Girando per le vie della nostra città, spesso ci si domanda chi sia il personaggio storico cui la stessa è intitolata. Molti sono nomi che non ci dicono nulla. Eppure, dietro quei nomi, magari accompagnati da una data, spesso c’è una vita interamente dedicata alla città.
È il caso di Giuseppe Sciva, un calzolaio di 27 anni, giustiziato dopo i moti dell’1 settembre 1847 che, di fatto, diedero il viale all’insurrezione che nel 1848 infiammò l’intera Europa.Pochi mesi prima, nel luglio del 1847 il poeta Luigi Settembrini, mazzinianio della Giovine Italia, scrisse un libello, “Protesta del popolo delle Due Sicilie”, che era un duro atto d’accusa contro il governo di Ferdinando II di Borbone e sulle conseguenze per il popolo delle Due Sicilie.
“Questo Governo -scriveva Settembrini- è una immensa piramide la cui base è fatta dagli sbirri e dai preti, la cima dal re. Ogni impiegato, dal soldato al generale, dal gendarme al ministro di Polizia, dal prete al confessore del re, ogni piccolo scrivano è un despota spietato e lo è peggio su quelli che sono a lui soggetti, mentre è un vilissimo schiavo nei confronti dei suoi superiori! Onde chi non è fra gli oppressori si sente da ogni parte schiacciato dalla tirannide di mille ribaldi, e la pace, le sostanze, la libertà degli uomini onesti dipendono dal capriccio, non dico di un principe o di un ministro, ma di ogni impiegatuccio, di una baldracca, di una spia, di un gesuita, di un prete. O fratelli italiani, o generosi stranieri, non dite che queste parole sono troppo aspre, e non scrivete nei vostri giornali che dovremmo parlare con più moderazione e freddezza; venite fra noi, sentite voi pure come una vera mano di ferro ci stringa e ci bruci il cuore; venite a soffrire quanto soffriamo noi, e poi scrivete e consolateci. Noi pregheremmo Iddio di donare senno a questo Ferdinando, se sapessimo che Dio ascolta la voce del popolo, che è pure la voce di Dio. Non ci resta dunque che far palesi le nostre miserie, mostrare che siamo immeritevoli di soffrirle e che è vicino il tempo in cui dovrà finire per noi tanta vergogna”.La reazione di Ferdinando II fu immediata, nonostante alcune promesse e la riduzione dei dazi sul sale, sul vino e sul grano, ma ormai i meccanismi che avrebbero portato alla rivoluzione del ’48 si erano già stati messi in moto. I circoli mazziniani erano al lavoro per organizzare la sollevazione e anche Messina si preparava a fare la propria parte. Alcuni Comitati come quelli di Cosenza, Catanzaro e Palermo cercavano di prendere tempo sostenendo che le città non erano pronte, Reggio Calabria e Messina erano di parere opposto e riuscirono ad imporre la propria tesi. Contrari e no, decisero comunque di giocarsi il tutto per tutto il 10 settembre di quell’anno. Come spesso accadde durante le Guerre di Indipendenza che portarono all’Unità d’Italia, all’ultimo momento alcune città fecero un passo indietro. Solo le due città dello Stretto si mossero contro i Borboni. Impreparati e divisi, i cospiratori fallirono l’obiettivo. Il piano preparato con cura (impadronirsi delle armi durante un banchetto degli ufficiali organizzato per l’1 settembre) fu rinviato, ma non tutti furono avvertiti. Chi rimase tagliato fuori si mosse, ignaro di ciò che lo aspettava. Un conciatore, Antonio Pracanica, guidava gli insorti. Troppo pochi per avere ragione dei militari, gli insurrezionisti furono sconfitti dopo un aspro combattimento con le truppe borboniche. Molti dovettero andare in esilio, parecchi furono catturati, uno solo fu ucciso.Ferdinando II reagì con estrema durezza ed immediatamente dopo il fallimento del moto, che si concluse il 10 settembre dopo aspri combattimenti iniziarono i processi. In nove, tra i quali anche preti come Giovanni Krimi e frati, furono condannati all’ergastolo, dieci riuscirono a fuggire, alcuni morirono in prigione. Giuseppe Sciva fu fucilato il 2 settembre. Del calzolaio ventisettenne, che perse la vita per l’Unità d’Italia, restano soltanto vaghi accenni nei libri di storia locale ed una via a lui intitolata a Montepiselli.
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