domenica 24 giugno 2012

ALBERTO CAVALLETTO


Alberto nacque a Padova il 20 dicembre 1813, figlio dell'oste Antonio e di Maria Sandri. Rimasto orfano del padre a tre anni, fu allevato e avviato agli studi dal nonno Matteo Sandri, popolano intelligente ed energico, ostilissimo all'Austria. Incominciò gli studi ginnasiali nel '24 e quando li ebbe compiuti s' iscrisse ai corsi di filosofia e matematica dell'università, dove ottenne nel gennaio del '36 la laurea con lode in ingegneria civile.
Poco dopo entrò nell'ufficio delle Pubbliche costruzioni, come sorvegliante ai restauri delle porte Contarine. Degli anni seguenti sono alcuni progetti per restauri alle porte di città e un piano per l'irrigazione dell'Orto botanico.Nel 1843 il C. venne preposto al reparto idraulico di Battaglia, poi al primo reparto del Po e al reparto dell'Adige di Cavarzere. Ormai esperto, fu promosso nel giugno '47 ingegnere di seconda classe e "per puro merito" ingegnere di delegazione nel marzo del '48. L'accettazione di questo grado alle dipendenze dello Stato implicava però un giuramento di fedeltà che Alberto non intendeva dare, cosicché rifiutò la promozione e solo pochi giorni dopo si arruolò nel corpo franco padovano per combattere gli Austriaci. Da qualche tempo, perduti tre fratelli in pochi anni, Alberto frequentava il gabinetto di lettura, dove convenivano i professori dell'università di sentimenti liberali, i redattori del Giornale Euganeo e del più popolare Caffè Pedrocchi, gli amici F. Coletti, C. Cerato, A. Fusinato e A. Turri.La repressione della protesta padovana dell'8 febbraio, le insurrezioni di Milano e di Venezia e l'entrata in guerra del Regno di Sardegna avevano costretto gli Austriaci, a ripiegare dai centri del Lombardo-Veneto nelle fortezze del Quadrilatero. A Padova, abbandonata dalle truppe il 24 marzo, s'era formato un comitato provvisorio dipartimentale di governo capeggiato da A. Meneghini, che diede la sua adesione al governo provvisorio di Venezia ed aprì gli arruolamenti di volontari. La crociata padovana, bandita il 26 marzo e organizzata dal prof. C. Negri, venne a comprendere circa settecento uomini; essa prese il nome di legione e si mise agli ordini del gen. Sanfermo, avendo per proprio comandante il prof. G. Bucchia e per aiutante maggiore il Cavalletto, che di lui era stato allievo all'università. Partiti per il fronte, i volontari iniziarono la campagna con un infelice scontro presso Sorio l'8 aprile, venendo battuti durante l'attacco a una forte colonna austriaca e si ritirarono in disordine a Vicenza, accusando il Sanfermo d'averli mal diretti. Questi rinunciò al comando dei volontari, sostituito prima dal col. Federigo, poi dal gen. Alberto La Marmora.Nel febbraio del '49 venne eletto fra i rappresentanti dell'esercito all'Assemblea permanente: fu membro della Commissione guerra e marina, votò con i più la resistenza a oltranza (2 aprile), si fece garante col Talamini dei fermi propositi della soldatesca (28 luglio), invano si offerse col Francesconi per azioni ritenute troppo pericolose (6 agosto). Nell'ultima seduta dell'Assemblea egli intervenne per confermare al Manin i pieni poteri con l'impegno di resistere ad ogni costo. Poi, con la capitolazione, il corpo franco venne sciolto (24 agosto) e Alberto ritornò a Padova per la via di Fusina (26 agosto). Il 13 giugno morì la madre.Alberto non volle ritornare nella pubblica amministrazione per non dover sottostare ad obblighi contrari alle sue convinzioni, ed esercitò privatamente la professione acquistando buona reputazione.Fu ammonito nel 1850 dalla polizia per "essersi permesso dei discorsi imprudenti in politica" dopo si mantenne riservato e assai prudente ma quando lo Scarsellini e il Canal vennero arrestati, anche Alberto, per le ammissioni di quest'ultimo, fu arrestato (7 luglio 1852) e tradotto prima a Venezia, poi a Mantova. Durante i ripetuti interrogatori cui fu sottoposto in luglio e in agosto, egli non fece alcun nome e tentò di sminuire