Quartogenito di Giuseppe e di Anita Ribeiro da Silva, nacque a Montevideo il 24 febbr. 1847 e, come già il fratello Menotti, fu battezzato con il nome di un mazziniano, il frusinate Nicola Ricciotti, fucilato con i fratelli Bandiera il 25 luglio 1844. Trasferitasi la famiglia in Italia all'inizio del 1848, trascorse l'infanzia a Nizza dove, mentre frequentava un seminario tenuto dai gesuiti e poi distrutto da un incendio di cui molto tempo dopo si sarebbe attribuita la responsabilità (Roma, Museo centr. del Risorgimento, b. 1034/104/5), fu allevato dalla nonna paterna e da un'amica del padre, la signora Deideri, la cui prima cura fu quella di alleviare gli effetti di una caduta che ancora piccolo lo aveva reso storpio. L'infortunio, la cui gravità poté essere attenuata nel tempo (alla fine del 1858 il padre diceva di lui che era in grado di "camminare senza zoppicare", Epistolario, III, p. 197), ma solo fin quando una ferita riportata in Francia nel 1871 lo costrinse all'uso delle grucce, condizionò probabilmente il suo carattere e certo ebbe un effetto sulla sua educazione che, proprio per metterlo in grado di ricevere cure più efficaci, ebbe luogo in Inghilterra, sotto la tutela di altre amiche del padre, Emma Roberts e Jessie White Mario, che tra Londra, Liverpool e Manchester gli fecero seguire studi di ingegneria e mineralogia. Intanto, in Italia aveva inizio il decennio che avrebbe visto il padre impegnato, con esito spesso doloroso, nel completamento dell'unificazione nazionale. Al G., che avrebbe voluto prendervi parte sin da giovanissimo, fu invece imposta la prosecuzione degli studi, intervallata da qualche breve soggiorno a Caprera e da una sola apparizione pubblica: la presenza a fianco del padre durante il viaggio in Inghilterra dell'aprile 1864.
Il G. accettò ma probabilmente non gradì questa condizione che, diversamente dal fratello maggiore, lo voleva dedito più ai libri che alle armi; nel frattempo, mentre sviluppava un carattere irruento fino alla litigiosità, prendeva interesse per le ideologie più radicali, per quella repubblicana in primo luogo, dai cui postulati rivoluzionari si aspettava l'occasione per emergere. Finalmente, allo scoppio della guerra del 1866 per la liberazione del Veneto, il padre lo accolse nel corpo dei volontari assegnandolo alle guide a cavallo; e il 21 luglio, a Bezzecca, il G., affrontando con coraggio il fuoco austriaco, dimostrò di non essere indegno della camicia rossa. La sua ambizione era però anche quella di avere un ruolo importante nella cospirazione internazionale e di qualificarsi come l'autentico erede di una tradizione ultratrentennale di lotta per la libertà dei popoli. In collegamento con i tanti esuli che gravitavano attorno a Caprera studiò piani e progetti insurrezionali che poi, viaggiando instancabilmente da un paese all'altro, cercava di tradurre in atto, senza sfuggire però alla assidua sorveglianza dei governi della Destra che, sapendolo in contatto con G. Mazzini, lo ritenevano oltremodo pericoloso: nel marzo del 1867 era segnalato in Grecia, impegnato su incarico del padre a organizzare una banda armata da impiegare nell'insurrezione di Creta (ma allora furono gli stessi Greci, dietro pressione della diplomazia delle potenze, a imporre ai volontari italiani il rimpatrio); l'anno dopo lo si avvistava a Londra, interessato forse a trattare una partita di fucili e a incontrare il Mazzini; nel 1869 lo si vedeva cercare rifugio a Corfù in seguito al fallimento di una rivolta nel Catanzarese da lui capeggiata. Intanto, a chiusura dell'iniziativa con cui il padre aveva tentato di far cadere con la forza il potere temporale, si era già verificato lo sfortunato episodio di Mentana (3 nov. 1867), preceduto di pochi giorni dall'assalto a Monterotondo, dove il G., al comando di un plotone di guide, aveva fatto il possibile per "distinguersi sotto gli occhi del padre" (White Mario, II, p. 119). Che fosse in ascesa sul piano militare lo provarono gli eventi che accompagnarono la fine dell'Impero napoleonico in Francia. Accorso col padre e col fratello Menotti a difendere la neonata Repubblica dall'invasione dei Prussiani e posto alla testa della IV brigata - un corpo formato inizialmente di poche centinaia di franchi tiratori, in gran parte francesi -, il G. si rese protagonista, più del fratello, di alcuni bei colpi di mano, come quando il 20 nov. 1870, a Châtillon-sur-Seine, assalì di sorpresa il presidio nemico, fece qualche centinaio di prigionieri, requisì materiale bellico e si ritirò prima del contrattacco. Celebre divenne poi la conquista della bandiera del 61° reggimento di fanteria, sottratta ai Tedeschi - unico caso in tutta la guerra - nell'ultimo giorno della battaglia di Digione (23 genn. 1871), dopo che il G., asserragliato con i suoi uomini in una vecchia fabbrica, aveva avuto ragione degli attacchi nemici, bloccando così il pericolo di una controffensiva. Su questo episodio e sugli altri momenti della campagna il G. sarebbe tornato molti anni dopo con una lunga narrazione (Ricordi della campagna di Francia 1870-71, Roma 1897) che, su un piano più generale, attribuiva alla continuità tra Impero e Repubblica e dunque al mancato ricambio della burocrazia francese le molte incertezze, gli ostracismi e le difficoltà incontrate dai garibaldini nel corso della spedizione. Quanto alla conquista della bandiera prussiana, il G. ne attribuiva il merito a un soldato francese, ma la sua tesi non avrebbe chiuso la questione, che si sarebbe riaperta nel luglio-agosto 1907 con una serie di interventi sulla Tribuna e con due lettere dello stesso G. in polemica col cognato S. Canzio. Anche sul piano politico il suo peso era cresciuto. Alla firma dell'armistizio francoprussiano e mentre il Municipio di Lione lo nominava generale comandante della guardia nazionale cittadina, il padre lo incaricava di portarsi a Parigi per osservare da vicino gli sviluppi della Comune, raccomandandogli altresì di tenersi in disparte in caso di guerra civile. In ragione di ciò gli venne accreditata qualche simpatia per l'Internazionale, confermata più tardi da una visita in casa di K. Marx a Londra e da un brindisi in suo onore pronunziato dal G. al termine di una manifestazione tenutasi a Roma il 10 sett. 1871; ma più che sullo sfondo di una penetrazione dell'Internazionale in Italia tutto ciò va visto nel contesto del clima di rottura con i mazziniani originato dalle polemiche sul dopo-Mentana. La rottura, peraltro, si prestava alle strumentalizzazioni, tanto che F. Engels, nel parlare del G. a un amico tedesco e nel definirlo "un giovanotto assai intelligente, molto tranquillo, ma un soldato più che un pensatore" (e come tale dotato più di "buona volontà" che di "chiarezza"), giudicava "di un valore infinito" le sue recenti prese di posizione pubbliche contro i mazziniani (Rosselli, p. 323). Probabilmente, la chiave classista è anche quella con cui va interpretata la società dei Franchi cafoni, creata dal G. nel 1872 e presto sciolta, perché ritenuta pericolosa, dalla questura romana. Invero le sue azioni non erano prive di ambiguità e spesso erano contraddistinte da una larvata commistione tra interessi politici e personali. Il padre, che si era reso conto di come egli possedesse "molto genio, nessuna volontà di lavorare" (lettera ad A. Depretis del 24 apr. 1869; v. Roma, Arch. centr. dello Stato, Carte Depretis, b. 4), dovette presto abituarsi alla disinvoltura con cui egli cercava di sfruttare il proprio cognome o ipotecava la metà dell'isola di Caprera a lui destinata; e forse fu per questi comportamenti e per altri screzi di tipo familiare (non aveva mai avuto simpatia per Francesca Armosino, che il padre avrebbe sposato nel 1880 ma che già gli aveva dato tre figli) che il G. decise di lasciare l'Italia e, dopo il matrimonio con l'inglese Constance Hopcraft (1874), si trasferì in Australia, dove rimase sette anni adattandosi a vari mestieri e dove nel 1879, a Melbourne, gli nacque Giuseppe ("Peppino"), primo dei suoi dieci figli. In Italia tornò nel 1881, ma qualcosa delle antiche ruggini era rimasta, e all'indomani del 2 giugno 1882 la stampa non mancò di sottolineare che, diversamente dal fratello Menotti, egli non era stato vicino al padre morente. Fu però il più pronto, malgrado la mancanza di linearità, a rivendicarne l'eredità morale o, quanto meno, a servirsi del nome che portava per farsi strada nel mondo romano degli affari e delle speculazioni, soprattutto edilizie, senza peraltro rinunziare a una chiassosa presenza nelle associazioni politiche cittadine e anzi ostentando atteggiamenti sovente intrisi di demagogia e comunque assai ostili alle altre formazioni democratiche. Significativo - in questi anni tra il 1882 e il 1883 in cui si pose alla testa dei "programmi di trasformazione edilizia" della capitale (Cafagna, p. 732) -, è il vincolo che lo legò a un avventuriero privo di scrupoli come F. Coccapieller, di cui finanziò due giornali, l'Eco dell'operaio e l'EzioII, pensati essenzialmente per attaccare la democrazia romana, diffamarne i maggiori esponenti e aprire la strada a una propria candidatura al Parlamento. In un dilagare di calunnie e insinuazioni e con i giornali avversari che lo accusavano esplicitamente di essere un truffatore (tanto che il fratello cercò invano di convincerlo a cambiare aria), si giunse finalmente alle elezioni dell'ottobre 1882 e alle suppletive del giugno e luglio 1883: furono tre cocenti delusioni da cui il G. poté riprendersi solo nel maggio del 1887, quando il collegio di Roma I lo elesse deputato con 4000 preferenze. Negli stessi giorni cominciavano a venire al pettine i nodi della sua disastrosa situazione finanziaria: in pochi mesi fu tutto un succedersi di sequestri, pignoramenti, ingiunzioni di pagamento, il tutto culminato nel fallimento dei Cantieri Garibaldi, una delle sue tante speculazioni in quel settore edile che come deputato aveva cercato di sostenere in Parlamento. Nel luglio del 1890 il G. si dimise irrevocabilmente; nel 1893 lo raggiunse la "deplorazione" della commissione d'inchiesta sullo scandalo della Banca romana. Quasi avesse avvertito la necessità di defilarsi, il G. si ritirò con la famiglia a Riofreddo (presso Roma), in una casa comprata - scriverà una sua discendente - "perché questa era l'ultima, in ordine di tempo, delle forme che il Governo gli aveva imposto come decoroso confino dopo una serie di disavventure finanziarie" (Annita Garibaldi, p. 24). Se confino effettivamente fu, per uscirne, per dimostrare che era sempre un Garibaldi, si ricollegò al proprio passato - si fregiava ormai del grado di generale -, riscoprì la camicia rossa, simbolo glorioso dell'aiuto da prestare ai popoli oppressi, e nell'aprile del 1897, previo accordo col governo d'Atene, salpò per la Grecia dove raccolse qualche migliaio di volontari armati, italiani e stranieri, che guidò allo scontro con i Turchi: uno scontro non fortunato, quello di Domokos, che costò la vita ad alcuni garibaldini e non modificò le sorti sfavorevoli della guerra. Il racconto che il G. avrebbe poi fatto di questa impresa nel libro La camicia rossa nella guerra greco-turca (1897)
(Roma 1897), sarebbe stato ristampato nel 1937 a cura della Federazione nazionale volontari garibaldini. Nel suo ormai evidente sforzo di ricalcare l'esperienza paterna il G. non poteva trascurare il Sudamerica, dove lo portò nel luglio 1899 non un evento bellico ma l'idea di avviare, d'intesa con il principe B. Odescalchi e con alcuni ambienti cattolici romani, un esperimento di colonizzazione in Patagonia che, prevedendo in cambio della fondazione di colonie "militari" la concessione da parte del governo argentino di un'area vastissima (85 milioni di ettari), se attuato si sarebbe risolto in un investimento assai lucroso, presentato peraltro come strumento per difendere il territorio argentino al confine con il Cile, combattere l'emigrazione selvaggia e razionalizzare lo sfruttamento delle risorse. Per quanto avesse ricevuto l'appoggio di un ex presidente dell'Argentina, il disegno, illustrato dalla stesso G. in una pubblicazione intitolata.
Progetto di colonizzazione della Patagonia presentato all'eccellentissimo governo della Repubblica argentina… (Roma 1899), contenente anche la bozza del contratto di concessione, non andò in porto.
Fedele all'immagine di continuatore della tradizione garibaldina e quasi venerato da chi la considerava ancora operante, il G. guardava sempre allo scacchiere balcanico, dove lo scorcio finale della dominazione turca e le varie lotte nazionali parevano giustificare la sopravvivenza del volontariato militare. Con questo profilo di liberatore, offerto ancora all'opinione pubblica nel 1902 quando, come presidente del Consiglio albanese d'Italia, si disse disponibile a un intervento nell'Albania in lotta con i Turchi, recuperava il prestigio compromesso da talune uscite estemporanee (quale quella che nel 1889 gli faceva auspicare un accordo tra repubblicani e cattolici avente come obiettivo la creazione di una repubblica federale) e guastato dalle liti familiari che, soprattutto dopo la morte dei fratelli Menotti e Teresita, lo avevano messo in rotta totale per questioni ereditarie con i figli che il padre aveva avuto dalla Armosino e che egli si ostinava a non riconoscere come legittimi discendenti.Ma il ruolo di unico depositario degli ideali paterni gli si addiceva sempre meno, anzitutto perché in molti di coloro che gli chiedevano di arruolarsi ai suoi ordini la passione libertaria del garibaldinismo delle origini era stata sostituita da uno spirito mercenario non dissimile da quello di una legione straniera, e poi perché lui stesso era venuto innestando sulla causa della autodeterminazione dei popoli oppressi contenuti di stampo nazionalistico, quali l'opportunità di estendere l'influenza italiana alle aree sottratte alle potenze turca e austro-ungarica, il che, unitamente alle sue periodiche professioni di fede repubblicana, avrebbe finito per suscitare qualche comprensibile imbarazzo nei governanti italiani: lo si vide non tanto nell'ultima sua campagna (quella del 1912 in Grecia, quando su richiesta di quel governo e d'accordo con gli Inglesi organizzò una spedizione internazionale di 12.ooo volontari che si schierarono in Macedonia e il 14 dicembre affrontarono i Turchi a Drisko, senza però poter resistere alla successiva controffensiva), quanto nell'appoggio da lui dato all'impresa libica e, soprattutto, nella posizione interventista assunta al momento dello scoppio della prima guerra mondiale.
Già nel 1914 il G. avrebbe voluto che l'Italia, entrando in guerra, allentasse la morsa sulla Francia e sul Belgio invasi; in attesa che ciò si verificasse, spinse il figlio Peppino a raccogliere una legione che fu impiegata nelle Argonne dove altri due suoi figli, Bruno e Costante, persero la vita, rispettivamente il 26 dic. 1914 e il 5 genn. 1915. Questi gravissimi lutti ebbero l'effetto di legittimare ulteriormente il G., che intraprese un viaggio nelle capitali europee durante il quale incontrò alcuni tra i maggiori statisti del tempo (tra gli altri i francesi R. Poincaré e A. Millerand e gli inglesi E. Grey e D. Lloyd George), prospettando loro la possibilità di formare un corpo di 30.000 volontari ma parlando anche di una nuova sistemazione nel Mediterraneo assai vantaggiosa per l'Italia. Non se ne fece nulla, e anche i passi successivi (ipotesi di formazione di una legione garibaldina, progetto di una spedizione nei Balcani) furono lasciati cadere, la prima per l'ostilità dello stato maggiore, il secondo per il veto di S. Sonnino. Ormai impossibilitato dall'età avanzata a combattere, all'entrata in guerra dell'Italia il G. fu uno degli animatori del fronte interno, cui offriva la memoria di una tradizione di patriottismo che si perpetuava attraverso la sua famiglia (il figlio Peppino si comportò valorosamente sul Col di Lana). Poi, nell'immediato dopoguerra, appoggiò l'impresa dannunziana e si candidò per sostenere coi suoi volontari l'estensione al Montenegro delle mire espansionistiche dei legionari fiumani: stavolta fu il presidente F.S. Nitti a bloccarlo. In precedenza aveva provocato molte reazioni negative un suo intervento a un comizio romano (marzo 1918) con cui aveva chiesto la convocazione di una Costituente per rinnovare su basi repubblicane il paese. Gli ultimi anni del G. trascorsero tra la residenza di Riofreddo e il luogo di culto di Caprera, dove il 2 giugno 1923 accolse B. Mussolini - che quand'era socialista aveva visto in lui una caricatura del garibaldinismo - con un discorso che affermava "la storica connessione fra le camicie rosse e le camicie nere" (ma va anche ricordato il consiglio da lui dato allo stesso Mussolini di restituire il Dodecaneso alla Grecia).
