/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": Garibaldi e il Socialismo

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venerdì 1 aprile 2011

Garibaldi e il Socialismo


Garibaldi fu un uomo di azione e non un pensatore politico, ma i suoi principi di libertà, di fratellanza fra gli uomini e di fiducia nel progresso lo portarono a vedere nel socialismo, e nell’Internazionale, come scrisse il 22 settembre 1872 a Celso Ceretti, “il sole dell’avvenire”. A coloro che, come Giorgio Pallavicino, gli chiedevano ragione della sua adesione all’Internazionale, rispondeva che la sua adesione non era tanto dovuta ai principi teorici della Grande Associazione, alla lotta di classe, o alla socializzazione dei mezzi di produzione, ma al fatto che essa, unendo tutte le forze dei movimenti per l’emancipazione dei lavoratori, “rappresentava una continuazione del miglioramento morale e materiale della classe operosa, laboriosa e onesta, conformemente alle tendenze umane di progresso di tutti i tempi”.

In verità, il socialismo di Garibaldi era un socialismo umanitario, basato sui principi di solidarietà umana e reso più concreto dalla lucida comprensione dell’urgenza, della gravità della questione sociale che lo spirito di associazione poteva allora alleviare, così come la progressiva emancipazione politica e sociale delle classi più povere e sfruttate, le quali classi erano spinte a lottare più per un sentimento di giustizia e di umana dignità che per il comunismo, come Garibaldi stesso scrisse il 2 maggio del 1871, proprio in riferimento alla Comune e all’Internazionale. Bisogna anche dire subito che, come si è visto, Garibaldi non era un materialista e non accettava il materialismo. Anzi i suoi valori di fondo, come per Mazzini e proprio da lui influenzato, erano la famiglia, la patria e l’umanità. Apparentemente erano valori tradizionali, in realtà interpretati in maniera nuova e vivificati da un forte afflato di solidarietà umana e sociale. In questo senso la proprietà privata, come la cooperazione, o le varie forme di associazione, non erano altro che strumenti e mezzi del progresso sociale. Probabilmente, come tutti i maggiori biografi riconoscono, Garibaldi -ma lo stesso vale anche per Mazzini- si avvicinò alle idee socialiste da premesse sansimoniane. Quando nel marzo 1833 il giovane marinaio nizzardo, già forte di sentimenti di libertà e sensibile ad ogni idea generosa, incontrò un gruppo di sansimoniani imbarcati sulla nave Clorinda, diretta da Marsiglia a Costantinopoli, fu colpito dalle loro idee di giustizia sociale e di pace. I seguaci delle idee sansimoniane erano stati costretti a subire il carcere e poi l’esilio, proprio per le loro idee che professavano con religioso fervore. Emile Barrault, l’austera figura di guida di quegli esuli, donò a Garibaldi una copia del Nuovo Cristianesimo di Saint-Simon, un libro che egli portò sempre con sé fino alla fine dei suoi giorni.
In effetti, le matrici del «socialismo umanitario» di Garibaldi, come lo ha definito Letterio Briguglio, possono essere ricondotte all’incontro giovanile con il sansimonismo, all’influenza del pensiero di Giuseppe Mazzini, che del resto si richiamava anch’egli al sansimonismo, ed infine all’associazionismo massonico. Su questo schema si muove anche il recente contributo di Maurizio Degl’Innocenti. All’incontro con i sansimoniani, che Garibaldi scoprì nel 1833 sul piroscafo Clorinda mentre da Marsiglia esulavano verso il Mar Nero, si deve la scoperta dell’«Umanità» e cioè della dimensione universale dei diritti degli uomini, in parallelo alla scoperta, romantica e mazziniana, dei diritti dei popoli in quanto nazioni. Fu, del resto, proprio Mazzini a vedere nella nazione non il chiuso ed egoistico recinto di una identità animata da volontà di dominio, ma il principio di base di una volontà collettiva aperta all’insieme delle nazioni e ai diritti di tutti gli uomini, in una linea di tendenza mirante ad unificare «la storia umana verso un nuovo cosmopolitismo».