la gravità degli addebiti.Con la sentenza del 28 febbraio '53 venne però condannato a morte come persona "di pregiudicatissima condotta politica",reo confesso "di essere stato a cognizione dell'esistenza del Comitato rivoluzionario veneto, di averne avuto ed accettato l'incarico da uno de' capi del Comitato veneto ad organizzare un Comitato filiale rivoluzionario in Padova e di avere mediante acquisto di cartelle mazziniane cooperato a conseguire i mezzi per la sommossa". Il 3 marzo il Radetzky commutò tale condanna "per somma grazia in 16 anni di carcere in ferri".In prigione si ammalò e aggravatesi le sue condizioni di salute, Aberto si indusse fin nel dicembre '53 a chiedere il trasferimento in un'altra fortezza, ma solo nell'ottobre '56 venne trasportato a Lubiana; qui trascorse gli ultimi mesi di prigionia, poiché il 3 dicembre gli giunse l'annuncio dell'amnistia concessa ai politici per la nascita del principe Rodolfo. Il 7 dicembre fu scarcerato e il 12 poté rivedere la sua città, la sorella Rosa e gli amici.Trascorse a Padova, continuamente sorvegliato, gli anni 1857 e 1858 al servizio delle Assicurazioni Generali. Nel 1858 pubblicò pure, anonime, due proposte di coordinamento idraulico dei fiumi e degli scoli del Padovano per conto della Società d'incoraggiamento. Ma alle prime avvisaglie della seconda guerra d'indipendenza, all'inizio di gennaio del '59, egli emigrò in Piemonte, e sostò a Novara presso l'amico capitano medico G. Tappari e si stabilì in aprile a Torino. Era sua intenzione farsi raggiungere dalla sorella e arruolarsi come volontario nell'esercito, ma la salute non buona e la rapida sospensione delle ostilità gliene tolsero l'opportunità. Fu invece attivo fin dal 14 luglio nella presentazione di proteste e di memoriali a nome dei Veneti (con il Giustiniani, il Tecchio, il Tommaseo e altri), perché il governo sostenesse il loro diritto alla libertà e all'indipendenza dall'Austria.Quando la Lombardia, seguita dall'Emilia, dalle Marche e dalla Toscana, si unì al Piemonte, il C. pubblicò l'opuscolo La questione politica della Venezia. Considerazioni di un cittadino veneto (Torino 1859).Alberto partecipò in agosto alla riunione degli esuli veneti a Torino, fungendo da segretario. Egli figurò tra i firmatari della protesta del 16 settembre. Si costituirono, con l'appoggio cavourriano, in molte città comitati di emigrati e a Torino il Comitato politico centrale veneto.L'anima del Comitato centrale era Alberto, cui era riservata la parte più faticosa della complicata gestione, la corrispondenza coi comitati, con i ministeri e gli altri uffici civili e militari, fino alla più umile con i privati e coi postulanti. Aiuto efficace gli veniva da A. Meneghini, che attendeva alle pubblicazioni, e da F. Coletti, che a Padova dirigeva l'opera dei comitati segreti.Nella primavera venne organizzata l'astensione degli elettori veneti dal proporre deputati per il Consiglio dell'Impero; si attuarono manifestazioni di protesta contro il dominio austriaco; venne sostenuta la sottoscrizione per "il milione di fucili" per Garibaldi. Alberto e i suoi consenzienti sconsigliavano nel contempo le azioni rivoluzionarie d'iniziativa popolare prevedendone l'insuccesso.Alberto viveva modestamente, non volendo accettare un impiego governativo. Accettò la candidatura a deputato per poter rappresentare i Veneti.Alla Camera intervenne più volte sulle questioni d'oltre confine, ma non mancò di occuparsi di problemi idraulici piemontesi, di lavori agli argini del Po e di un ponte di chiatte presso Casalmaggiore, e di sollecitare dal Menabrea lavori straordinari di difesa e di navigazione fluviale e lacustre.Nel 1865 lasciò la guida del Consiglio generale presieduto dal De Boni. Con le sue dimissioni il Comitato, cui mancava l'appoggio del governo e la fiducia dei comitati segreti, rimase quasi completamente inattivo. Il Cavalletto in seguito riprese i contatti coi Comitati veneti e restò attivissimo nella commissione governativa