Il G. morì a Riofreddo il 17 luglio 1924 e, dopo solenni funerali di Stato che videro una larga partecipazione di folla, fu sepolto nel cimitero romano del Verano.
sabato 30 aprile 2011
giovedì 28 aprile 2011
Pensiero politico e strategia di Giuseppe Garibaldi
Il piano studiato da Garibaldi prevedeva che un gruppo di marinai al comando di Bixio, si impossessassero delle navi dei Rubattino nel porto di Genova e andasse a prendere i volontari alla foce del Bisagno e sugli scogli di Quarto. I marinai si erano riuniti su una nave abbandonata, il "Giuseppe", in attesa di Bixio. Appena questi arrivò a mezzanotte, tutti insieme remarono fino a dove erano attraccate le navi dei Rubattino. Le ciurme delle navi, quando sentirono che le navi erano destinate a Garibaldi, non opposero resistenza.
Per tutta la notte i mille venivano fuori soli o a gruppi da Porta Pila, la porta orientale di Genova. Alcuni si diressero verso la foce, ma la massa camminò fino a Quarto. Verso le dieci di sera, Garibaldi uscì da Villa Spinola vestito coi suoi pantaloni grigi da marinaio, la camicia rossa, il fazzoletto colorato attorno al collo,il feltro in testa e il poncho argentino sulle spalle. Poco dopo raggiunse la sua barca e si allontanò verso il largo per attendere i piroscafi di Genova.
All'alba si avvistarono le navi dei Ribattino e la spedizione s'imbarcò.
Prima che doppiassero il promontorio di Portofino, avvenne quello che poteva rappresentare un disastroso contrattempo: era stato predisposto che le navi con a bordo le munizioni precedessero le navi che portavano Garibaldi e gli altri, e che fossero fatte salire a bordo all'altezza di Bogliasco; Bixio aveva affidato l'operazione del trasporto delle armi a dei patrioti che dovevano seguire la luce della lanterna di una barca di marinai. Questi marinai neanche dopo mezz'ora spensero la lanterna e scomparvero ne buio della notte. I patrioti non sapendo cosa fare, decisero di remare fino a Genova sperando di incontrare la flotta di Garibaldi.
Garibaldi aveva atteso a bordo del "Piemonte" al largo di Bogliasco le barche col carico di munizioni, poi diede l'ordine di andare avanti sperando che fosse stato il "Lombardo"; che lo precedeva; ad aver preso a bordo le munizioni. Garibaldi scoperse che partiva alla conquista della Sicilia senza munizioni solo quando si fermò a Camogli per far olio. Ma ebbe il presentimento che conveniva proseguire. Ed ebbe ragione perché a Talamone in Toscana il governatore della fortezza gli diede tutte le munizioni di cui aveva bisogno.
Per tutta la notte i mille venivano fuori soli o a gruppi da Porta Pila, la porta orientale di Genova. Alcuni si diressero verso la foce, ma la massa camminò fino a Quarto. Verso le dieci di sera, Garibaldi uscì da Villa Spinola vestito coi suoi pantaloni grigi da marinaio, la camicia rossa, il fazzoletto colorato attorno al collo,il feltro in testa e il poncho argentino sulle spalle. Poco dopo raggiunse la sua barca e si allontanò verso il largo per attendere i piroscafi di Genova.
All'alba si avvistarono le navi dei Ribattino e la spedizione s'imbarcò.
Prima che doppiassero il promontorio di Portofino, avvenne quello che poteva rappresentare un disastroso contrattempo: era stato predisposto che le navi con a bordo le munizioni precedessero le navi che portavano Garibaldi e gli altri, e che fossero fatte salire a bordo all'altezza di Bogliasco; Bixio aveva affidato l'operazione del trasporto delle armi a dei patrioti che dovevano seguire la luce della lanterna di una barca di marinai. Questi marinai neanche dopo mezz'ora spensero la lanterna e scomparvero ne buio della notte. I patrioti non sapendo cosa fare, decisero di remare fino a Genova sperando di incontrare la flotta di Garibaldi.
Garibaldi aveva atteso a bordo del "Piemonte" al largo di Bogliasco le barche col carico di munizioni, poi diede l'ordine di andare avanti sperando che fosse stato il "Lombardo"; che lo precedeva; ad aver preso a bordo le munizioni. Garibaldi scoperse che partiva alla conquista della Sicilia senza munizioni solo quando si fermò a Camogli per far olio. Ma ebbe il presentimento che conveniva proseguire. Ed ebbe ragione perché a Talamone in Toscana il governatore della fortezza gli diede tutte le munizioni di cui aveva bisogno.
martedì 26 aprile 2011
Giuseppe Garibaldi e la Calabria
Garibaldi e la Calabria nell'Unità d'Italia
Quando l’eroe dei due mondi Giuseppe Garibaldi nell’alba del 19 agosto del 1860 sbarcò sulla spiaggia di Melito Porto Salvo e raggiunse trionfante la città di Reggio, trovò moltissimi calabresi (patrioti illuminati dalla luce massonica ma anche semplici cittadini) pronti a battersi al suo fianco per uno Stato unitario, libero e indipendente. Un cospicuo gruppo di liberi muratori, già da mesi, aveva infatti deciso di appoggiare l’impresa garibaldina, grazie anche al ruolo determinante svolto dalla Massoneria reggina che a quei tempi si riconosceva nell’Obbedienza del Grande Oriente di Palermo, del quale Garibaldi era il Gran Maestro. Anche in Calabria, pertanto, l'apporto del pensiero massonico nella causa dell'Unità d'Italia si rivelò piuttosto notevole. Su questo importante aspetto risorgimentale, tuttavia, i testi scolastici, stranamente a tutt'oggi, riportano a malapena qualche tiepido accenno, senza tener conto che ciò avrebbe richiesto un doveroso atto di onestà storica e che non giova a nessuno presentare ai posteri il Risorgimento in maniera distorta, rispetto a quello che realmente fu.
Giuseppe Garibaldi, come del resto Cavour e lo stesso Giuseppe Mazzini, furono (notoriamente) delle colonne portanti della Massoneria italiana. «Garibaldi, per di più, fu Gran Maestro della nostra Istituzione», sostiene oggi con orgoglio l’avvocato Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. «Fu un massone che seppe coniugare i princìpi con l’azione, un grande promotore di libertà, un grande educatore, un uomo coerente, mai disposto a transigere sui valori. E per noi tutti è un grande onore averlo annoverato nella gran maestranza del Grande Oriente di Palazzo Giustiniani».
Non è un caso, dunque, se nell’iconografia risorgimentale, oggi, spiccano a grandi lettere molti calabresi del libero pensiero (ideatori dell’insurrezione antiborbonica) che seguirono Garibaldi nella marcia vittoriosa per la conquista del Regno di Napoli. Tra i più importanti protagonisti delle gesta garibaldine troviamo Benedetto Musolino, di Pizzo, patriota, politico e massone, che Garibaldi arruolò col grado di colonnello; Francesco Sprovieri, di Acri, giurista e politico, che fu al comando della terza Compagnia delle giubbe garibaldine; Giovanni Nicotera, di Sambiase, che già faceva parte della «Giovine Italia» di Mazzini; Francesco Stocco, di Decollatura - anche lui molto vicino agli ambienti mazziniani - che organizzò il Corpo volontario dei «Cacciatori della Sila», raggiungendo il grado di maggior generale.
Tanti altri patrioti (come ad esempio: Raffaele Mauro, di San Demetrio Corone; Luigi Minnicelli, di Rossano; Stanislao Lamenza, di Saracena) non sono mai assurti, purtroppo, alla gloria della storia.
Seguiti da tutti questi grandi uomini e da tantissimi altri volontari in camicia rossa, i «Mille» di Garibaldi quindi risalirono a tappe il territorio calabrese, superando ogni ostacolo, nella marcia verso Napoli per incontrare il re Vittorio Emanuele II. Raggiunta Soveria Mannelli - nel Catanzarese - riuscirono a disarmare dodicimila soldati borbonici. Anche da quelle parti, non mancano a tutt’oggi i cimeli che testimoniano il suo passaggio. Peraltro, una famiglia di San Pietro Apostolo, che ebbe l’onore di ospitare l’eroico generale in occasione di una sua breve sosta, conserva ancora la tazzina da lui usata per bere un caffè.
Molto forte e sentito fu anche il contributo offerto all’Unità d’Italia dalla comunità arbëreshe cosentina. Al suo passaggio da Lungro, Garibaldi trovò cinquecento volontari (calabresi di origini albanesi) che orgogliosamente si unirono alle sue truppe.
Due anni dopo, il 1862 - mentre al Regno d’Italia, già formato, mancavano ancora Roma e Venezia - al grido di «Roma o morte», Garibaldi approdò nuovamente in Calabria, con l’intenzione di intraprendere il suo cammino verso la città eterna e far breccia sullo Stato Pontificio. Questa volta, però, appena giunto in Aspromonte, trovò ad attenderlo il fuoco nemico. Un reparto di bersaglieri, comandato dal generale Cialdini, gli tese un’imboscata, sparando sulle giubbe rosse che, sebbene accerchiate, riuscirono ad abbozzare una valorosa resistenza. Garibaldi rimase ferito (non «a una gamba», come recita il testo di una famosa canzonetta dell’epoca) ma al tallone sinistro. Si narra che, durante il soccorso, fu trovato accasciato ai piedi di un pino, intento a fumarsi tranquillamente un sigaro.
Quando l’eroe dei due mondi Giuseppe Garibaldi nell’alba del 19 agosto del 1860 sbarcò sulla spiaggia di Melito Porto Salvo e raggiunse trionfante la città di Reggio, trovò moltissimi calabresi (patrioti illuminati dalla luce massonica ma anche semplici cittadini) pronti a battersi al suo fianco per uno Stato unitario, libero e indipendente. Un cospicuo gruppo di liberi muratori, già da mesi, aveva infatti deciso di appoggiare l’impresa garibaldina, grazie anche al ruolo determinante svolto dalla Massoneria reggina che a quei tempi si riconosceva nell’Obbedienza del Grande Oriente di Palermo, del quale Garibaldi era il Gran Maestro. Anche in Calabria, pertanto, l'apporto del pensiero massonico nella causa dell'Unità d'Italia si rivelò piuttosto notevole. Su questo importante aspetto risorgimentale, tuttavia, i testi scolastici, stranamente a tutt'oggi, riportano a malapena qualche tiepido accenno, senza tener conto che ciò avrebbe richiesto un doveroso atto di onestà storica e che non giova a nessuno presentare ai posteri il Risorgimento in maniera distorta, rispetto a quello che realmente fu.
Giuseppe Garibaldi, come del resto Cavour e lo stesso Giuseppe Mazzini, furono (notoriamente) delle colonne portanti della Massoneria italiana. «Garibaldi, per di più, fu Gran Maestro della nostra Istituzione», sostiene oggi con orgoglio l’avvocato Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. «Fu un massone che seppe coniugare i princìpi con l’azione, un grande promotore di libertà, un grande educatore, un uomo coerente, mai disposto a transigere sui valori. E per noi tutti è un grande onore averlo annoverato nella gran maestranza del Grande Oriente di Palazzo Giustiniani».
Non è un caso, dunque, se nell’iconografia risorgimentale, oggi, spiccano a grandi lettere molti calabresi del libero pensiero (ideatori dell’insurrezione antiborbonica) che seguirono Garibaldi nella marcia vittoriosa per la conquista del Regno di Napoli. Tra i più importanti protagonisti delle gesta garibaldine troviamo Benedetto Musolino, di Pizzo, patriota, politico e massone, che Garibaldi arruolò col grado di colonnello; Francesco Sprovieri, di Acri, giurista e politico, che fu al comando della terza Compagnia delle giubbe garibaldine; Giovanni Nicotera, di Sambiase, che già faceva parte della «Giovine Italia» di Mazzini; Francesco Stocco, di Decollatura - anche lui molto vicino agli ambienti mazziniani - che organizzò il Corpo volontario dei «Cacciatori della Sila», raggiungendo il grado di maggior generale.
Tanti altri patrioti (come ad esempio: Raffaele Mauro, di San Demetrio Corone; Luigi Minnicelli, di Rossano; Stanislao Lamenza, di Saracena) non sono mai assurti, purtroppo, alla gloria della storia.
Seguiti da tutti questi grandi uomini e da tantissimi altri volontari in camicia rossa, i «Mille» di Garibaldi quindi risalirono a tappe il territorio calabrese, superando ogni ostacolo, nella marcia verso Napoli per incontrare il re Vittorio Emanuele II. Raggiunta Soveria Mannelli - nel Catanzarese - riuscirono a disarmare dodicimila soldati borbonici. Anche da quelle parti, non mancano a tutt’oggi i cimeli che testimoniano il suo passaggio. Peraltro, una famiglia di San Pietro Apostolo, che ebbe l’onore di ospitare l’eroico generale in occasione di una sua breve sosta, conserva ancora la tazzina da lui usata per bere un caffè.
Molto forte e sentito fu anche il contributo offerto all’Unità d’Italia dalla comunità arbëreshe cosentina. Al suo passaggio da Lungro, Garibaldi trovò cinquecento volontari (calabresi di origini albanesi) che orgogliosamente si unirono alle sue truppe.
Due anni dopo, il 1862 - mentre al Regno d’Italia, già formato, mancavano ancora Roma e Venezia - al grido di «Roma o morte», Garibaldi approdò nuovamente in Calabria, con l’intenzione di intraprendere il suo cammino verso la città eterna e far breccia sullo Stato Pontificio. Questa volta, però, appena giunto in Aspromonte, trovò ad attenderlo il fuoco nemico. Un reparto di bersaglieri, comandato dal generale Cialdini, gli tese un’imboscata, sparando sulle giubbe rosse che, sebbene accerchiate, riuscirono ad abbozzare una valorosa resistenza. Garibaldi rimase ferito (non «a una gamba», come recita il testo di una famosa canzonetta dell’epoca) ma al tallone sinistro. Si narra che, durante il soccorso, fu trovato accasciato ai piedi di un pino, intento a fumarsi tranquillamente un sigaro.
giovedì 21 aprile 2011
L'Unità d'Italia
Il 5 maggio 1860, guidati da Giuseppe Garibaldi, figura leggendaria di rivoluzionario e di combattente, soprannominato “L’eroe dei Due mondi” per aver partecipato a lotte di liberazione anche in Sudamerica, partirono da Genova-Quarto circa 1150 volontari, alla volta della Sicilia. Dopo avere fatto una breve sosta in Toscana, i Mille sbarcarono a Marsala e in due mesi conquistarono la Sicilia. Successivamente, passati nel Continente, Garibaldi e i Mille conquistarono Napoli.
Nello storico incontro di Teano, del 26 ottobre del 1860, le regioni meridionali, il cosiddetto Regno delle Due Sicilie, in precedenza sotto il dominio dei Borboni, vennero consegnate da Garibaldi a Vittorio Emanuele II, della dinastia dei Savoia, che reggeva il Piemonte, le cui truppe avevano intanto invaso lo Stato Pontificio.
L’avanzata dei Mille non fu priva di ostacoli e contraddizioni. Contrariamente a quanto dicono certi racconti agiografici ed edulcorati, Garibaldi e i suoi seguaci, nella loro vittoriosa avanzata, incontrarono spesso, tra le popolazioni locali, la resistenza se non l’aperta ostilità dei contadini, e si verificarono talvolta incresciosi incidenti e disordini, come è documentato, ad esempio, nel celebre racconto Libertà (Novelle rusticane) di Giovanni Verga, trasposto con efficacia al cinema dal regista Florestano Vancini, nel film dal titolo Bronte.
Realizzata da Garibaldi, la spedizione dei Mille era stata progettata da Francesco Crispi e Rosolino Pilo. Grazie alla spedizione dei Mille e all’impresa militare di Garibaldi ha luogo la storica unità d’Italia. A dire il vero l’idea dell’Italia come unità geografica è antecedente all’Ottocento e si profila in letteratura già negli scritti di Dante, Petrarca, Boccaccio e Machiavelli.
Al processo di unificazione nazionale, oltre al coraggio e l’intraprendenza del generale Garibaldi, contribuirono in maniera determinante le predicazioni e le idee di Mazzini e l’abile tessitura diplomatica di Cavour. Oltre a una serie di contingenze internazionali favorevoli. Con l’unità d’Italia si portarono a compimento gli ideali del Risorgimento.
L’unificazione italiana fu comunque opera di un’elite e non la realizzazione di una rivoluzione di massa. “Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, la celebre frase attribuita a Massimo d’Azeglio sintetizza bene i problemi che si accompagnarono all’avvenuta unificazione.
Come, per esempio, i forti squilibri tra città e campagna e tra Nord e Sud.
E anche oggi, che si celebra il centocinquantesimo anniversario dell’unità, non mancano discussioni e polemiche.