Il pensiero «religioso» di Saint-Simon e dei seguaci del Nouveau Christianisme, così come il pensiero del giovane Mazzini, influenzarono Garibaldi verso una visione ampia e generosa della nazione e della comunità nazionale, viste come basilari per l’affermazione di una umanità più libera e solidale. Da qui il nesso, tipico dell’ideologia patriottica mazziniana e dei democratici italiani del Risorgimento, fra l’idea di nazione e l’idea di umanità. Mazzini aveva colto la natura dinamica del nesso fra democrazia politica e comunità di uomini liberi e socializzati che si formavano in comunità dando il primato alla propria indipendenza nazionale, ma aprendosi al resto dell’umanità. Il giovane Garibaldi aveva abbracciato la fede patriottica con l’idea che l’uomo nuovo doveva porsi al servizio dell’umanità per la liberazione delle nazioni e per l’unione dei popoli oppressi, tutti cittadini della Grande Patria Universale. Il sansimonismo e il patriottismo romantico si presentavano come le più avanzate manifestazioni dello spirito di novità e di progresso che soffiava nel nuovo secolo, in grado di armonizzare pensiero e azione, individui e umanità, diritti dei popoli e diritti degli uomini.
La connessione tra famiglia, nazione e umanità, poi riassunta nel pensiero mazziniano della fratellanza umana universale, rappresenta il tratto caratteristico del pensiero di Garibaldi, che con Mazzini si trovò in contrasto sulle scelte politiche concrete e contingenti, ma non su questi principi fondanti. Come Mazzini, anche Garibaldi, insieme con molti altri patrioti italiani, non accettò mai il materialismo, attribuendo a Dio la funzione di «regolatore del moto e dell’armonia dei mondi», e vedendo in Cristo le virtù dell’uomo e del regolatore. Come ha scritto Briguglio, Garibaldi non rinunciò mai «agli inesauribili principi etici e cristiani fino a porli a fondamento di un suo socialismo umanitario». Non a caso Robeto Michels nella Storia critica del movimento socialista italiano definì Garibaldi un «socialista evangelico».
L’altra matrice informativa del pensiero di Garibaldi fu la cultura massonica del suo tempo che non era solo quella universalistica e razionalistica del Settecento, ma quella attraversata dal nuovo spirito romantico e da una sorta di rinnovata religione laica. Garibaldi, come è noto, aderì alla massoneria alla loggia irregolare «Asile de la vertù» e poi alla loggia «Amis de la patrie», dipendente dal Grande Oriente di Francia. In queste logge erano presenti francesi animati da idee socialistiche e Garibaldi desiderava mantenere buoni rapporti con l’influente emigrazione transalpina. Le sue occupazioni e le esigenze familiari gli impedirono di frequentare con assiduità la loggia, dove rimase con il grado di apprendista. La massoneria, spenta dopo la caduta di Napoleone, in tutti gli stati italiani, dove i sovrani restaurati si trovarono a combattere le nuove associazioni latomistiche come la carboneria, costituiva ormai solo un fattore di utile sostegno all’emigrazione politica e manteneva una sua dimensione internazionale e universale, nonostante le divisioni dottrinarie e le diverse ritualità. L’influenza della massoneria sugli sviluppi del Risorgimento italiano fu più indiretta che diretta: da un lato perché la carboneria ereditava in parte il patrimonio simbolico e i valori della massoneria, pur muovendosi su un terreno politico specifico, costituzionale e nazionale; dall’altro perché la massoneria internazionale fu utile nell’aiutare a orientare l’emigrazione politica italiana in Europa, nel bacino del Mediterraneo e nelle Americhe, specialmente nelle città portuali dove le logge si erano impiantate.
