1897 è deputato del Regno d'Italia.

martedì 27 dicembre 2011

Incontro fra Manzoni e Garibaldi


Il generale Garibaldi si recò a far visita all'illustre Alessandro Manzoni. - Non è dirsi la viva commozione che provò il grande Poeta, nel trovarsi avanti al grande Capitano. - Permettete, disse Garibaldi, ch'io venga a prestare un omaggio ad un uomo che tanto onora l'Italia. - Non siete voi, rispose Manzoni, che dovete prestare omaggio a me: io che mi trovo ben piccino avanti l'ultimo dei Mille, avanti il loro Duce... e qui una viva emozione lo vinse: Garibaldi chiese di poterlo abbracciare: e si strinsero amendue in amplesso. Garibaldi offerse a Manzoni un mazzolino di viole. - Lo conserverò, disse quest'ultimo, in memoria d'uno de' più bei giorni della mia vita. Congedatosi Garibaldi, l'illustre Manzoni volle accompagnarlo sino alla carrozza.Manzoni, si sa, specie quando doveva prendere la parola in pubblico o in situazioni di turbamento, andava soggetto a qualche fastidiosa impuntatura di pronuncia. Ma in questo caso la piena del cuore che lo invade al cospetto di Garibaldi gli gioca ben altro scherzo: alla maniera di certi eroi alfieriani dal "forte sentire", le parole d'ossequio per il grande generale gli muoiono in gola, rotte e strozzate da una commozione incontenibile. Ora, è più che probabile che l'estensore del trafiletto abbia caricato le tinte psicologiche dell'incontro, ma non si può dire, con questo, che abbia travisato i veri sentimenti di Manzoni, almeno se dobbiamo credere all' ancor più colorita testimonianza resa dalla figlia Vittoria in margine al fatidico 1860:Arrivammo a Brusuglio ai primi di giugno; e subito dopo, papà andò con Bista a Torino per prestare giuramento in Senato. Tornò di là più che mai infervorato d'amor patrio; e quando in settembre arrivarono le notizie della spedizione di Romagna, papà non stava più in sé dalla contentezza: piangeva, rideva, batteva le mani, gridando ripetutamente: "Viva Garibaldi! Viva Garibaldi!". Nessuno l'aveva mai visto prima, né lo rivide mai più dopo, in un tale stato di gioiosa eccitazione.