I partiti politici che governano attualmente lo Stato italiano sembrano in larga parte estranei alla cultura risorgimentale. Possiamo oggi rilevare ciò che già lo storico Rosario Romeo sottolineò nel 1961, ossia che si percepisce “sotto la cornice grandiosa delle manifestazioni ufficiali, un certo senso di distacco non solo delle masse ma anche delle classi colte e dirigenti”. Idee antirisorgimentali circolano attualmente anche nel mondo cattolico, ancora ferito dall’aggressione allo Stato Pontificio e nell’opinione pubblica meridionale, che recrimina sul “saccheggio del Sud”.
Una attuale forza politica di peso, come la Lega, inoltre, accarezza l’idea del federalismo se non addirittura della secessione, mentre molti avvenimenti della vita politica e civile della nazione segnalano l’incompiutezza del processo di unità. Ed è proprio e soprattutto all’interno della società italiana, nei modi in cui si svolge la vita sociale e civile quotidiana, che si avvertono i segnali più inquietanti dell’incompiutezza dell’unità italiana. Sono quelli che ha indicato il filosofo Massimo Cacciari in un suo recente articolo pubblicato sulla stampa nazionale.
Gli italiani sono cinici, disincantati, egoisti, individualisti, poco rispettosi delle leggi e delle regole, sempre pronti alle dispute violente, privi di una classe dirigente degna di tale nome. Incapaci, anche oggi, di perseguire il bene comune, l’onore e la virtù. Gli abitanti dello Stivale, - afferma Cacciari, parafrasando il Leopardi del Saggio sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, "non sanno essere un popolo, ma soltanto un aggregato di individui”.Un’effettiva unità nazionale potrà nascere, dunque, al di là degli eroismi del Risorgimento, soltanto da una maturazione civile ed etica di tutti i cittadini italiani.
Nello storico incontro di Teano, del 26 ottobre del 1860, le regioni meridionali, il cosiddetto Regno delle Due Sicilie, in precedenza sotto il dominio dei Borboni, vennero consegnate da Garibaldi a Vittorio Emanuele II, della dinastia dei Savoia, che reggeva il Piemonte, le cui truppe avevano intanto invaso lo Stato Pontificio.
L’avanzata dei Mille non fu priva di ostacoli e contraddizioni. Contrariamente a quanto dicono certi racconti agiografici ed edulcorati, Garibaldi e i suoi seguaci, nella loro vittoriosa avanzata, incontrarono spesso, tra le popolazioni locali, la resistenza se non l’aperta ostilità dei contadini, e si verificarono talvolta incresciosi incidenti e disordini, come è documentato, ad esempio, nel celebre racconto Libertà (Novelle rusticane) di Giovanni Verga, trasposto con efficacia al cinema dal regista Florestano Vancini, nel film dal titolo Bronte.
Realizzata da Garibaldi, la spedizione dei Mille era stata progettata da Francesco Crispi e Rosolino Pilo. Grazie alla spedizione dei Mille e all’impresa militare di Garibaldi ha luogo la storica unità d’Italia. A dire il vero l’idea dell’Italia come unità geografica è antecedente all’Ottocento e si profila in letteratura già negli scritti di Dante, Petrarca, Boccaccio e Machiavelli.
Al processo di unificazione nazionale, oltre al coraggio e l’intraprendenza del generale Garibaldi, contribuirono in maniera determinante le predicazioni e le idee di Mazzini e l’abile tessitura diplomatica di Cavour. Oltre a una serie di contingenze internazionali favorevoli. Con l’unità d’Italia si portarono a compimento gli ideali del Risorgimento.
L’unificazione italiana fu comunque opera di un’elite e non la realizzazione di una rivoluzione di massa. “Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, la celebre frase attribuita a Massimo d’Azeglio sintetizza bene i problemi che si accompagnarono all’avvenuta unificazione.
Come, per esempio, i forti squilibri tra città e campagna e tra Nord e Sud.
E anche oggi, che si celebra il centocinquantesimo anniversario dell’unità, non mancano discussioni e polemiche.
I partiti politici che governano attualmente lo Stato italiano sembrano in larga parte estranei alla cultura risorgimentale. Possiamo oggi rilevare ciò che già lo storico Rosario Romeo sottolineò nel 1961, ossia che si percepisce “sotto la cornice grandiosa delle manifestazioni ufficiali, un certo senso di distacco non solo delle masse ma anche delle classi colte e dirigenti”. Idee antirisorgimentali circolano attualmente anche nel mondo cattolico, ancora ferito dall’aggressione allo Stato Pontificio e nell’opinione pubblica meridionale, che recrimina sul “saccheggio del Sud”.
Una attuale forza politica di peso, come la Lega, inoltre, accarezza l’idea del federalismo se non addirittura della secessione, mentre molti avvenimenti della vita politica e civile della nazione segnalano l’incompiutezza del processo di unità. Ed è proprio e soprattutto all’interno della società italiana, nei modi in cui si svolge la vita sociale e civile quotidiana, che si avvertono i segnali più inquietanti dell’incompiutezza dell’unità italiana. Sono quelli che ha indicato il filosofo Massimo Cacciari in un suo recente articolo pubblicato sulla stampa nazionale.
Gli italiani sono cinici, disincantati, egoisti, individualisti, poco rispettosi delle leggi e delle regole, sempre pronti alle dispute violente, privi di una classe dirigente degna di tale nome. Incapaci, anche oggi, di perseguire il bene comune, l’onore e la virtù. Gli abitanti dello Stivale, - afferma Cacciari, parafrasando il Leopardi del Saggio sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, "non sanno essere un popolo, ma soltanto un aggregato di individui”.Un’effettiva unità nazionale potrà nascere, dunque, al di là degli eroismi del Risorgimento, soltanto da una maturazione civile ed etica di tutti i cittadini italiani.
Giuseppe Garibaldi nell'immaginario popolare
È stato un generale un valoroso condottiero e patriota italiano. Giuseppe Garibaldi è cosiderato da tutti una delle figure fondamentali del Risorgimento italiano, nell'immaginario collettivo degli italiani è considerato il personaggio storico più famoso e popolare. In Italia è noto anche con l'appellativo di Eroe dei due mondi, per le sue gesta militari compiute sia in Sud America che in Europa.
In Italia non vi è città o località che non abbia dedicato a Giuseppe Garibaldi una via, una piazza, una lapide, un monumento, una scuola o teatro.
Sembra che non ci sia località che non possa fregiarsi del titolo di una sua visita o di una sua presenza anche fugace. Anche all’estero, la notorietà di Garibaldi è grande, attestata da monumenti, dalla toponomastica e dall’ampiezza di una leggenda pressoché universale che lo considera “Eroe dei due mondi”, invincibile combattente nell’America del Sud e in Italia, vincitore sui campi di battaglia di Francia. Idolatrato dai democratici di tutto il mondo è stato il simbolo degli ideali di libertà e giustizia, di indipendenza dei popoli e di emancipazione delle masse popolari.
In Italia non vi è città o località che non abbia dedicato a Giuseppe Garibaldi una via, una piazza, una lapide, un monumento, una scuola o teatro.
Sembra che non ci sia località che non possa fregiarsi del titolo di una sua visita o di una sua presenza anche fugace. Anche all’estero, la notorietà di Garibaldi è grande, attestata da monumenti, dalla toponomastica e dall’ampiezza di una leggenda pressoché universale che lo considera “Eroe dei due mondi”, invincibile combattente nell’America del Sud e in Italia, vincitore sui campi di battaglia di Francia. Idolatrato dai democratici di tutto il mondo è stato il simbolo degli ideali di libertà e giustizia, di indipendenza dei popoli e di emancipazione delle masse popolari.
lunedì 18 aprile 2011
La spedizione dei Mille e L'Unità d'Italia
La spedizione dei Mille e l'unità d'Italia
In Italia nella primavera del 1860 la situazione politica era molto fluida e lo stesso Cavour cominciava a pensare alla possibilità di un’unificazione della penisola. Le difficoltà erano tuttavia ancora notevoli perché la Francia non avrebbe accettato un attacco piemontese contro lo Stato Pontificio e il Regno Borbonico, quest’ultimo difeso sul piano diplomatico anche dalla Russia; l’Austria, dal canto suo, avrebbe potuto approfittare di ogni passo falso per reinserirsi nel gioco politico italiano.
Ma il problema più grave consisteva nel fatto che l’armistizio di Villafranca e la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia avevano screditato la politica sabauda presso l’opinione italiana, per cui nella primavera del ’60 sembrava più facile una iniziativa democratico-repubblicana, che trovava il suo centro nel "partito d’azione" il quale aveva il vantaggio di poter agire al di fuori di ogni impedimento diplomatico e contava sull’enorme popolarità di Garibaldi.
Il "partito d'azione" non era un gruppo omogeneo di persone che avevano le stesse finalità e idealità politiche; era un organismo di agitazione e propaganda cui facevano capo sia i repubblicani mazziniani sia i democratici decisi all’azione come Pisacane e Garibaldi.
A dare l’avvio a una ripresa rivoluzionaria furono gli eventi siciliani quando, contro il giovane e inesperto sovrano Francesco II, nell’aprile del ’60 esplose l’ennesima rivolta a Palermo. Il partito d’azione convinse Garibaldi ad agire direttamente in Sicilia, anche perché Vittorio Emanuele, era disposto ad aiutare i volontari, contro il parere di Cavour il quale, come primo ministro, non poteva compromettersi specialmente agli occhi di Napoleone. Dal canto suo il Mazzini esortava tutti ad agire concordemente al fine di realizzare l’unità della penisola. Garibaldi ai primi di maggio del ’60 passava all’azione con i suoi Mille volontari.
Partiti da Genova, dopo una breve tappa nel porticciolo di Talamone, dove una piccola colonna lasciò Garibaldi per marciare direttamente su Roma, la spedizione raggiunse per mare la Sicilia occidentale e l’11 maggio sbarcò a Marsala. Garibaldi, assunta la dittatura in nome di Vittorio Emanuele, marciò verso l’interno con i suoi Mille, che rivestivano l’ormai leggendaria camicia rossa, rinforzati da "picciotti" cioè dai giovani contadini e braccianti che speravano in una riforma agraria che una volta per tutte eliminasse tanti soprusi ed ingiustizie. In seguito l’entusiasmo dei contadini che miravano a impossessarsi delle terre demaniali, promesse dallo stesso Garibaldi, fu deluso perché Garibaldi e i politici della sinistra garibaldina e mazziniana volevano il successo militare della spedizione. Tra la fine di giugno e di luglio il generale, per il successo della spedizione, cominciò a stringere rapporti con i grandi proprietari terrieri, i quali, perché non cambiasse niente per loro, erano disposti ad assumere atteggiamenti liberali e favorevoli a Casa Savoia. I contadini cominciarono a guardare con diffidenza alla politica di Garibaldi, soprattutto dopo che i garibaldini repressero i moti rurali, anche quando i contadini, in perfetta legalità, richiedevano la divisione dei terreni demaniali a suo tempo promessi dal "generale".
Battuti i borbonici nella difficile battaglia di Calatafimi, il 15 maggio Garibaldi occupava Palermo e nel luglio batteva ancora le truppe regie a Milazzo, mentre il sovrano di Napoli tentava disperatamente di fermarlo, concedendo una tardiva Costituzione e affidando il governo a Liborio Romano. Una speranza vana e una fiducia mal riposta: il Romano, d’accordo con Cavour cercò di provocare in Napoli un moto di moderati monarchici, allo scopo di precedere Garibaldi alla liberazione del napoletano. Intanto Garibaldi, superato lo stretto di Messina, risaliva liberamente la Calabria mentre l’esercito borbonico si disfaceva e il 7 settembre entrava in Napoli; Francesco II si rifugiava allora a Gaeta, protetta ancora da una parte del suo esercito, nonstante il "tradimento" di buona parte dell'ufficialità.
Praticamente l’Italia meridionale era libera, nonostante attorno a Gaeta si raccogliessero ancora forti contingenti di truppe borboniche e le piazzeforti di Civitella del Tronto e di Messina non si fossero arrese. Era il momento di prendere decisioni definitive, che avrebbero pesato sul destino di tutta la penisola.
Mazzini che aveva raggiunto Garibaldi a Napoli premeva perché si evitasse il solito plebiscito a favore della monarchia sabauda e insisteva sul progetto di una "Assemblea Costituente" che decidesse del nuovo assetto da dare all’Italia, anche se egli avvertiva chiaramente che ormai il principio monarchico aveva avuto partita vinta. Garibaldi dal canto suo, pensava di risalire con le truppe verso Nord per raggiungere Roma e di lì proclamare l’Unità d’Italia. Il Cavour, infine, si rendeva perfettamente conto della gravità della situazione; egli era consapevole che tra le file garibaldine i democratici ed i repubblicani erano molto forti e decisi a realizzare riforme sociali molto ardite, come l’assegnazione di terre ai combattenti meridionali e lo scorporo del latifondo anche a danno degli ordini religiosi. Temeva anche, a ragione, che l'invasione garibaldina del Lazio, oltre a suscitare in tutta la penisola un’ondata di entusiasmo democratico e anticlericale, avrebbe indotto l’imperatore francese a intervenire con le armi. Ancora una volta fu abilissimo a trasformare in vantaggio la propria debolezza: ancora una volta seppe agire abilmente su Napoleone. Prospettatogli lo spettro della formazione di una repubblica mazziniana e anticlericale nell’Italia centro meridionale, lo stesso imperatore sollecitò il Cavour a fare intervenire l’esercito regolare piemontese, che, al comando dei generali Fanti e Cialdini, penetrò nelle Marche e batté l’esercito papale, che tentava di sbarrargli il passaggio il 18 settembre 1860 a Castelfidardo. Nel frattempo, con la battaglia del Volturno, Garibaldi stroncava un estremo tentativo di riscossa dei borbonici, che erano costretti a rinchiudersi a Gaeta. L'incontro del 26 ottobre, a Teano, tra Garibaldi e Vittorio Emanuele poneva fine alla spedizione di Garibaldi e di fatto assicurava alla dinastia sabauda il Regno delle due Sicilie.
Le truppe garibaldine, non furono incorporate nell’esercito regolare, come era stato richiesto, e il re si rifiutò perfino di passarle in rivista. In conseguenza di questo atteggiamento, Garibaldi, deluso e sdegnato, si ritirò a Caprera.
Il 17 marzo il nuovo Parlamento italiano riunito a Torino poteva ratificare l’avvenuta unificazione, attribuendo a Vittorio Emanuele II il titolo di "re d’Italia"; il 26 marzo il Parlamento approvava un voto solenne che auspicava Roma capitale d’Italia. Il processo risorgimentale e unitario era praticamente compiuto, anche se il Lazio e le Venezie rimanevano escluse.
In Italia nella primavera del 1860 la situazione politica era molto fluida e lo stesso Cavour cominciava a pensare alla possibilità di un’unificazione della penisola. Le difficoltà erano tuttavia ancora notevoli perché la Francia non avrebbe accettato un attacco piemontese contro lo Stato Pontificio e il Regno Borbonico, quest’ultimo difeso sul piano diplomatico anche dalla Russia; l’Austria, dal canto suo, avrebbe potuto approfittare di ogni passo falso per reinserirsi nel gioco politico italiano.
Ma il problema più grave consisteva nel fatto che l’armistizio di Villafranca e la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia avevano screditato la politica sabauda presso l’opinione italiana, per cui nella primavera del ’60 sembrava più facile una iniziativa democratico-repubblicana, che trovava il suo centro nel "partito d’azione" il quale aveva il vantaggio di poter agire al di fuori di ogni impedimento diplomatico e contava sull’enorme popolarità di Garibaldi.
Il "partito d'azione" non era un gruppo omogeneo di persone che avevano le stesse finalità e idealità politiche; era un organismo di agitazione e propaganda cui facevano capo sia i repubblicani mazziniani sia i democratici decisi all’azione come Pisacane e Garibaldi.
A dare l’avvio a una ripresa rivoluzionaria furono gli eventi siciliani quando, contro il giovane e inesperto sovrano Francesco II, nell’aprile del ’60 esplose l’ennesima rivolta a Palermo. Il partito d’azione convinse Garibaldi ad agire direttamente in Sicilia, anche perché Vittorio Emanuele, era disposto ad aiutare i volontari, contro il parere di Cavour il quale, come primo ministro, non poteva compromettersi specialmente agli occhi di Napoleone. Dal canto suo il Mazzini esortava tutti ad agire concordemente al fine di realizzare l’unità della penisola. Garibaldi ai primi di maggio del ’60 passava all’azione con i suoi Mille volontari.