Garibaldi, che sicuramente fu influenzato dagli ambienti massonici internazionali e nella visione religiosa dell’armonia dell’uomo con la natura, si avvalse a più riprese del sostegno della fratellanza massonica, nel piano pratico, ma anche nella lotta contro il dispotismo e l’«oscurantismo» della monarchia dei preti e «del privilegio». Quando dopo il 1859 la massoneria si ricostituì in alcune città italiane, da Torino a Palermo, e subito si manifestarono divisioni e contrasti, Garibaldi, che si iscrisse a Palermo nel 1860 e poi divenne il primo Gran Maestro a Firenze (1864) e infine nel 1865 Primo massone italiano e Gran Maestro onorario a vita, pensò sempre di utilizzare la massoneria per favorire l’unione delle forze patriottiche per il «miglioramento morale e materiale della famiglia italiana».
Come si può notare la formazione politica di Garibaldi rifletteva gli umori del suo tempo e risentiva degli impulsi ideali e politici più generosi e vitali. Non era quindi un pensatore politico né un dottrinario, anzi il suo innato buon senso e il suo realismo, lo portarono e diffidare dai dottrinari astratti e dei teorici. Per questo fu criticato anche ferocemente da Mazzini come da Proudhon e da Marx. Tuttavia lui stesso non usava troppa riverenza verso i teorici e li inchiodava alla astrattezza e alle astrusità dei loro sistemi. Infine, Garibaldi era dotato di doti naturali, carismatiche, che lo facevano amare da tutti coloro che lo avvicinavano e in particolare dei giovani e dalle donne.
La matrice popolare e umanitaria del pensiero politico di Garibaldi lo portavano naturalmente nel campo democratico e socialista, sempre a fianco dei ceti più deboli e dei lavoratori. Certo è che l’influenza esercitata da Garibaldi sui giovani fu enorme e i volontari che lo seguirono nelle sue imprese patriottiche furono, in gran parte, influenzati anche sul piano politico in direzione delle idee democratiche e del socialismo. In questo senso aveva ragione Giorgio Spini nel sottolineare il doppio contributo dato da Garibaldi al movimento socialista da un lato con il prestigio della sua adesione all’internazionale e dall’’altro con l’apporto «di un personale politico» rappresentato dai molti garibaldini passati al socialismo. Per questo occorre comprendere il senso del realismo politico di Garibaldi, il giudizio su di lui va basato sulle scelte concrete che caratterizzarono la sua azione per comprendere il senso e la risonanza alle sue decisioni, fondate sui principi, ma sull’intuito nell’individuare i problemi sociali e sulla comprensione diretta dei bisogni e delle aspirazioni che fermentavano in seno ai giovani colti e alle classi popolari. Per questo è utile mettere a confronto il suo pensiero e quello dei grandi teorici per capire il senso della concretezza delle scelte di Garibaldi e della grande popolarità del suo modo di fare politica con poche parole, ma con gesti concreti e scelte dotate di realismo, mai, però, disgiunte dalla forza di quei principi che aveva coltivato fin da giovane e che avevano informato la sua vita fra successi e insuccessi, esaltazioni e delusioni. Il suo realismo lo spinse a giudicare negativamente l’intransigenza mazziniana e dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48 e la caduta della Repubblica Romana cercò una convergenza con la monarchia sabauda, l’unica ad aver conservato un regime costituzionale in tutta la penisola e l’unica a mostrare ambizioni dinastiche che andavano oltre lo stato piemontese. Persino l’impresa dei Mille, così audace da rasentare l’impossibile, fu condotta con abilità e con scelte politiche realistiche, anche quando si dovettero prendere decisioni dolorose, come la brutale repressione dell’occupazione delle terre da parte dei contadini di Bronte o come la scelta di evitare uno scontro con l’esercito regio piemontese e di ritirarsi a Caprera. Gli intransigenti piemontesi non capivano la sua politica, ma i suoi volontari e il popolo solo in lui fidavano. Egli appariva sempre sincero e disinteressato, fino all’ingenuità. Questo era il suo fascino. Del resto la semplicità del cuore è una virtù rara. Da qui, però venivano le critiche dei dottrinari.