per l'emigrazione, seguendo pure il governo a Firenze alla fine del '65.All'inizio del '66 la sua attività di corrispondenza e di raccolta di notizie d'interesse militare da trasmettere ai ministeri della Guerra e della Marina s'intensificò. Attraverso di lui, il governo poté organizzare delle bande armate, che, guidate da C. Tivaroni e C. Vittorelli, fiancheggiarono le mosse dell'esercito regolare nel Cadore. Egli entrò il 26 maggio a far parte a Piacenza dell'ufficio d'informazioni militari, di cui all'inizio delle ostilità assunse la direzione. Anche in questo compito si disimpegnò bene, con l'aiuto di coraggiosi collaboratori, ma il Comando supremo non seppe fare tempestivo uso delle informazioni ricevute. Dopo Custoza, ripresa l'avanzata, il Cavalletto seguì l'esercito a Ferrara, dove il De Lazara e il Coletti recarono l'omaggio di Padova al re.Dopo la liberazione, il Consiglio comunale di Padova gli decretò il 28 luglio il conferimento d'una medaglia d'oro.Nelle elezioni politiche di dicembre il C. venne però battuto nel primo collegio di Padova da F. Cavalli, meglio accetto agli elettori abbienti e conservatori. Perciò nel gennaio '67 egli rientrò nel genio civile come ingegnere capo di prima classe, passò poi a Roma ispettore di seconda classe e nel '73 ispettore di prima classe; qui finì la sua carriera, per dispareri sull'indirizzo amministrativo, del ministero, cui egli rese buoni servigi nel campo dei lavori idraulici.Il Cavalletto non si presentò più candidato a Padova; fu invece deputato di Valdagno per la decima e undicesima legislatura, nella seconda sessione della stessa sostituì il dimissionario J. Moro come rappresentante di San Vito al Tagliamento, dove - mentre gran parte dei deputati moderati venivano battuti - fu rieletto per la dodicesima, tredicesima e quattordicesima legislatura, passando infine nell'82 a rappresentare il terzo collegio di Udine per la quindicesima e la sedicesima legislatura.Nella Destra egli occupò un ruolo di prestigio, apprezzato per il suo passato e la sua indipendenza da interessi regionali o di gruppo. Alla Camera si occupò specialmente del riordinamento del ministero dei Lavori Pubblici, di opere idrauliche e ferroviarie, e per la tutela morale e materiale di quanti avevano contribuito alla liberazione e all'unificazione d'Italia. Fu tra i più caldi fautori della rivendicazione di Roma a capitale, cattolico contrario ad ogni forma di temporalismo, rigido assertore dei diritti dello Stato in materia finanziaria e d'ordine pubblico.A Padova egli contava numerosi amici sicuri e collaboratori, come l'ing. Antonelli e A. Rizzoli. Fu per lunghi anni consigliere comunale (e fece memorabili interventi contro l'introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole) e promosse nell'82 una ripresa del partito moderato con la fondazione del quotidiano L'Euganeo, in sostituzione del Giornale di Padova del Sacchetto, ritenuto troppo debole e conformista. Continua fu poi la sua vigilanza e l'interessamento per evitare nuove inondazioni nel Veneto, per la sistemazione del corso del Sile e del Brenta, per il compimento delle fortificazioni alpine. Presiedette nell'82 la commissione delle ferrovie e nell'86 quella per la custodia degli argini dei fiumi, torrenti e canali.Nel marzo '92 fu eletto vicepresidente della Camera. Non rieletto nelle elezioni di quell'anno, venne assunto quasi subito al Senato, dove entrò il 12 dicembre, fatto segno a dimostrazioni di omaggio per i suoi meriti d'antico patriota.Nel marzo 1893 Umberto I l'insignì del Cordone dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.Ormai vecchio e malato, Alberto partecipava raramente alle sedute del Senato; la sua solida fibra gli permise nel '96 di riprendersi dopo una leggera paralisi e di partecipare ancora alle riunioni della Commissione comunale di lavori pubblici di Padova.Morì il 18 ottobre 1897 a Padova per un improvviso ultimo collasso.


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