Partiti da Genova, dopo una breve tappa nel porticciolo di Talamone, dove una piccola colonna lasciò Garibaldi per marciare direttamente su Roma, la spedizione raggiunse per mare la Sicilia occidentale e l’11 maggio sbarcò a Marsala. Garibaldi, assunta la dittatura in nome di Vittorio Emanuele, marciò verso l’interno con i suoi Mille, che rivestivano l’ormai leggendaria camicia rossa, rinforzati da "picciotti" cioè dai giovani contadini e braccianti che speravano in una riforma agraria che una volta per tutte eliminasse tanti soprusi ed ingiustizie. In seguito l’entusiasmo dei contadini che miravano a impossessarsi delle terre demaniali, promesse dallo stesso Garibaldi, fu deluso perché Garibaldi e i politici della sinistra garibaldina e mazziniana volevano il successo militare della spedizione. Tra la fine di giugno e di luglio il generale, per il successo della spedizione, cominciò a stringere rapporti con i grandi proprietari terrieri, i quali, perché non cambiasse niente per loro, erano disposti ad assumere atteggiamenti liberali e favorevoli a Casa Savoia. I contadini cominciarono a guardare con diffidenza alla politica di Garibaldi, soprattutto dopo che i garibaldini repressero i moti rurali, anche quando i contadini, in perfetta legalità, richiedevano la divisione dei terreni demaniali a suo tempo promessi dal "generale".
Battuti i borbonici nella difficile battaglia di Calatafimi, il 15 maggio Garibaldi occupava Palermo e nel luglio batteva ancora le truppe regie a Milazzo, mentre il sovrano di Napoli tentava disperatamente di fermarlo, concedendo una tardiva Costituzione e affidando il governo a Liborio Romano. Una speranza vana e una fiducia mal riposta: il Romano, d’accordo con Cavour cercò di provocare in Napoli un moto di moderati monarchici, allo scopo di precedere Garibaldi alla liberazione del napoletano. Intanto Garibaldi, superato lo stretto di Messina, risaliva liberamente la Calabria mentre l’esercito borbonico si disfaceva e il 7 settembre entrava in Napoli; Francesco II si rifugiava allora a Gaeta, protetta ancora da una parte del suo esercito, nonstante il "tradimento" di buona parte dell'ufficialità.
Praticamente l’Italia meridionale era libera, nonostante attorno a Gaeta si raccogliessero ancora forti contingenti di truppe borboniche e le piazzeforti di Civitella del Tronto e di Messina non si fossero arrese. Era il momento di prendere decisioni definitive, che avrebbero pesato sul destino di tutta la penisola.
Mazzini che aveva raggiunto Garibaldi a Napoli premeva perché si evitasse il solito plebiscito a favore della monarchia sabauda e insisteva sul progetto di una "Assemblea Costituente" che decidesse del nuovo assetto da dare all’Italia, anche se egli avvertiva chiaramente che ormai il principio monarchico aveva avuto partita vinta. Garibaldi dal canto suo, pensava di risalire con le truppe verso Nord per raggiungere Roma e di lì proclamare l’Unità d’Italia. Il Cavour, infine, si rendeva perfettamente conto della gravità della situazione; egli era consapevole che tra le file garibaldine i democratici ed i repubblicani erano molto forti e decisi a realizzare riforme sociali molto ardite, come l’assegnazione di terre ai combattenti meridionali e lo scorporo del latifondo anche a danno degli ordini religiosi. Temeva anche, a ragione, che l'invasione garibaldina del Lazio, oltre a suscitare in tutta la penisola un’ondata di entusiasmo democratico e anticlericale, avrebbe indotto l’imperatore francese a intervenire con le armi. Ancora una volta fu abilissimo a trasformare in vantaggio la propria debolezza: ancora una volta seppe agire abilmente su Napoleone. Prospettatogli lo spettro della formazione di una repubblica mazziniana e anticlericale nell’Italia centro meridionale, lo stesso imperatore sollecitò il Cavour a fare intervenire l’esercito regolare piemontese, che, al comando dei generali Fanti e Cialdini, penetrò nelle Marche e batté l’esercito papale, che tentava di sbarrargli il passaggio il 18 settembre 1860 a Castelfidardo. Nel frattempo, con la battaglia del Volturno, Garibaldi stroncava un estremo tentativo di riscossa dei borbonici, che erano costretti a rinchiudersi a Gaeta. L'incontro del 26 ottobre, a Teano, tra Garibaldi e Vittorio Emanuele poneva fine alla spedizione di Garibaldi e di fatto assicurava alla dinastia sabauda il Regno delle due Sicilie.
Le truppe garibaldine, non furono incorporate nell’esercito regolare, come era stato richiesto, e il re si rifiutò perfino di passarle in rivista. In conseguenza di questo atteggiamento, Garibaldi, deluso e sdegnato, si ritirò a Caprera.
Il 17 marzo il nuovo Parlamento italiano riunito a Torino poteva ratificare l’avvenuta unificazione, attribuendo a Vittorio Emanuele II il titolo di "re d’Italia"; il 26 marzo il Parlamento approvava un voto solenne che auspicava Roma capitale d’Italia. Il processo risorgimentale e unitario era praticamente compiuto, anche se il Lazio e le Venezie rimanevano escluse.
venerdì 15 aprile 2011
Il Vittoriano,simbolo dell'Unità d'Italia
Il Vittoriano, da non confondere con il Vittoriale, altrimenti detto Altare della Patria, è il simbolo dell'Unità d'Italia.
Vittoriano, denominazione del monumento a Vittorio Emanuele II eretto a Roma, sul fianco del Campidoglio (1885-1911) su disegno di G. Sacconi per celebrare l'unità d'Italia. È costituito da una larga scalinata, che conduce al primo ripiano, dov'è situato l'Altare della Patria con la tomba del Milite Ignoto (la Statua di Roma al di sopra della tomba e i due altorilievi ai lati con i Cortei del lavoro e dell'amor patrio sono di A. Zanelli); sovrasta, al centro, la grande statua equestre, di bronzo dorato, di Vittorio Emanuele II, opera di E. Chiaradia; un ampio porticato, anch'esso ornato di statue e rilievi, corona il complesso, che, nonostante alcuni pregevoli particolari e una certa eleganza decorativa di influenza liberty (pur riassunta in una morfologia sostanzialmente legata al gusto di fine secolo) risulta discordante, per il colore bianco del marmo botticino impiegato nella costruzione e per le sue proporzioni, con gli edifici e monumenti circostanti e con la struttura urbana dell'area in cui è stato inserito con violenza. Per far luogo al monumento furono infatti abbattuti le torri di Paolo IV, il chiostro dell'Aracoeli, numerose case del Medioevo e del Rinascimento e fu spostato e ricostruito il palazzetto Venezia. Vi ha sede l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, con il Museo centrale del Risorgimento e il relativo archivio storico.
Vittoriano, denominazione del monumento a Vittorio Emanuele II eretto a Roma, sul fianco del Campidoglio (1885-1911) su disegno di G. Sacconi per celebrare l'unità d'Italia. È costituito da una larga scalinata, che conduce al primo ripiano, dov'è situato l'Altare della Patria con la tomba del Milite Ignoto (la Statua di Roma al di sopra della tomba e i due altorilievi ai lati con i Cortei del lavoro e dell'amor patrio sono di A. Zanelli); sovrasta, al centro, la grande statua equestre, di bronzo dorato, di Vittorio Emanuele II, opera di E. Chiaradia; un ampio porticato, anch'esso ornato di statue e rilievi, corona il complesso, che, nonostante alcuni pregevoli particolari e una certa eleganza decorativa di influenza liberty (pur riassunta in una morfologia sostanzialmente legata al gusto di fine secolo) risulta discordante, per il colore bianco del marmo botticino impiegato nella costruzione e per le sue proporzioni, con gli edifici e monumenti circostanti e con la struttura urbana dell'area in cui è stato inserito con violenza. Per far luogo al monumento furono infatti abbattuti le torri di Paolo IV, il chiostro dell'Aracoeli, numerose case del Medioevo e del Rinascimento e fu spostato e ricostruito il palazzetto Venezia. Vi ha sede l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, con il Museo centrale del Risorgimento e il relativo archivio storico.
mercoledì 13 aprile 2011
I Mille: dallo sbarco a Marsala all'incontro di Teano
All’alba dell’11 maggio i due vapori passano fra l’isola di Favignana e Marittimo. Grazie alle informazioni ricevute da un pescatore locale sull’assenza della marina borbonica che si era spostata a sud-est in direzione di Sciacca, virano verso il porto di Marsala. Qui le navi garibaldine approdano aiutate dalla presenza di navi inglesi che impediranno ai borbonici, giunti nel frattempo, di aprire il fuoco contro i garibaldini.
Tre giorni dopo, il 14 maggio, a Salemi Garibaldi incontra una popolazione entusiasta e dichiara di assumere la dittatura democratica della Sicilia in nome di re Vittorio Emanuele II. Nel frattempo il generale borbonico Francesco Landi lo aspetta appena fuori la città con 2800 uomini, 4 cannoni e reparti di cavalleria per fermare gli invasori. I Mille, affiancati dai “picciotti” hanno un primo scontro nella battaglia di Calatafimi il 15 maggio. In un primo momento sembrava che le forze garibaldine fossero destinate alla sconfitta, tanto che Nino Bixio suggerì a Garibaldi la ritirata. Il generale, pare, rispose con le celebri parole riportate da Giuseppe Cesare Abba: “Qui o si fa l’Italia o si muore”.
I morti sono numerosi da una parte e dall’altra ma le truppe borboniche si ritirano verso Calatafimi. Garibaldi dirà: «La vittoria di Calatafimi fu d’un risultato immenso per l’effetto morale, incoraggiando le popolazioni e demoralizzando l’esercito nemico».
La battaglia di Calatafimi
Da quel momento il destino dell’Italia è segnato. I garibaldini, aiutati anche dall’insurrezione popolare di Palermo, riescono a conquistare anche la città. Siamo al 30 maggio del 1860 e i volontari al seguito di Garibaldi riescono facilmente nell’impresa grazie al fatto che le truppe borboniche, attestate alle porte di Palermo, pensavano di essere in periodo di tregua.
Seguirono scontri cruenti, in cui furono feriti uomini valorosi come Benedetto Cairoli e Nino Bixio. Ma alla fine i garibaldini presero il comando della zona e rimasero lì, riorganizzandosi, per circa due mesi. Fu in questo momento che venne costituito l’embrione di quello che verrà chiamato l’esercito meridionale.
Il 20 luglio fu poi la volta della battaglia di Milazzo e poi della conquista di Messina. Possiamo dire che alla fine di luglio Garibaldi aveva campo libero verso il continente e iniziò, infatti, a preparare il passaggio verso la Calabria. I Borbone lo aspettavano a Reggio ad armi spiegate ma Garibaldi li prese in contropiede, facendo un tragitto più lungo e sbarcando a Melit Porto Salvo con al seguito circa ventimila volontari. Siamo al 19 agosto.L’esercito borbonico era ormai inerme e demotivato e per i garibaldini non fu difficile sconfiggerlo in pochi giorni. A inizio settembre i volontari iniziarono a risalire la penisola e il re Francesco II decise di abbandonare Napoli (capitale del regno delle due Sicilie) attestando l’esercito tra Gaeta e Capua. Il 7 settembre Garibaldi entrò quindi trionfante a Napoli, accolto come un liberatore.
Tutto il restante mese di settembre fu sfruttato dai garibaldini per sconfiggere anche quell’ultimo avamposto di esercito borbonico attestato nei pressi del fiume Volturno. La battaglia cruciale, chiamata appunto battaglia dei Volturno, avvenne alla fine di settembre. Garibaldi e i suoi volontari riuscirono a sconfiggere il battaglione borbonico composto da ben 50 mila soldati.
A questo punto ai garibaldini si andarono ad aggiungere anche gli uomini dei corpo di spedizione sardo, ridiscesi dall’Italia centrale dove avevano sconfitto l’esercito papalino nella battaglia di Castelfidardo, annettendo poi con dei “plebisciti” al Regno di Sardegna le Marche e l’Umbria.
Il 21 ottobre si tennero poi i primi “plebisciti” ovvero i referendum con cui la popolazione venne chiamata a decidere l’annessione del Regno delle due Sicilie in quello di Sardegna. La vittoria dell’annessione fu schiacciante.Dopo l’unificazione tra i due regni avvenne, il 26 ottobre 1860, lo storico incontro a Teano tra Giuseppe Garibaldi e il futuro re d’Italia Vittorio Emanuele II. Questa data segna la fine, gloriosa, dell’impresa dei Mille. Il re scendeva dall’Italia centrale, dove aveva sconfitto l’esercito papalino. Garibaldi si dirigeva verso Roma, dopo aver conquistato il Regno delle due Sicilie. L’incontro, che si dice non sia avvenuto a Teano bensì presso il ponte di Caianello, nella frazione di Borgonuovo, segnò l’adesione di Garibaldi alla politica dei Savoia e contemporaneamente la fine delle speranze che si potesse fondare una repubblica meridionale di stampo mazziniano.
Il re ottenne l’annessione del regno del sud, Garibaldi ottenne che i volontari garibaldini entrassero, dopo una selezione, nell’esercito regolare sardo, con il medesimo grado rivestito nella spedizione. A ottobre, dunque, si ritirò a Caprera.
Tre giorni dopo, il 14 maggio, a Salemi Garibaldi incontra una popolazione entusiasta e dichiara di assumere la dittatura democratica della Sicilia in nome di re Vittorio Emanuele II. Nel frattempo il generale borbonico Francesco Landi lo aspetta appena fuori la città con 2800 uomini, 4 cannoni e reparti di cavalleria per fermare gli invasori. I Mille, affiancati dai “picciotti” hanno un primo scontro nella battaglia di Calatafimi il 15 maggio. In un primo momento sembrava che le forze garibaldine fossero destinate alla sconfitta, tanto che Nino Bixio suggerì a Garibaldi la ritirata. Il generale, pare, rispose con le celebri parole riportate da Giuseppe Cesare Abba: “Qui o si fa l’Italia o si muore”.
I morti sono numerosi da una parte e dall’altra ma le truppe borboniche si ritirano verso Calatafimi. Garibaldi dirà: «La vittoria di Calatafimi fu d’un risultato immenso per l’effetto morale, incoraggiando le popolazioni e demoralizzando l’esercito nemico».
La battaglia di Calatafimi
Da quel momento il destino dell’Italia è segnato. I garibaldini, aiutati anche dall’insurrezione popolare di Palermo, riescono a conquistare anche la città. Siamo al 30 maggio del 1860 e i volontari al seguito di Garibaldi riescono facilmente nell’impresa grazie al fatto che le truppe borboniche, attestate alle porte di Palermo, pensavano di essere in periodo di tregua.
Seguirono scontri cruenti, in cui furono feriti uomini valorosi come Benedetto Cairoli e Nino Bixio. Ma alla fine i garibaldini presero il comando della zona e rimasero lì, riorganizzandosi, per circa due mesi. Fu in questo momento che venne costituito l’embrione di quello che verrà chiamato l’esercito meridionale.
Il 20 luglio fu poi la volta della battaglia di Milazzo e poi della conquista di Messina. Possiamo dire che alla fine di luglio Garibaldi aveva campo libero verso il continente e iniziò, infatti, a preparare il passaggio verso la Calabria. I Borbone lo aspettavano a Reggio ad armi spiegate ma Garibaldi li prese in contropiede, facendo un tragitto più lungo e sbarcando a Melit Porto Salvo con al seguito circa ventimila volontari. Siamo al 19 agosto.L’esercito borbonico era ormai inerme e demotivato e per i garibaldini non fu difficile sconfiggerlo in pochi giorni. A inizio settembre i volontari iniziarono a risalire la penisola e il re Francesco II decise di abbandonare Napoli (capitale del regno delle due Sicilie) attestando l’esercito tra Gaeta e Capua. Il 7 settembre Garibaldi entrò quindi trionfante a Napoli, accolto come un liberatore.
Tutto il restante mese di settembre fu sfruttato dai garibaldini per sconfiggere anche quell’ultimo avamposto di esercito borbonico attestato nei pressi del fiume Volturno. La battaglia cruciale, chiamata appunto battaglia dei Volturno, avvenne alla fine di settembre. Garibaldi e i suoi volontari riuscirono a sconfiggere il battaglione borbonico composto da ben 50 mila soldati.
A questo punto ai garibaldini si andarono ad aggiungere anche gli uomini dei corpo di spedizione sardo, ridiscesi dall’Italia centrale dove avevano sconfitto l’esercito papalino nella battaglia di Castelfidardo, annettendo poi con dei “plebisciti” al Regno di Sardegna le Marche e l’Umbria.
Il 21 ottobre si tennero poi i primi “plebisciti” ovvero i referendum con cui la popolazione venne chiamata a decidere l’annessione del Regno delle due Sicilie in quello di Sardegna. La vittoria dell’annessione fu schiacciante.Dopo l’unificazione tra i due regni avvenne, il 26 ottobre 1860, lo storico incontro a Teano tra Giuseppe Garibaldi e il futuro re d’Italia Vittorio Emanuele II. Questa data segna la fine, gloriosa, dell’impresa dei Mille. Il re scendeva dall’Italia centrale, dove aveva sconfitto l’esercito papalino. Garibaldi si dirigeva verso Roma, dopo aver conquistato il Regno delle due Sicilie. L’incontro, che si dice non sia avvenuto a Teano bensì presso il ponte di Caianello, nella frazione di Borgonuovo, segnò l’adesione di Garibaldi alla politica dei Savoia e contemporaneamente la fine delle speranze che si potesse fondare una repubblica meridionale di stampo mazziniano.