Osvaldo Gnocchi Viani, prima mazziniano poi ispiratore del Partito Operaio Italiano, nei suoi Ricordi di un internazionalista, sottolineava l’influenza sansimoniana nel socialismo di Garibaldi, che rimase sempre un “socialismo del cuore” e non un socialismo sistematico e dottrinario. Quando Garibaldi nel 1867 si recò a Ginevra per il convegno dell’Internazionale della Lega per la pace e la libertà, dichiarò anche di condividere gli scopi dell’Internazionale che era sorta a Londra nel 1864 con l’adesione dello stesso Mazzini e di Karl Marx. Garibaldi aveva ricevuto una copia dell’Indirizzo inaugurale e degli Statuti dell’Internazionale all’inizio del 1865 da Bakunin stesso che, a sua volta, li aveva ricevuti da Marx con l’incarico di farglieli recapitare a Caprera.
Allora l’Internazionale, per quanto Marx ne avesse redatto l’Indirizzo e gli Statuti, non faceva riferimento alla collettivizzazione dei mezzi di produzione ed era un movimento a cui aderivano le tendenze più varie del socialismo e dell’associazionismo operaio. Con questo spirito vi aderì Garibaldi senza andare troppo per il sottile e senza distinguere fra le dispute che dividevano le varie correnti. Del resto Marx ed Engels non potevano fare a meno di considerare la popolarità di Garibaldi, accolto trionfalmente a Londra proprio dalle Associazioni operaie, ma consideravano anche lui un “borghese”, e gli operai che lo applaudivano poco più che “asini”. A sua volta Garibaldi, che era contrario alla “guerra del lavoro contro il capitale” e alla “collettività della terra e degli strumenti di lavoro” considerava i “direttori o coriferi della grande associazione Internazionale dei lavoratori”, niente altro che “gente senza pratica”. Sarebbe bastato, secondo Garibaldi, portare tutte quelle “belle teorie” sul “terreno della pratica…per vederne l’impraticabilità.”.
Mentre Mazzini condannò la Comune e al socialismo che avanzava contrappose sempre la sua dottrina sociale del solidarismo e dell’associazionismo, Garibaldi non solo approvò la lotta dei comunardi, vedendone gli eccessi, ma anche gli aspetti positivi, e non solo gli “orrori” che il patriota genovese aveva stigmatizzato, ma confermò anche il suo sostegno all’Internazionale, o meglio all’Internazionale come la intendeva lui. Come gli fece capire il Pallavicino, che insieme a Giuseppe Petroni, direttore della mazziniana “La Roma e il popolo”, si inserì nel dibattito che divideva i due capi del movimento democratico italiano, Garibaldi si figurava una Internazionale a “immagine e similitudine” tutta sua, che non rispondeva alla realtà di un’associazione ormai dominata dall’idea della lotta di classe e dalle idee collettivistiche e rivoluzionarie. Addirittura Garibaldi dichiarava che lui era iscritto all’Internazionale ancora prima che fosse nata.
In realtà il socialismo di Garibaldi era un socialismo insieme del cuore e del buon senso, che influì sullo sviluppo del movimento operaio e socialista italiano, non tanto per gli aspetti dottrinali, quanto per quelli pratici e concreti, che agirono potentemente sulla spinta ideale e pratica alla formazione dell’associazionismo, delle leghe e delle cooperative che a centinaia e centinaia sorsero con il suo patrocinio, oppure con lo stimolo dei suoi seguaci, complice anche la Massoneria, nel dare vita a quel vasto ed eterogeneo movimento associativo e popolare su cui si basò l’azione del movimento operaio e socialista.
La galassia associativa da cui presero forma le esperienze socialiste che portarono alla nascita del Partito Socialista Rivoluzionario di Andrea Costa o del Partito Operaio lombardo e infine del Partito socialista sorto a Genova nel 1892, risentiva lungamente e profondamente dell’influenza ideale e pratica di Garibaldi e del grande movimento popolare che aveva accompagnato la sua figura attraverso il garibaldinismo. In questo senso Garibaldi fu il principale veicolo del passaggio di ampi strati del movimento democratico italiano, e dei suoi tanti seguaci, verso il socialismo. Per questo, molti dirigenti e personalità del socialismo italiano, da Costa a Turati, da Loria a Labriola, videro in Garibaldi, come scrisse lo stesso Labriola, un “geniale precursore delle idee dell’Umanità redenta”.

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