Il re ottenne l’annessione del regno del sud, Garibaldi ottenne che i volontari garibaldini entrassero, dopo una selezione, nell’esercito regolare sardo, con il medesimo grado rivestito nella spedizione. A ottobre, dunque, si ritirò a Caprera.
lunedì 11 aprile 2011
Unità d'Italia/ A Belgrado la storia dei ' due Risorgimenti'
Belgrado, - Alla notizia della vittoria franco-sarda della battaglia di Solferino contro l'esercito asburgico nel 1859, la gente si radunò in piazza sventolando il tricolore e urlando di gioia in perfetto italiano "W Mazzini, W Vittorio Emanuele". La scena non si svolge né a Torino, né a Milano, ma a Belgrado, così come riportata dall'allora console del Regno di Sardegna in Serbia, Fortunato Astengo. Questa ed altre innumerevoli testimonianze storiche del legame a doppio filo tra Risorgimento italiano e il movimento indipendenstista-nazionale serbo nella seconda metà del XIX secolo, sono state oggetto della giornata di studi sul Risorgimento italiana dedicata al tema "Italia- Serbia, 1861". Ospitato dall'Accademia serba delle scienze e delle arti di Belgrado, sono intervenuti insigni studiosi dei due Paesi, tra i quali i professori Niksa Stipcevic e Giuseppe Garibaldi.
Inaugurando i lavori, l'ambasciatore d'Italia, Armando Varricchio ha espresso "l'auspicio che 'il programma nazionale serbo' di questo nuovo millennio, che si identifica oggi con la prospettiva di adesione all'Unione europea, venga condiviso da tutte le forze più illuminate e sinceramente patriottiche del Paese". L'evento - sponsorizzato da Fiat Serbia e organizzato da Comune di Milano, Fondazione Corriere della Sera e Istituto Italiano di Cultura di Belgrado, diretto da Maria Mazza - è patrocinato dall'Istituto per la Storia del Risorgimento di Roma e chiude la due giorni di celebrazione belgradese del centocinquantenario dell'Unità d'Italia: ieri sera i 'Solisti del Risorgimento' della Scala di Milano si sono esibiti al Museo nazionale di Belgrado, eseguendo, tra gli altri, la prima assoluta del 'Gran concerto per pianoforte e quintetto d'archi' del compositore Disma Fumagalli.
Inaugurando i lavori, l'ambasciatore d'Italia, Armando Varricchio ha espresso "l'auspicio che 'il programma nazionale serbo' di questo nuovo millennio, che si identifica oggi con la prospettiva di adesione all'Unione europea, venga condiviso da tutte le forze più illuminate e sinceramente patriottiche del Paese". L'evento - sponsorizzato da Fiat Serbia e organizzato da Comune di Milano, Fondazione Corriere della Sera e Istituto Italiano di Cultura di Belgrado, diretto da Maria Mazza - è patrocinato dall'Istituto per la Storia del Risorgimento di Roma e chiude la due giorni di celebrazione belgradese del centocinquantenario dell'Unità d'Italia: ieri sera i 'Solisti del Risorgimento' della Scala di Milano si sono esibiti al Museo nazionale di Belgrado, eseguendo, tra gli altri, la prima assoluta del 'Gran concerto per pianoforte e quintetto d'archi' del compositore Disma Fumagalli.
domenica 10 aprile 2011
Garibaldi a Caprera
Garibaldi a Caprera
Nel 1809, quando aveva sede a La Maddalena la Marina Sarda, giunse nell'isola un emissario del governo inglese con un importante messaggio per il Barone De Geneys. I tempi maturavano e le fortune napoleoniche stavano per tramontare. Era tempo di cominciare a pensare alla restaurazione del regno e Alessandro Turri, questo il nome del messaggero, dopo aver conferito con De Geneys, inviò al suo governo un dispaccio in cui si parla della "Causa d'Italia" e "dell'unione e dell'indipendenza italiana". Il destino volle che quarant'anni dopo quel messaggio che costituisce uno dei primi atti unitari, approdasse nell'isola, reduce della dissavventura della repubblica Romana, l'uomo che doveva realizzare l'unità d'Italia. Giuseppe Garibaldi giunse per la prima volta a Caprera il 25 settembre 1849. Arrestato dopo la fuga da Roma si era deciso di mandarlo esule a Tunisi, ma il Bey non volle accoglierlo e la nave che lo trasportava, comandata dal maddalenino Francesco Millelire, ebbe ordine di sbarcarlo a La Maddalena in attesa di determinazioni. Gli era compagno il fido "Leggero", il maddalenino Giovanni Battista Culiolo, che lo aveva seguito in tutte le sue peregrinazioni e che aveva avuto la sorte di assisterlo nel momento di maggior sconforto: la morte di Anita nella pineta di Ravenna. Ad accogliere gli esuli c'era a Cala Gavetta tutta la popolazione; Leggero rimetteva piede sul suolo natio dopo tanti anni e tutti volevano conoscere l'uomo di cui era giunta nell'isola l'eco di tante gesta. Numerosi altri maddalenini gli erano stati vicini: Giacomo Fiorentino era stato il primo caduto della prima battaglia di Garibaldi in difesa della Repubblica di Rio Grande do Sul e Antonio Susini, eroe della battaglia del Salto, era stato da lui lasciato al comando della Legione Italiana di Montevideo.
Durante quel primo soggiorno Garibaldi volle conoscere i parenti dei suoi fidi ed in particolare i Susini ai quali rimarrà poi legato da indissolubili vincoli di amicizia. Si recò a trovarli nella casa di Barabò, nella frazione Moneta, Dove i Susini si apprestavano alla vendemmia. Partecipò con loro al lavoro dei campi, alle soste gioiose, ai pranzi alle partite di caccia e di pesca. Proprio in quei giorni fu protagonista di un ardimentoso intervento ancora oggi ricordato da una lapide posta sulla facciata della casetta di Barabò. Durante una battuta di pesca salvò da sicura morte tre uomini e un bambino rovesciatisi con la barca. Uno di questi tale Tarentini, era forse il padre dell'unico maddalenino che partecipò all'impresa dei mille.
A La Maddalena, dopo tante peripezie, Garibaldi conobbe finalmente una pausa di tranquillità in mezzo a gente nella quale poteva identificarsi: gente ardimentosa, fiera, ma semplice e schietta. Il suo primo soggiorno durò appena un mese, ma forse fù determinante per tutta la sua vita futura. Prima di lasciare l'isola e partire verso l'esilio di Tangeri, indirizzò al sindaco Nicolò Susini una lettera, oggi riprodotta nell'atrio del palazzo comunale, nella quale esprime gratitudine all'intera popolazione per l'accoglienza ricevuta.
Al ritorno dalla sua seconda avventura americana, deciso a mettere su casa e a dedicarsi alla famiglia, Garibaldi inizia il cabotaggio nel Mediterraneo. I frequenti viaggi lo riportano in Sardegna e a La Maddalena. Innamoratosi della terra sarda decise di acquistarvi un terreno e stabilirvisi definitivamente. Le sue attenzioni caddero dapprima sulla penisola do Capo Testa che contrattò con i fratelli Pes, detti "frati Pilosi", successivamente gli fu proposto l'acquisto dell'isola di Coluccia, nei pressi di Porto Pozzo, ma furono i Susini a dissuaderlo consigliandogli di stabilirsi nell'isola di Santo Stefano. Garibaldi, infine, prescelse Caprera e con l'aiuto dei suoi amici riuscì a comprare alcuni appezzamenti di terreno dapprima da tale Ferracciolo e poi dagli inglesi Collins. Nel 1856, dopo aver riattato a Caprera la vecchia casa di un pastore ormai ridotta a pochi ruderi, aiutato nei lavori dal figlio Menotti, si reca a Londra col duplice scopo di acquistare un imbarcazione e convincere la fidanzata inglese Emma Roberts a venire a vivere con lui nell'isola. Ma Emma per l'opposizione dei figli, non potè seguirlo e Garibaldi fece ritorno col suo sospirato "cutter" che in ricordo del fallito fidanzamento volle battezzarlo con il nome di "Emma". Ritornato a Caprera iniziò i suoi commerci tra nizza, Genova e la Sardegna trsportando anche materiali per la costruzione della sua casa. Trasportò per prima cosa una casa di legno smontata che installò accanto alla prima casetta e così, nell'estate del 1856 potè essere raggiunto dai figli accompagnati da Battistina Ravello che egli aveva assunto per accudirli. Ma il destino doveva ancor più legarlo alla sua isola. Il 7 gennaio 1857, al ritorno da un viaggio da Genova, l'"Emma", carica di calce, pozzolana, ferro e legnami, naufragò nei pressi di Caprera; fu una svolta decisiva nella sua vita, da quel momento egli decise di abbandonare il mare e di dedicarsi definitivamente all'agricoltura.
Ben presto creò a Caprera, una piccola comunità di pastori, mezzadri, fattori e amici; la casa venne ingrandita e vennero via via aggiunte tutte le strutture necessarie: il forno, il mulino a vento, il magazzino per gli attrezzi, la stalla e la dispensa. Circondato dall'affetto dei maddalenini e dei pastori galluresi presso i quali si recava sovente, Garibaldi, da avventuriero qual'era stato, divenne finalmente uomo, padre di famiglia, patriarca di una comunità che il pensatore rivoluzionario russo Bakunin che si recò a visitarlo nel 1864, definì "una vera repubblica democratica e sociale".
E a Caprera maturo il suo sogno di unità d'Italia con Roma Capitale. Gli avvenimenti successivi appartengono alla grande storia, ma pochi sanno che dopo lo storico incontro di Teano, dopo aver consegnato a Vittorio Emanuele un regno di nove milioni di abitanti, Garibaldi fece ritorno a Caprera con un sacco di sementi, tre cavalli e una balla di stoccafisso. Lo seguivano alcuni amici fedeli e per pagarsi le spese di viaggio gli fu necessario prendere a prestito 3.000 lire. A Caprera, però, Garibaldi non fu solo agricoltore, come la storia ci ha ormai abituato a pensare. Colui che aveva posto le basi dell'Unità d'Italia, divenne"il vate di Caprera" e Caprera fu meta di migliaia di persone, di misteriosi emissari, di influenti personaggi. Andavano a trovarlo rappresentanti di tutti i movimenti indipendentisti o rivoluzionari europei, dai russi ai greci, agli ungheresi, ai polacchi agli spagnoli e per tutti egli aveva parole di esortazione, consigli, preziose direttive. Nel settembre del 1861, si reca a trovarlo il Ministro degli Stati Uniti per conoscere la sua decisione all'offerta fattagli dal presidente Lincoln di porsi al comando delle truppe confederate.
Il resto, come abbiamo detto, appartiene alla grande storia. Nel suo anelito verso Roma Garibaldi fu inseguito e ferito da armi italiane, più volte arrestato conobbe l'ingiuria del carcere. Quella che è invece è poco nota è la sua vita a Caprera, specie negli ultimi anni, quando le conseguenze della ferita di Aspromonte, l'artrite e la malaria contratta in SudAmerica ne minavano il corpo, ma non l'indomato spirito. Schivo di onori e di ricompense, visse gli ultimi anni della sua vita in assoluta povertà. Gli fu compagna devota e fedele Francesca Armosino, una popolana piemontese che gli aveva dato tre figli e che egli riuscì a sposare due anni prima della morte dopo avere ottenuto l'annullamento del matrimonio con la contessina Raimondi.
Il "Leone di Caprera" si spense alle 6 del pomeriggio del 2 giugno 1882 e nella Casa Bianca di Caprera l'orologio fu fermato ed i fogli di un grande calendario non furono più staccati: segnano ancora oggi l'ora e il giorno della morte dell'eroe. Il suo corpo, come egli aveva desiderato, non fu cremato: non potevano essere bruciate e disperse le spoglie dell'eroe. E di quelle spoglie i maddalenini si proclamarono subito gelosi custodi mutando lo stemma comunale in quello attuale che raffigura il "Leone di Caprera", che simboleggia Garibaldi, irto su uno scoglio che rappresenta l'isola a lui tanto cara. Da quello scoglio le spoglie dell'eroe, come dice il motto latino che contorna lo stemma araldico del comune di La Maddalena,vigilano e proteggono le coste d'Italia.
Nel 1809, quando aveva sede a La Maddalena la Marina Sarda, giunse nell'isola un emissario del governo inglese con un importante messaggio per il Barone De Geneys. I tempi maturavano e le fortune napoleoniche stavano per tramontare. Era tempo di cominciare a pensare alla restaurazione del regno e Alessandro Turri, questo il nome del messaggero, dopo aver conferito con De Geneys, inviò al suo governo un dispaccio in cui si parla della "Causa d'Italia" e "dell'unione e dell'indipendenza italiana". Il destino volle che quarant'anni dopo quel messaggio che costituisce uno dei primi atti unitari, approdasse nell'isola, reduce della dissavventura della repubblica Romana, l'uomo che doveva realizzare l'unità d'Italia. Giuseppe Garibaldi giunse per la prima volta a Caprera il 25 settembre 1849. Arrestato dopo la fuga da Roma si era deciso di mandarlo esule a Tunisi, ma il Bey non volle accoglierlo e la nave che lo trasportava, comandata dal maddalenino Francesco Millelire, ebbe ordine di sbarcarlo a La Maddalena in attesa di determinazioni. Gli era compagno il fido "Leggero", il maddalenino Giovanni Battista Culiolo, che lo aveva seguito in tutte le sue peregrinazioni e che aveva avuto la sorte di assisterlo nel momento di maggior sconforto: la morte di Anita nella pineta di Ravenna. Ad accogliere gli esuli c'era a Cala Gavetta tutta la popolazione; Leggero rimetteva piede sul suolo natio dopo tanti anni e tutti volevano conoscere l'uomo di cui era giunta nell'isola l'eco di tante gesta. Numerosi altri maddalenini gli erano stati vicini: Giacomo Fiorentino era stato il primo caduto della prima battaglia di Garibaldi in difesa della Repubblica di Rio Grande do Sul e Antonio Susini, eroe della battaglia del Salto, era stato da lui lasciato al comando della Legione Italiana di Montevideo.
Durante quel primo soggiorno Garibaldi volle conoscere i parenti dei suoi fidi ed in particolare i Susini ai quali rimarrà poi legato da indissolubili vincoli di amicizia. Si recò a trovarli nella casa di Barabò, nella frazione Moneta, Dove i Susini si apprestavano alla vendemmia. Partecipò con loro al lavoro dei campi, alle soste gioiose, ai pranzi alle partite di caccia e di pesca. Proprio in quei giorni fu protagonista di un ardimentoso intervento ancora oggi ricordato da una lapide posta sulla facciata della casetta di Barabò. Durante una battuta di pesca salvò da sicura morte tre uomini e un bambino rovesciatisi con la barca. Uno di questi tale Tarentini, era forse il padre dell'unico maddalenino che partecipò all'impresa dei mille.
A La Maddalena, dopo tante peripezie, Garibaldi conobbe finalmente una pausa di tranquillità in mezzo a gente nella quale poteva identificarsi: gente ardimentosa, fiera, ma semplice e schietta. Il suo primo soggiorno durò appena un mese, ma forse fù determinante per tutta la sua vita futura. Prima di lasciare l'isola e partire verso l'esilio di Tangeri, indirizzò al sindaco Nicolò Susini una lettera, oggi riprodotta nell'atrio del palazzo comunale, nella quale esprime gratitudine all'intera popolazione per l'accoglienza ricevuta.
Al ritorno dalla sua seconda avventura americana, deciso a mettere su casa e a dedicarsi alla famiglia, Garibaldi inizia il cabotaggio nel Mediterraneo. I frequenti viaggi lo riportano in Sardegna e a La Maddalena. Innamoratosi della terra sarda decise di acquistarvi un terreno e stabilirvisi definitivamente. Le sue attenzioni caddero dapprima sulla penisola do Capo Testa che contrattò con i fratelli Pes, detti "frati Pilosi", successivamente gli fu proposto l'acquisto dell'isola di Coluccia, nei pressi di Porto Pozzo, ma furono i Susini a dissuaderlo consigliandogli di stabilirsi nell'isola di Santo Stefano. Garibaldi, infine, prescelse Caprera e con l'aiuto dei suoi amici riuscì a comprare alcuni appezzamenti di terreno dapprima da tale Ferracciolo e poi dagli inglesi Collins. Nel 1856, dopo aver riattato a Caprera la vecchia casa di un pastore ormai ridotta a pochi ruderi, aiutato nei lavori dal figlio Menotti, si reca a Londra col duplice scopo di acquistare un imbarcazione e convincere la fidanzata inglese Emma Roberts a venire a vivere con lui nell'isola. Ma Emma per l'opposizione dei figli, non potè seguirlo e Garibaldi fece ritorno col suo sospirato "cutter" che in ricordo del fallito fidanzamento volle battezzarlo con il nome di "Emma". Ritornato a Caprera iniziò i suoi commerci tra nizza, Genova e la Sardegna trsportando anche materiali per la costruzione della sua casa. Trasportò per prima cosa una casa di legno smontata che installò accanto alla prima casetta e così, nell'estate del 1856 potè essere raggiunto dai figli accompagnati da Battistina Ravello che egli aveva assunto per accudirli. Ma il destino doveva ancor più legarlo alla sua isola. Il 7 gennaio 1857, al ritorno da un viaggio da Genova, l'"Emma", carica di calce, pozzolana, ferro e legnami, naufragò nei pressi di Caprera; fu una svolta decisiva nella sua vita, da quel momento egli decise di abbandonare il mare e di dedicarsi definitivamente all'agricoltura.
Ben presto creò a Caprera, una piccola comunità di pastori, mezzadri, fattori e amici; la casa venne ingrandita e vennero via via aggiunte tutte le strutture necessarie: il forno, il mulino a vento, il magazzino per gli attrezzi, la stalla e la dispensa. Circondato dall'affetto dei maddalenini e dei pastori galluresi presso i quali si recava sovente, Garibaldi, da avventuriero qual'era stato, divenne finalmente uomo, padre di famiglia, patriarca di una comunità che il pensatore rivoluzionario russo Bakunin che si recò a visitarlo nel 1864, definì "una vera repubblica democratica e sociale".
E a Caprera maturo il suo sogno di unità d'Italia con Roma Capitale. Gli avvenimenti successivi appartengono alla grande storia, ma pochi sanno che dopo lo storico incontro di Teano, dopo aver consegnato a Vittorio Emanuele un regno di nove milioni di abitanti, Garibaldi fece ritorno a Caprera con un sacco di sementi, tre cavalli e una balla di stoccafisso. Lo seguivano alcuni amici fedeli e per pagarsi le spese di viaggio gli fu necessario prendere a prestito 3.000 lire. A Caprera, però, Garibaldi non fu solo agricoltore, come la storia ci ha ormai abituato a pensare. Colui che aveva posto le basi dell'Unità d'Italia, divenne"il vate di Caprera" e Caprera fu meta di migliaia di persone, di misteriosi emissari, di influenti personaggi. Andavano a trovarlo rappresentanti di tutti i movimenti indipendentisti o rivoluzionari europei, dai russi ai greci, agli ungheresi, ai polacchi agli spagnoli e per tutti egli aveva parole di esortazione, consigli, preziose direttive. Nel settembre del 1861, si reca a trovarlo il Ministro degli Stati Uniti per conoscere la sua decisione all'offerta fattagli dal presidente Lincoln di porsi al comando delle truppe confederate.
Il resto, come abbiamo detto, appartiene alla grande storia. Nel suo anelito verso Roma Garibaldi fu inseguito e ferito da armi italiane, più volte arrestato conobbe l'ingiuria del carcere. Quella che è invece è poco nota è la sua vita a Caprera, specie negli ultimi anni, quando le conseguenze della ferita di Aspromonte, l'artrite e la malaria contratta in SudAmerica ne minavano il corpo, ma non l'indomato spirito. Schivo di onori e di ricompense, visse gli ultimi anni della sua vita in assoluta povertà. Gli fu compagna devota e fedele Francesca Armosino, una popolana piemontese che gli aveva dato tre figli e che egli riuscì a sposare due anni prima della morte dopo avere ottenuto l'annullamento del matrimonio con la contessina Raimondi.
Il "Leone di Caprera" si spense alle 6 del pomeriggio del 2 giugno 1882 e nella Casa Bianca di Caprera l'orologio fu fermato ed i fogli di un grande calendario non furono più staccati: segnano ancora oggi l'ora e il giorno della morte dell'eroe. Il suo corpo, come egli aveva desiderato, non fu cremato: non potevano essere bruciate e disperse le spoglie dell'eroe. E di quelle spoglie i maddalenini si proclamarono subito gelosi custodi mutando lo stemma comunale in quello attuale che raffigura il "Leone di Caprera", che simboleggia Garibaldi, irto su uno scoglio che rappresenta l'isola a lui tanto cara. Da quello scoglio le spoglie dell'eroe, come dice il motto latino che contorna lo stemma araldico del comune di La Maddalena,vigilano e proteggono le coste d'Italia.
venerdì 8 aprile 2011
Pertini disse: era il Generale del popolo
Onorevoli deputati, un secolo fa moriva a Caprera Giuseppe Garibaldi, un italiano che il nostro popolo ha sempre amato e spontaneamente ha assunto a simbolo della unità e della indipendenza della Patria. La sua scomparsa lasciò una indelebile scia di rimpianto, ma avvenne in un periodo storico in cui il profondo travaglio del Risorgimento non era ancora compiuto e continuavano le polemiche tra le forze che lo avevano determinato. Oggi, a distanza di un secolo, placatesi le onde della passione e dopo tanti eventi dolorosi e lieti dei quali siamo stati testimoni ed attori, il quadro del nostro Risorgimento ci appare chiaro e nitido in tutti i suoi particolari ed in esso campeggia l’azione che, con Cavour e Mazzini, Garibaldi, condusse per realizzare l’Italia unita. E certamente adempiamo ad un imperativo di coscienza nel rendere a Giuseppe Garibaldi, nel centenario della sua morte, il nostro omaggio per il contributo determinante da lui dato all’unità nazionale e alla causa della libertà nel mondo. Richiamare alla memoria degli italiani il nome di Giuseppe Garibaldi significa ricordare anzitutto che a lui si deve la più autentica partecipazione di popolo alla costruzione dell’unità nazionale. L’ideale di un’Italia che fosse opera degli italiani stessi, che nascesse dalla volontà e dallo spirito di sacrificio del popolo era stato per decenni il maggiore impegno dell’apostolato di Giuseppe Mazzini. Da lui lo apprese lo stesso Garibaldi ma a differenza del fondatore della Giovane Italia egli tradusse quell’ideale in un principio di azione semplice ed efficace, atto a trovare un’eco immediata nell’animo dei giovani, degli oppressi, di chi aveva energie da mettere al servizio di un ideale. E nella figura di Garibaldi si riassumono appunto i tratti più tipici dell’eroe popolare: l’amore per la patria e il coraggio personale, il disinteresse, la semplicità dei costumi, l’amore della vita, il prestigio del condottiero vittorioso. Solo se si tien conto del fascino esercitato dal Generale, si spiegano fatti tra i più memorabili del Risorgimento, dalla difesa di Roma nel 1849 alle imprese dei Cacciatori delle Alpi dieci anni dopo agli attacchi leggendari di Calatafimi e di Milazzo, nei quali giovani male armati e privi di regolare addestramento travolsero schiere agguerrite e avvantaggiate dalla superiorità di armamento e dal favore del terreno, a prezzo talora di gravi sacrifici di vite umane. E’ precisamente in queste audaci azioni garibaldini, animate dagli ideali di libertà e di indipendenza nazionale, che si trova la matrice più importante del glorioso filone del volontarismo italiano, che dalle guerre del Risorgimento, attraverso i campi di battaglia di Polonia e di Grecia, di Francia e di Spagna, giunge fino alle lotte della Resistenza. Se nel nostro Risorgimento nazionale Cavour fu l’intelligenza Mazzini il pensiero, Garibaldi fu l’anima popolare. Genti, che da secoli giacevano sotto dominazioni straniere, le fece insorgere con la parola e l’esempio in nome dell’Italia: e divennero Nazione. Ma Garibaldi non fu solo un animatore di audacia:le sue eccezionali capacità militari sono ormai riconosciute da tutti i critici più seri e più competenti. E all’entusiasmo che egli sapeva destare fra i suoi seguaci faceva riscontro il timore suscitato dal suo nome fra gli avversari. Non solo fra gli avversari come i soldati dell’esercito borbonico, in gran parte sbandati dopo le prime sconfitte e tuttavia tornati in campo alla vigilia della battaglia del Volturno, ma anche fra i preparati ed agguerriti reparti dell’esercito austriaco, contro il quale Garibaldi con esigue schiere nel 1859 realizzò la serie memorabile dei suoi successi nell’alta Lombardia. Un avversario politico come Cavour riconobbe che Garibaldi aveva reso agli italiani il maggiore dei servigi, restituendo loro la fiducia in se stessi e smentendo sul campo di battaglia l’antico detto che “gli italiani non si battono”. Un contributo di capitale importanza egli diede alla formazione di quell’orgoglio nazionale al di fuori del quale non può esservi neppure coscienza politica nazionale, e sentimento vero di quegli ideali superiori che richiedono l’adesione e, se necessario, il sacrificio della vita stessa dei singoli, perché al di sopra di essi viva la Nazione nella sua realtà imperitura. Repubblicano, democratico, e, dopo l’iniziale collaborazione, avversario di Cavour, la responsabile della cessione di Nizza alla Francia, Garibaldi fu tuttavia anche l’uomo della formula “Italia e Vittorio Emanuele”. Una formula che gli fu allora rimproverata da Mazzini e che ha poi dato origine alle molte critiche rivolte in seguito alla presunte mancanza di un senso politico del Generale. Eppure, l’adesione a quella formula nasceva da un serio e concreto apprezzamento dei reali rapporti di forza esistenti all’interno del movimento nazionale italiano. A questa realtà, invece, l’intransigenza di Mazzini non volle mai piegarsi del tutto. Solo grazie a quella formula fu possibile la concordia – discorde dalla quale nacque lo Stato unitario. Ma questo non significa che Garibaldi non cercasse di salvaguardare nei limiti del possibile, la sua autonomia di azione e di decisione, che anche in momenti drammatici come Aspromonte sacrificò solo alle superiori esigenze della concordia fra gli italiani. E soprattutto non significa che alla sua sensibilità e alla sua visione di democratico autentico sfuggissero i limiti autoritari dello Stato sorto nel 1860. Durante l’ultimo ventennio della sua vita egli fu animatore instancabile di iniziative tendenti a riaffermare ed estendere i diritti popolari costretti negli esigui margini concessi dallo Stato governato dalla destra; così come egli fu in quel periodo, non meno che in passato, vicinissimo ai moti tendenti a rinnovare la lotta per la vittoria della democrazia nel mondo moderno. Perché accanto al Garibaldi italiano e patriota non va dimenticato il Garibaldi combattente della democrazia internazionale e campione dei diritti civili ed umani. Vero figlio del suo tempo egli sentì come sue proprie le battaglie che i popoli soggetti al dominio straniero e gli oppressi di tutto il mondo conducevano contro le forze del dispotismo e del passato. Egli era fiero di essere cittadino italiano, ma si sentiva anche cittadino del mondo sempre al fianco con lo spirito e spesso con l’arme in pugno di quanti singoli e popoli si battevano per i loro diritti civili ed umani contro ogni servitù e per la loro libertà ed indipendenza nazionale. Dopo le prove giovanili di combattente democratico nell’America Latina, l’esempio più memorabile di questa sua visione della democrazia come valore universale è dato dalla partecipazione alla disperata difesa della Francia Repubblicana nel 1871: una difesa nella quale pur in un contesto generale così sfavorevole, Garibaldi seppe ancora condurre i suoi uomini alla vittoria. Della sua istintiva vicinanza alle battaglie di popolo è una riprova anche la simpatia con la quale egli guardò alla comune in quell’anno tragico per la Francia. Nell’esperienza comunarda egli vide soltanto la generosità degli ideali, che nella loro radice , se non nella loro completa manifestazione, stavano alla base di quella religione di cui egli vide una espressione anche nel nascente socialismo. Un socialismo, quello di Garibaldi, in cui prevalevano la lotta contro ogni ingiustizia e l’amore per la libertà. Garibaldi non era un dottrinaio, ma un operoso testimone di quella generosità di sentimenti e di quella volontà di giustizia che sono premessa comune alla democrazia e al socialismo.. Il fascino che egli esercitò sui giovani, venuti a combattere con lui la buona battaglia anche da molte parti d’Europa ( e qui voglio ricordare il contributo dato dalla legione polacca alla difesa della Repubblica romana) fu immenso, perché Garibaldi riuscì a trasmettere ad essi, insieme a tanta energia e tensione morale, una profonda umanità, quale nessun altro capo di movimento armato fu capace di dare nella storia. Anche i tratti intimi, infatti della figura di Garibaldi, ce lo rendono particolarmente caro: la gentilezza del suo animo, la dolcezza dei sentimenti nei riguardi della sua Anita, sempre al suo fianco intrepida e coraggiosa: la fiducia nelle virtù positive dell’uomo e l’amore per il prossimo; l’assoluto disinteresse personale ed anche un suo intimo modo di intendere la vita, segnato, talvolta anche da ingenuità ed emotività, sono aspetti di una personalità di vera e rara grandezza, perché la figura pubblica di un uomo deve tendere sempre ad essere in armonia con l’essenza della sua vita privata. L’insegnamento della vita di Garibaldi, delle sue gesta dal Mar de la Plata alla Repubblica romana, all’impresa dei Mille , all’Aspromonte, al Trentino, della sua lotta in favore degli umili e degli oppressi, è sopravvissuto al logoramento operato dal tempo e si perpetua ancora oggi ovunque, al di qua e al di la dell’Atlantico. A Garibaldi, al suo insegnamento ci siamo rifatti nelle ore più buie della nostra storia, indipendentemente dalle nostre convinzioni e collocazioni politiche. Comprendemmo allora, e ciò ci confortò e ci spinse a compiere sino in fondo il nostro dovere, il testamento ideale che Garibaldi ha lasciato a tutti gli uomini degni di questo nome: le grandi speranze dell’umanità non possono morire, la causa della libertà dei popoli è la stessa della libertà degli uomini, il riscatto sociale è parte integrante della causa della liberà. Mentre custodiamo intatto il patrimonio di valori nazionali alla cui creazione uomini come Garibaldi ebbero tanta parte, sentiamo ancora oggi come nostri quegli ideali di democrazia e di umanità che furono di Garibaldi e che egli non potè vedere pienamente attuati nel suo tempo. E in molta parte del mondo questi ideali sono lontani dall’essere una realtà, ed anche nel nostro paese la realizzazione di una società più democratica e più umana è un compito al quale attendiamo ogni giorno. Di fronte alle difficoltà e agli ostacoli da superare in questo nobile compito ci siano fonte di ispirazione e di insegnamento morale il coraggio, il disinteresse personale, l’amore per la patria e per l’umanità intera di Giuseppe Garibaldi, cavaliere antico senza macchia e senza paura.
mercoledì 6 aprile 2011
La battaglia di Goito
L’importanza strategica della battaglia che si combatte a Goito a difesa dei ponti sul Mincio il 30 maggio del 1848 è enorme: perderla significherebbe per le truppe di Carlo Alberto rimanere tagliate fuori sulla sinistra del fiume e dover così rinunciare a tutte le difficili conquiste dell’ultimo periodo.
Il feldmaresciallo Radetzky tenta invano di cacciare il I corpo d’armata dell’esercito sardo, comandato dal generale Alessandro La Marmora, dalle posizioni che tiene a protezione dei ponti sul Mincio di Goito, della vicina Pozzolo, nonché, poco più a nord, di Valeggio-Borghetto e Monzambano, circa 20 km a nord di Mantova. L’attacco austriaco del 30 maggio contro il fianco sinistro comincia intorno alle 15.00 con un nutrito fuoco d’artiglieria; il generale Eugenio Bava però, uno dei più validi comandanti dell’esercito di Carlo Alberto, distacca alcune truppe dal centro e fa passare sulla riva sinistra del Mincio un battaglione con quattro pezzi al fine di colpire il nemico sul fianco.
L’attacco austriaco viene così respinto per ben cinque volte. Alcuni battaglioni della Brigata Cuneo sono costretti a ripiegare, ma grazie al repentino intervento della Brigata Aosta, dell’Aosta Cavalleria e del Nizza Cavalleria, viene recuperato il terreno perso costringendo le avanguardie avversarie a mettersi sulla difensiva. È a questo punto che Vittorio Emanuele, erede al trono a duca di Savoia, comprendendo la condizione favorevole per contrattaccare, assume di persona il comando della Brigata Guardie, causando alle forze imperiali un duro colpo. Sono ormai le 18.30 quando gli austriaci sono costretti a una precipitosa ritirata.
La battaglia di Goito è probabilmente uno degli episodi bellici più gloriosi per l’esercito piemontese nella campagna del 1848, ma di certo anche il crinale su cui si consuma il fallimento del tentativo di Carlo Alberto. Da questo momento in poi, infatti, ha inizio la grande controffensiva austriaca, che costringerà il Piemonte a indietreggiare oltre il Ticino, abbandonando così i territori precedentemente conquistati.
Il feldmaresciallo Radetzky tenta invano di cacciare il I corpo d’armata dell’esercito sardo, comandato dal generale Alessandro La Marmora, dalle posizioni che tiene a protezione dei ponti sul Mincio di Goito, della vicina Pozzolo, nonché, poco più a nord, di Valeggio-Borghetto e Monzambano, circa 20 km a nord di Mantova. L’attacco austriaco del 30 maggio contro il fianco sinistro comincia intorno alle 15.00 con un nutrito fuoco d’artiglieria; il generale Eugenio Bava però, uno dei più validi comandanti dell’esercito di Carlo Alberto, distacca alcune truppe dal centro e fa passare sulla riva sinistra del Mincio un battaglione con quattro pezzi al fine di colpire il nemico sul fianco.
L’attacco austriaco viene così respinto per ben cinque volte. Alcuni battaglioni della Brigata Cuneo sono costretti a ripiegare, ma grazie al repentino intervento della Brigata Aosta, dell’Aosta Cavalleria e del Nizza Cavalleria, viene recuperato il terreno perso costringendo le avanguardie avversarie a mettersi sulla difensiva. È a questo punto che Vittorio Emanuele, erede al trono a duca di Savoia, comprendendo la condizione favorevole per contrattaccare, assume di persona il comando della Brigata Guardie, causando alle forze imperiali un duro colpo. Sono ormai le 18.30 quando gli austriaci sono costretti a una precipitosa ritirata.
La battaglia di Goito è probabilmente uno degli episodi bellici più gloriosi per l’esercito piemontese nella campagna del 1848, ma di certo anche il crinale su cui si consuma il fallimento del tentativo di Carlo Alberto. Da questo momento in poi, infatti, ha inizio la grande controffensiva austriaca, che costringerà il Piemonte a indietreggiare oltre il Ticino, abbandonando così i territori precedentemente conquistati.
domenica 3 aprile 2011
La battaglia di Governolo
Nel marzo del 1848 Mantova, come altre città del Regno Lombardo Veneto, insorse contro l'oppressore austriaco; numerosi cittadini desiderosi di una maggiore libertà, aderirono ad un comitato locale segreto che era aggregato a quello centrale di Milano.
Il 18 marzo si diffuse la notizia che l'imperatore Ferdinando I aveva in animo di concedere la Costituzione, i mantovani si entusiasmarono e si riversarono nelle strade e nelle piazze inneggiando alla libertà, riuscendo anche ad ottenere la liberazione di alcuni detenuti politici che portarono in trionfo. Lo slancio dei cittadini non ebbe però un adeguato sostegno in coloro che avrebbero dovuto guidarli e sostenerli. Nei giorni successivi, infatti, i capi della Municipalità altro non ottennero dal Governatore austriaco Gorzkowsky che la formazione di un Comitato Provvisorio, da affiancare alla stessa, costituito però da personalità di diversi orientamenti politici, e la costituzione della Guardia Civica alla quale aderirono circa novecento persone mal addestrate e peggio equipaggiate (solamente trecento erano i fucili a disposizione).
L'ansia e il desiderio di libertà si facevano sempre più pressanti fra la popolazione, ma l'incertezza e la debolezza del Comitato (lasciatosi illudere con vaghe promesse dal vecchio ed astuto governatore), non consentirono di passare all'iniziativa che doveva sfociare, il giorno 22 marzo, in una vera e propria rivoluzione. Il giorno successivo giunsero da varie località (Modena, Verona, Milano) truppe di rinforzo al contingente di stanza a Mantova per cui il Governatore, mutato atteggiamento, proclamò il 2 aprile successivo lo stato d'assedio.
La Guardia Civica venne sciolta; i mantovani più ardimentosi e compromessi abbandonarono la città, alcuni per aggregarsi ai corpi franchi che combattevano a fianco delle truppe regolari piemontesi (parecchi presero parte alla battaglia di Goito dell'8 aprile), altri si radunarono a Gazzuolo, e si costituirono in corpo militare fondando la gloriosa "Legione" o "Colonna Mantovana".
Dal 13 aprile, pur essendo quasi tutti repubblicani, ma in segno di riconoscenza verso il re di Sardegna che nel frattempo aveva deciso di entrare in guerra contro l'Austria, vollero denominarsi "Bersaglieri Carlo Alberto".La divisa che essi adottarono era pressochè uguale a quella dei bersaglieri sardi del 1848. Documento, datato Grazie 23 luglio 1848" recante i bolli "BERSAGLIERI MANTOVANI - CARL'ALBERTO" e "ISPETT.^ DI VIGILANZA - S. Martino dall'Argine
Si diversificava solamente nei galloni che, invece di gialli, erano bianchi, di metallo o di lana e per una piccola croce scarlatta posta sul petto della tunica all'altezza del cuore e nel piumetto che anziché di piume era di crine.L'organizzazione fu affidata a Napoleone Mambrini che decise di dividere i circa trecento volontari in due compagnie delle quali ne assunse il comando di una mentre l'altra venne assegnata al conte Giuseppe Arrivabene, entrambi con il grado di capitano.Si dotarono pure di un bollo amministrativo ovale con la dicitura "BERSAGLIERI MANTOVANI - CARL'ALBERTO" recante anche una piccola croce ed una stella.I mezzi di sostentamento furono dapprima assicurati in parte dagli stessi componenti (che usarono anche armi di loro proprietà) ed in parte con quanto aveva loro somministrato il comitato cittadino. Successivamente essi fruirono dell'aiuto proveniente dal Governo Provvisorio per la Provincia di Mantova che si era costituito a Bozzolo.Fecero quindi appello al comando dell'esercito piemontese affinchè mettesse a loro disposizione un ufficiale in grado di organizzare, dal punto di vista militare, la "Colonna Mantovana". Venne mandato Ambrogio Longoni, luogotenente dei bersaglieri, quale ufficiale più adatto al caso.
Egli, con l'aiuto di Mambrini, organizzò in breve tempo e con grande efficacia i volontari che dopo pochissimi giorni erano già in grado di molestare e respingere pattuglie e piccoli corpi nemici, tanto che un gruppetto, formato dai più ardimentosi, si spinse fin sotto le mura della fortezza di Mantova.
A Castiglione Mantovano incontrò la Colonna del Generale Torres, che era alla guida di un gruppo di volontari veneti e lombardi che avevano preso parte ai moti rivoluzionari delle "Cinque Giornate di Milano" e che nel frattempo, per mancanza di mezzi, si stava sciogliendo. Molti dei suoi componenti, fra cui Goffredo Mameli e Nino Bixio, si aggregarono alla truppa del Longoni e si portarono a Governolo ove vennero raggiunti da altri noti patrioti mantovani e non.
Il paese era occupato dai Corpi Franchi Modenese e Reggiano e da un Corpo di Linea pure estense comandato dal maggiore Fontana.La Colonna Mantovana era in continuo movimento e ogni tanto, assieme ai reggiani, con i quali si era associata, ebbe scontri con il nemico (ai Due Castelli, a Castellaro, ora rispettivamente Castelbelforte e Castel d'Ario e a Campitello) nei quali ebbero sempre la meglio.
Il 23 aprile il Longoni decise di concentrare nei pressi di Governolo i suoi volontari, ai quali si erano uniti il Battaglione di Linea e il Corpo Franco Modenese, che proprio in quel giorno avevano avuto in dotazione tre nuovi cannoni.Lo spirito che animava quei prodi era molto alto; per essi qualsiasi sacrificio e fatica sembravano lievi; fra le truppe echeggiava di continuo il nuovo inno "Fratelli d'Italia", che Goffredo Mameli, su musica di Michele Novaro, aveva da poco composto.
Verso le 23 si udì l'allarme lanciato da una sentinella che un'avanguardia nemica si stava avvicinando. Accertata l'infondatezza dell'allarme, la calma ritornò nel campo ma essa durò poco in quanto già alle prime luci dell'alba si sentì echeggiare un colpo di cannone seguito da qualche scarica di fucileria. I nostri non aspettavano altro: d'un tratto furono tutti pronti ad eseguire gli ordini che il Longoni, con grande calma, impartiva loro. Bixio, alla testa di un plotone, si trincerò in un casolare dal quale poteva controllare le mosse del nemico; il resto delle truppe venne dislocato lungo il canale Fissero mentre quelle modenesi e reggiane presidiavano gli argini del Po e del Mincio. Di fronte, nella prospiciente campagna e, in parte pure essi sugli argini, stazionavano gli austriaci. L'ordine di attacco venne impartito quasi contemporaneamente dai comandanti dei due schieramenti. Lo scontro, fin dal principio, fu quanto mai duro e, in un primo momento, sembrava che le cose volgessero a favore degli imperiali anche perché l'artiglieria modenese, affidata ad artiglieri non molto esperti e per timore di colpire le truppe alleate, taceva. Quando il Bixio e il Longoni intuirono che senza l'aiuto dell'artiglieria non avrebbero potuto avere la meglio sul nemico, presero in mano la situazione cominciando loro stessi a sparare bordate quanto mai efficaci che provocarono il panico fra gli austriaci. Tuttavia i loro comandanti riuscirono a riportare la calma ordinando di caricare alla baionetta ma, bersagliati di continuo dal fuoco dei nostri, si videro costretti ad abbandonare le loro posizioni e a darsi ad una poco onorevole ritirata.Gli austriaci lasciarono sul campo numerosi morti, che in parte gettarono nelle acque del fiume; i feriti invece vennero curati dai nostri stessi soldati e dalla popolazione locale, alcuni furono trasportati anche presso l'ospedale di Ostiglia; nella ritirata inoltre si abbandonarono ad atti di ferocia e di saccheggio, uccidendo anche inermi cittadini; persero pure un cannone reso inservibile da un colpo dei nostri artiglieri. Fra i volontari non si contò alcun morto e nemmeno un ferito.
L'esito sfavorevole del combattimento destò notevole sorpresa e rabbia nel Governatore Gorzkowsky il quale aveva già preparato grandi festeggiamenti in onore delle sue truppe che, senza alcun dubbio, riteneva sarebbero ritornate vittoriose.
La battaglia di Governolo costituisce senza dubbio il fatto d'arme più rilevante compiuto dalla Colonna Mantovana - Bersaglieri Carlo Alberto, i cui componenti parteciparono anche a varie battaglie successive. Fra alterne vicende la loro avventura proseguì per vari mesi fino a quando vennero incorporati nella Legione Italica di Giuseppe Garibaldi che si coprì di gloria nella difesa della Repubblica Romana del 1849 durante la quale molti dei suoi uomini più valorosi sacrificarono la loro vita per la rinascita della Patria.
Il 18 marzo si diffuse la notizia che l'imperatore Ferdinando I aveva in animo di concedere la Costituzione, i mantovani si entusiasmarono e si riversarono nelle strade e nelle piazze inneggiando alla libertà, riuscendo anche ad ottenere la liberazione di alcuni detenuti politici che portarono in trionfo. Lo slancio dei cittadini non ebbe però un adeguato sostegno in coloro che avrebbero dovuto guidarli e sostenerli. Nei giorni successivi, infatti, i capi della Municipalità altro non ottennero dal Governatore austriaco Gorzkowsky che la formazione di un Comitato Provvisorio, da affiancare alla stessa, costituito però da personalità di diversi orientamenti politici, e la costituzione della Guardia Civica alla quale aderirono circa novecento persone mal addestrate e peggio equipaggiate (solamente trecento erano i fucili a disposizione).
L'ansia e il desiderio di libertà si facevano sempre più pressanti fra la popolazione, ma l'incertezza e la debolezza del Comitato (lasciatosi illudere con vaghe promesse dal vecchio ed astuto governatore), non consentirono di passare all'iniziativa che doveva sfociare, il giorno 22 marzo, in una vera e propria rivoluzione. Il giorno successivo giunsero da varie località (Modena, Verona, Milano) truppe di rinforzo al contingente di stanza a Mantova per cui il Governatore, mutato atteggiamento, proclamò il 2 aprile successivo lo stato d'assedio.
La Guardia Civica venne sciolta; i mantovani più ardimentosi e compromessi abbandonarono la città, alcuni per aggregarsi ai corpi franchi che combattevano a fianco delle truppe regolari piemontesi (parecchi presero parte alla battaglia di Goito dell'8 aprile), altri si radunarono a Gazzuolo, e si costituirono in corpo militare fondando la gloriosa "Legione" o "Colonna Mantovana".
Dal 13 aprile, pur essendo quasi tutti repubblicani, ma in segno di riconoscenza verso il re di Sardegna che nel frattempo aveva deciso di entrare in guerra contro l'Austria, vollero denominarsi "Bersaglieri Carlo Alberto".La divisa che essi adottarono era pressochè uguale a quella dei bersaglieri sardi del 1848. Documento, datato Grazie 23 luglio 1848" recante i bolli "BERSAGLIERI MANTOVANI - CARL'ALBERTO" e "ISPETT.^ DI VIGILANZA - S. Martino dall'Argine
Si diversificava solamente nei galloni che, invece di gialli, erano bianchi, di metallo o di lana e per una piccola croce scarlatta posta sul petto della tunica all'altezza del cuore e nel piumetto che anziché di piume era di crine.L'organizzazione fu affidata a Napoleone Mambrini che decise di dividere i circa trecento volontari in due compagnie delle quali ne assunse il comando di una mentre l'altra venne assegnata al conte Giuseppe Arrivabene, entrambi con il grado di capitano.Si dotarono pure di un bollo amministrativo ovale con la dicitura "BERSAGLIERI MANTOVANI - CARL'ALBERTO" recante anche una piccola croce ed una stella.I mezzi di sostentamento furono dapprima assicurati in parte dagli stessi componenti (che usarono anche armi di loro proprietà) ed in parte con quanto aveva loro somministrato il comitato cittadino. Successivamente essi fruirono dell'aiuto proveniente dal Governo Provvisorio per la Provincia di Mantova che si era costituito a Bozzolo.Fecero quindi appello al comando dell'esercito piemontese affinchè mettesse a loro disposizione un ufficiale in grado di organizzare, dal punto di vista militare, la "Colonna Mantovana". Venne mandato Ambrogio Longoni, luogotenente dei bersaglieri, quale ufficiale più adatto al caso.
Egli, con l'aiuto di Mambrini, organizzò in breve tempo e con grande efficacia i volontari che dopo pochissimi giorni erano già in grado di molestare e respingere pattuglie e piccoli corpi nemici, tanto che un gruppetto, formato dai più ardimentosi, si spinse fin sotto le mura della fortezza di Mantova.
A Castiglione Mantovano incontrò la Colonna del Generale Torres, che era alla guida di un gruppo di volontari veneti e lombardi che avevano preso parte ai moti rivoluzionari delle "Cinque Giornate di Milano" e che nel frattempo, per mancanza di mezzi, si stava sciogliendo. Molti dei suoi componenti, fra cui Goffredo Mameli e Nino Bixio, si aggregarono alla truppa del Longoni e si portarono a Governolo ove vennero raggiunti da altri noti patrioti mantovani e non.
Il paese era occupato dai Corpi Franchi Modenese e Reggiano e da un Corpo di Linea pure estense comandato dal maggiore Fontana.La Colonna Mantovana era in continuo movimento e ogni tanto, assieme ai reggiani, con i quali si era associata, ebbe scontri con il nemico (ai Due Castelli, a Castellaro, ora rispettivamente Castelbelforte e Castel d'Ario e a Campitello) nei quali ebbero sempre la meglio.
Il 23 aprile il Longoni decise di concentrare nei pressi di Governolo i suoi volontari, ai quali si erano uniti il Battaglione di Linea e il Corpo Franco Modenese, che proprio in quel giorno avevano avuto in dotazione tre nuovi cannoni.Lo spirito che animava quei prodi era molto alto; per essi qualsiasi sacrificio e fatica sembravano lievi; fra le truppe echeggiava di continuo il nuovo inno "Fratelli d'Italia", che Goffredo Mameli, su musica di Michele Novaro, aveva da poco composto.
Verso le 23 si udì l'allarme lanciato da una sentinella che un'avanguardia nemica si stava avvicinando. Accertata l'infondatezza dell'allarme, la calma ritornò nel campo ma essa durò poco in quanto già alle prime luci dell'alba si sentì echeggiare un colpo di cannone seguito da qualche scarica di fucileria. I nostri non aspettavano altro: d'un tratto furono tutti pronti ad eseguire gli ordini che il Longoni, con grande calma, impartiva loro. Bixio, alla testa di un plotone, si trincerò in un casolare dal quale poteva controllare le mosse del nemico; il resto delle truppe venne dislocato lungo il canale Fissero mentre quelle modenesi e reggiane presidiavano gli argini del Po e del Mincio. Di fronte, nella prospiciente campagna e, in parte pure essi sugli argini, stazionavano gli austriaci. L'ordine di attacco venne impartito quasi contemporaneamente dai comandanti dei due schieramenti. Lo scontro, fin dal principio, fu quanto mai duro e, in un primo momento, sembrava che le cose volgessero a favore degli imperiali anche perché l'artiglieria modenese, affidata ad artiglieri non molto esperti e per timore di colpire le truppe alleate, taceva. Quando il Bixio e il Longoni intuirono che senza l'aiuto dell'artiglieria non avrebbero potuto avere la meglio sul nemico, presero in mano la situazione cominciando loro stessi a sparare bordate quanto mai efficaci che provocarono il panico fra gli austriaci. Tuttavia i loro comandanti riuscirono a riportare la calma ordinando di caricare alla baionetta ma, bersagliati di continuo dal fuoco dei nostri, si videro costretti ad abbandonare le loro posizioni e a darsi ad una poco onorevole ritirata.Gli austriaci lasciarono sul campo numerosi morti, che in parte gettarono nelle acque del fiume; i feriti invece vennero curati dai nostri stessi soldati e dalla popolazione locale, alcuni furono trasportati anche presso l'ospedale di Ostiglia; nella ritirata inoltre si abbandonarono ad atti di ferocia e di saccheggio, uccidendo anche inermi cittadini; persero pure un cannone reso inservibile da un colpo dei nostri artiglieri. Fra i volontari non si contò alcun morto e nemmeno un ferito.
L'esito sfavorevole del combattimento destò notevole sorpresa e rabbia nel Governatore Gorzkowsky il quale aveva già preparato grandi festeggiamenti in onore delle sue truppe che, senza alcun dubbio, riteneva sarebbero ritornate vittoriose.
La battaglia di Governolo costituisce senza dubbio il fatto d'arme più rilevante compiuto dalla Colonna Mantovana - Bersaglieri Carlo Alberto, i cui componenti parteciparono anche a varie battaglie successive. Fra alterne vicende la loro avventura proseguì per vari mesi fino a quando vennero incorporati nella Legione Italica di Giuseppe Garibaldi che si coprì di gloria nella difesa della Repubblica Romana del 1849 durante la quale molti dei suoi uomini più valorosi sacrificarono la loro vita per la rinascita della Patria.
venerdì 1 aprile 2011
Garibaldi e il Socialismo
Garibaldi fu un uomo di azione e non un pensatore politico, ma i suoi principi di libertà, di fratellanza fra gli uomini e di fiducia nel progresso lo portarono a vedere nel socialismo, e nell’Internazionale, come scrisse il 22 settembre 1872 a Celso Ceretti, “il sole dell’avvenire”. A coloro che, come Giorgio Pallavicino, gli chiedevano ragione della sua adesione all’Internazionale, rispondeva che la sua adesione non era tanto dovuta ai principi teorici della Grande Associazione, alla lotta di classe, o alla socializzazione dei mezzi di produzione, ma al fatto che essa, unendo tutte le forze dei movimenti per l’emancipazione dei lavoratori, “rappresentava una continuazione del miglioramento morale e materiale della classe operosa, laboriosa e onesta, conformemente alle tendenze umane di progresso di tutti i tempi”.
In verità, il socialismo di Garibaldi era un socialismo umanitario, basato sui principi di solidarietà umana e reso più concreto dalla lucida comprensione dell’urgenza, della gravità della questione sociale che lo spirito di associazione poteva allora alleviare, così come la progressiva emancipazione politica e sociale delle classi più povere e sfruttate, le quali classi erano spinte a lottare più per un sentimento di giustizia e di umana dignità che per il comunismo, come Garibaldi stesso scrisse il 2 maggio del 1871, proprio in riferimento alla Comune e all’Internazionale. Bisogna anche dire subito che, come si è visto, Garibaldi non era un materialista e non accettava il materialismo. Anzi i suoi valori di fondo, come per Mazzini e proprio da lui influenzato, erano la famiglia, la patria e l’umanità. Apparentemente erano valori tradizionali, in realtà interpretati in maniera nuova e vivificati da un forte afflato di solidarietà umana e sociale. In questo senso la proprietà privata, come la cooperazione, o le varie forme di associazione, non erano altro che strumenti e mezzi del progresso sociale. Probabilmente, come tutti i maggiori biografi riconoscono, Garibaldi -ma lo stesso vale anche per Mazzini- si avvicinò alle idee socialiste da premesse sansimoniane. Quando nel marzo 1833 il giovane marinaio nizzardo, già forte di sentimenti di libertà e sensibile ad ogni idea generosa, incontrò un gruppo di sansimoniani imbarcati sulla nave Clorinda, diretta da Marsiglia a Costantinopoli, fu colpito dalle loro idee di giustizia sociale e di pace. I seguaci delle idee sansimoniane erano stati costretti a subire il carcere e poi l’esilio, proprio per le loro idee che professavano con religioso fervore. Emile Barrault, l’austera figura di guida di quegli esuli, donò a Garibaldi una copia del Nuovo Cristianesimo di Saint-Simon, un libro che egli portò sempre con sé fino alla fine dei suoi giorni.
In effetti, le matrici del «socialismo umanitario» di Garibaldi, come lo ha definito Letterio Briguglio, possono essere ricondotte all’incontro giovanile con il sansimonismo, all’influenza del pensiero di Giuseppe Mazzini, che del resto si richiamava anch’egli al sansimonismo, ed infine all’associazionismo massonico. Su questo schema si muove anche il recente contributo di Maurizio Degl’Innocenti. All’incontro con i sansimoniani, che Garibaldi scoprì nel 1833 sul piroscafo Clorinda mentre da Marsiglia esulavano verso il Mar Nero, si deve la scoperta dell’«Umanità» e cioè della dimensione universale dei diritti degli uomini, in parallelo alla scoperta, romantica e mazziniana, dei diritti dei popoli in quanto nazioni. Fu, del resto, proprio Mazzini a vedere nella nazione non il chiuso ed egoistico recinto di una identità animata da volontà di dominio, ma il principio di base di una volontà collettiva aperta all’insieme delle nazioni e ai diritti di tutti gli uomini, in una linea di tendenza mirante ad unificare «la storia umana verso un nuovo cosmopolitismo».
Il pensiero «religioso» di Saint-Simon e dei seguaci del Nouveau Christianisme, così come il pensiero del giovane Mazzini, influenzarono Garibaldi verso una visione ampia e generosa della nazione e della comunità nazionale, viste come basilari per l’affermazione di una umanità più libera e solidale. Da qui il nesso, tipico dell’ideologia patriottica mazziniana e dei democratici italiani del Risorgimento, fra l’idea di nazione e l’idea di umanità. Mazzini aveva colto la natura dinamica del nesso fra democrazia politica e comunità di uomini liberi e socializzati che si formavano in comunità dando il primato alla propria indipendenza nazionale, ma aprendosi al resto dell’umanità. Il giovane Garibaldi aveva abbracciato la fede patriottica con l’idea che l’uomo nuovo doveva porsi al servizio dell’umanità per la liberazione delle nazioni e per l’unione dei popoli oppressi, tutti cittadini della Grande Patria Universale. Il sansimonismo e il patriottismo romantico si presentavano come le più avanzate manifestazioni dello spirito di novità e di progresso che soffiava nel nuovo secolo, in grado di armonizzare pensiero e azione, individui e umanità, diritti dei popoli e diritti degli uomini.
La connessione tra famiglia, nazione e umanità, poi riassunta nel pensiero mazziniano della fratellanza umana universale, rappresenta il tratto caratteristico del pensiero di Garibaldi, che con Mazzini si trovò in contrasto sulle scelte politiche concrete e contingenti, ma non su questi principi fondanti. Come Mazzini, anche Garibaldi, insieme con molti altri patrioti italiani, non accettò mai il materialismo, attribuendo a Dio la funzione di «regolatore del moto e dell’armonia dei mondi», e vedendo in Cristo le virtù dell’uomo e del regolatore. Come ha scritto Briguglio, Garibaldi non rinunciò mai «agli inesauribili principi etici e cristiani fino a porli a fondamento di un suo socialismo umanitario». Non a caso Robeto Michels nella Storia critica del movimento socialista italiano definì Garibaldi un «socialista evangelico».
L’altra matrice informativa del pensiero di Garibaldi fu la cultura massonica del suo tempo che non era solo quella universalistica e razionalistica del Settecento, ma quella attraversata dal nuovo spirito romantico e da una sorta di rinnovata religione laica. Garibaldi, come è noto, aderì alla massoneria alla loggia irregolare «Asile de la vertù» e poi alla loggia «Amis de la patrie», dipendente dal Grande Oriente di Francia. In queste logge erano presenti francesi animati da idee socialistiche e Garibaldi desiderava mantenere buoni rapporti con l’influente emigrazione transalpina. Le sue occupazioni e le esigenze familiari gli impedirono di frequentare con assiduità la loggia, dove rimase con il grado di apprendista. La massoneria, spenta dopo la caduta di Napoleone, in tutti gli stati italiani, dove i sovrani restaurati si trovarono a combattere le nuove associazioni latomistiche come la carboneria, costituiva ormai solo un fattore di utile sostegno all’emigrazione politica e manteneva una sua dimensione internazionale e universale, nonostante le divisioni dottrinarie e le diverse ritualità. L’influenza della massoneria sugli sviluppi del Risorgimento italiano fu più indiretta che diretta: da un lato perché la carboneria ereditava in parte il patrimonio simbolico e i valori della massoneria, pur muovendosi su un terreno politico specifico, costituzionale e nazionale; dall’altro perché la massoneria internazionale fu utile nell’aiutare a orientare l’emigrazione politica italiana in Europa, nel bacino del Mediterraneo e nelle Americhe, specialmente nelle città portuali dove le logge si erano impiantate.
Garibaldi, che sicuramente fu influenzato dagli ambienti massonici internazionali e nella visione religiosa dell’armonia dell’uomo con la natura, si avvalse a più riprese del sostegno della fratellanza massonica, nel piano pratico, ma anche nella lotta contro il dispotismo e l’«oscurantismo» della monarchia dei preti e «del privilegio». Quando dopo il 1859 la massoneria si ricostituì in alcune città italiane, da Torino a Palermo, e subito si manifestarono divisioni e contrasti, Garibaldi, che si iscrisse a Palermo nel 1860 e poi divenne il primo Gran Maestro a Firenze (1864) e infine nel 1865 Primo massone italiano e Gran Maestro onorario a vita, pensò sempre di utilizzare la massoneria per favorire l’unione delle forze patriottiche per il «miglioramento morale e materiale della famiglia italiana».
Come si può notare la formazione politica di Garibaldi rifletteva gli umori del suo tempo e risentiva degli impulsi ideali e politici più generosi e vitali. Non era quindi un pensatore politico né un dottrinario, anzi il suo innato buon senso e il suo realismo, lo portarono e diffidare dai dottrinari astratti e dei teorici. Per questo fu criticato anche ferocemente da Mazzini come da Proudhon e da Marx. Tuttavia lui stesso non usava troppa riverenza verso i teorici e li inchiodava alla astrattezza e alle astrusità dei loro sistemi. Infine, Garibaldi era dotato di doti naturali, carismatiche, che lo facevano amare da tutti coloro che lo avvicinavano e in particolare dei giovani e dalle donne.
La matrice popolare e umanitaria del pensiero politico di Garibaldi lo portavano naturalmente nel campo democratico e socialista, sempre a fianco dei ceti più deboli e dei lavoratori. Certo è che l’influenza esercitata da Garibaldi sui giovani fu enorme e i volontari che lo seguirono nelle sue imprese patriottiche furono, in gran parte, influenzati anche sul piano politico in direzione delle idee democratiche e del socialismo. In questo senso aveva ragione Giorgio Spini nel sottolineare il doppio contributo dato da Garibaldi al movimento socialista da un lato con il prestigio della sua adesione all’internazionale e dall’’altro con l’apporto «di un personale politico» rappresentato dai molti garibaldini passati al socialismo. Per questo occorre comprendere il senso del realismo politico di Garibaldi, il giudizio su di lui va basato sulle scelte concrete che caratterizzarono la sua azione per comprendere il senso e la risonanza alle sue decisioni, fondate sui principi, ma sull’intuito nell’individuare i problemi sociali e sulla comprensione diretta dei bisogni e delle aspirazioni che fermentavano in seno ai giovani colti e alle classi popolari. Per questo è utile mettere a confronto il suo pensiero e quello dei grandi teorici per capire il senso della concretezza delle scelte di Garibaldi e della grande popolarità del suo modo di fare politica con poche parole, ma con gesti concreti e scelte dotate di realismo, mai, però, disgiunte dalla forza di quei principi che aveva coltivato fin da giovane e che avevano informato la sua vita fra successi e insuccessi, esaltazioni e delusioni. Il suo realismo lo spinse a giudicare negativamente l’intransigenza mazziniana e dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48 e la caduta della Repubblica Romana cercò una convergenza con la monarchia sabauda, l’unica ad aver conservato un regime costituzionale in tutta la penisola e l’unica a mostrare ambizioni dinastiche che andavano oltre lo stato piemontese. Persino l’impresa dei Mille, così audace da rasentare l’impossibile, fu condotta con abilità e con scelte politiche realistiche, anche quando si dovettero prendere decisioni dolorose, come la brutale repressione dell’occupazione delle terre da parte dei contadini di Bronte o come la scelta di evitare uno scontro con l’esercito regio piemontese e di ritirarsi a Caprera. Gli intransigenti piemontesi non capivano la sua politica, ma i suoi volontari e il popolo solo in lui fidavano. Egli appariva sempre sincero e disinteressato, fino all’ingenuità. Questo era il suo fascino. Del resto la semplicità del cuore è una virtù rara. Da qui, però venivano le critiche dei dottrinari.
Osvaldo Gnocchi Viani, prima mazziniano poi ispiratore del Partito Operaio Italiano, nei suoi Ricordi di un internazionalista, sottolineava l’influenza sansimoniana nel socialismo di Garibaldi, che rimase sempre un “socialismo del cuore” e non un socialismo sistematico e dottrinario. Quando Garibaldi nel 1867 si recò a Ginevra per il convegno dell’Internazionale della Lega per la pace e la libertà, dichiarò anche di condividere gli scopi dell’Internazionale che era sorta a Londra nel 1864 con l’adesione dello stesso Mazzini e di Karl Marx. Garibaldi aveva ricevuto una copia dell’Indirizzo inaugurale e degli Statuti dell’Internazionale all’inizio del 1865 da Bakunin stesso che, a sua volta, li aveva ricevuti da Marx con l’incarico di farglieli recapitare a Caprera.
Allora l’Internazionale, per quanto Marx ne avesse redatto l’Indirizzo e gli Statuti, non faceva riferimento alla collettivizzazione dei mezzi di produzione ed era un movimento a cui aderivano le tendenze più varie del socialismo e dell’associazionismo operaio. Con questo spirito vi aderì Garibaldi senza andare troppo per il sottile e senza distinguere fra le dispute che dividevano le varie correnti. Del resto Marx ed Engels non potevano fare a meno di considerare la popolarità di Garibaldi, accolto trionfalmente a Londra proprio dalle Associazioni operaie, ma consideravano anche lui un “borghese”, e gli operai che lo applaudivano poco più che “asini”. A sua volta Garibaldi, che era contrario alla “guerra del lavoro contro il capitale” e alla “collettività della terra e degli strumenti di lavoro” considerava i “direttori o coriferi della grande associazione Internazionale dei lavoratori”, niente altro che “gente senza pratica”. Sarebbe bastato, secondo Garibaldi, portare tutte quelle “belle teorie” sul “terreno della pratica…per vederne l’impraticabilità.”.
Mentre Mazzini condannò la Comune e al socialismo che avanzava contrappose sempre la sua dottrina sociale del solidarismo e dell’associazionismo, Garibaldi non solo approvò la lotta dei comunardi, vedendone gli eccessi, ma anche gli aspetti positivi, e non solo gli “orrori” che il patriota genovese aveva stigmatizzato, ma confermò anche il suo sostegno all’Internazionale, o meglio all’Internazionale come la intendeva lui. Come gli fece capire il Pallavicino, che insieme a Giuseppe Petroni, direttore della mazziniana “La Roma e il popolo”, si inserì nel dibattito che divideva i due capi del movimento democratico italiano, Garibaldi si figurava una Internazionale a “immagine e similitudine” tutta sua, che non rispondeva alla realtà di un’associazione ormai dominata dall’idea della lotta di classe e dalle idee collettivistiche e rivoluzionarie. Addirittura Garibaldi dichiarava che lui era iscritto all’Internazionale ancora prima che fosse nata.
In realtà il socialismo di Garibaldi era un socialismo insieme del cuore e del buon senso, che influì sullo sviluppo del movimento operaio e socialista italiano, non tanto per gli aspetti dottrinali, quanto per quelli pratici e concreti, che agirono potentemente sulla spinta ideale e pratica alla formazione dell’associazionismo, delle leghe e delle cooperative che a centinaia e centinaia sorsero con il suo patrocinio, oppure con lo stimolo dei suoi seguaci, complice anche la Massoneria, nel dare vita a quel vasto ed eterogeneo movimento associativo e popolare su cui si basò l’azione del movimento operaio e socialista.
La galassia associativa da cui presero forma le esperienze socialiste che portarono alla nascita del Partito Socialista Rivoluzionario di Andrea Costa o del Partito Operaio lombardo e infine del Partito socialista sorto a Genova nel 1892, risentiva lungamente e profondamente dell’influenza ideale e pratica di Garibaldi e del grande movimento popolare che aveva accompagnato la sua figura attraverso il garibaldinismo. In questo senso Garibaldi fu il principale veicolo del passaggio di ampi strati del movimento democratico italiano, e dei suoi tanti seguaci, verso il socialismo. Per questo, molti dirigenti e personalità del socialismo italiano, da Costa a Turati, da Loria a Labriola, videro in Garibaldi, come scrisse lo stesso Labriola, un “geniale precursore delle idee dell’Umanità redenta”.