mercoledì 29 febbraio 2012

Teresa Filangieri


Figlia del generale Carlo Filangieri e nipote del grande illuminista Gaetano, è la più celebre filantropa napoletana del secondo Ottocento. Fondò importanti istituti di assistenza e ottenne cariche e riconoscimenti pubblici inconsueti per una donna del suo tempo.Nacque a Napoli nel 1826. Nel 1847 sposò il duca Vincenzo Ravaschieri Fieschi. La sua attività filantropica ebbe inizio a metà secolo, quando Teresa frequentava prestigiosi salotti nobiliari della capitale borbonica, ed entrò in contatto con la nota filantropa pietista Paolina Craven De La Ferronays (moglie del diplomatico inglese Augustus Craven) e le sue sorelle. L’attività caritativa di Teresa e dei suoi amici si univa alla passione per il teatro amatoriale: il ricavo degli spettacoli allestiti da Teresa, Paolina, Augustus e dai loro amici veniva destinato alla beneficenza. Anche i rapporti con i domestici e in genere con le classi povere erano improntati alla filantropia: Teresa e Paolina raccoglievano dalla strada ragazzi e ragazze cui insegnano a leggere e a scrivere e che educavano nelle proprie case come domestici (pratica ricorrente nella filantropia ottocentesca). Durante le loro villeggiature nel villaggio di Castagneto, le due amiche assistevano i poveri locali. In seguito Teresa, insieme al medico Calabritto, intraprese il risanamento di quel piccolo paese.Dopo l’Unità, la filantropia di Teresa uscì dai salotti e dalla sfera delle relazioni private per imporsi sulla scena cittadina e istituzionale. Negli anni Sessanta Leopoldo Rodinò la nominò ispettrice e patrona della scuola - convitto per fanciulle cieche fondata da Lady Strachan. Più tardi il prefetto Mordini la incaricò di condurre, con altre benefattrici, un’inchiesta sui reali educandati. Durante il colera del 1873, il Comitato organizzato per i soccorsi le affidò l’organizzazione di cucine popolari gratuite.Nel 1879 iniziò a lavorare al suo progetto più ambizioso, nel quale – col consenso del marito – impiegò parte della sua dote: l’ospedale per malattie infantili intitolato al nome della figlia Lina, scomparsa, appena adolescente, nel 1861. L’ospedale venne inaugurato nel 1880, avendo trovato finanziatori illustri, tra cui la coppia reale. Negli anni Settanta presiedette l’Opera di ricovero e di patrocinio o Gran patronato delle orfane e derelitte, approvata dalla Deputazione provinciale, e destinata ad "accogliere, istruire, avviare nell’arte e nei mestieri ed altresì proteggere nel collocamento" le orfane allevate in istituti di beneficenza, destinandole ad impieghi di maestre, telegrafiste, computiste, cameriere, operaie e cuoche. Per i ragazzi senza tetto, invece, contribuì ad allestire un dormitorio. Nel 1884, a fianco delle Suore della carità, assistette le vittime del colera. Durante l’impresa etiopica, nell’età crispina, come dirigente della Croce rossa napoletana, accolse e curò i reduci di Adua nella sua villa di Pozzuoli.Accanto all’attività pratica, Teresa non trascurò la scrittura: da un lato quella rivolta a illustrare le istituzioni filantropiche napoletane, dall’altro quella più intima, epistolare e biografica.Nel 1879 venne pubblicata la sua monumentale Storia della carità napoletana in quattro volumi.Nel 1892, una raccolta di lettere e memorie dedicata all’amica Paolina e alla sua famiglia, metteva in luce sentimenti, valori, stile di vita di queste celebri benefattrici.Nel 1903 in Come nacque il mio ospedale, racconta le vicende e l’attività di relazione attraverso cui era divenuta una figura di primo piano nella filantropia e nella società napoletane: tra i suoi amici figuravano i più celebri filantropi napoletani del tempo: Alfonso Casanova, Guido Palagi, Alfonso Capecelatro. Fu la sua ultima fatica letteraria: morì in quello stesso anno.Per quanto Teresa non entrasse direttamente nel dibattito politico del suo tempo, dalle sue scritture private emerge con chiarezza la sua concezione della filantropia come rimedio al diffondersi di idee rivoluzionarie: in particolare il "pestifero contagio delle dottrine Internazionali e Comuniste" (Ravaschieri 1892) sui giovani operai. Inorridita dalla lotta di classe, credeva nella possibilità di ricomporla attraverso una pratica filantropica animata da valori cristiani entro un quadro politico liberale - moderato.Una benefattrice di una generazione più giovane, Adelaide Pignatelli, avrebbe scritto in sua memoria: "al suo tatto, al suo sentimento d’indipendenza dalle combriccole (..) si deve se oggi la donna, anche prima di chiamarsi femminista, ha potuto da noi entrare ad esercitar la beneficenza (..) ed abbia potuto dedicarsi alla propria cultura, senza incorrere nel sarcasmo altrui".

martedì 28 febbraio 2012

Alessandro La Marmora


Alessandro La Marmora nacque a Biella il 27 marzo 1799 da una famiglia di antica aristocrazia. Trascorse i primi anni dell’adolescenza nel Piemonte occupato dalla Francia napoleonica e, divenuto paggio di corte, non pote’ iniziare la vita militare come invece avrebbe desiderato. Solo nel 1814, con il ritorno del re piemontese e la ricostituzione del relativo esercito, pote’ essere nominato, a 15 anni, sottotenente del Corpo dei Granatieri Guardie. L’anno seguente riusci’ a far parte del contigente piemontese impegnato nella coalizione antifrancese.Il tramonto dell’astro napoleonico segno’ l’inizio di un lungo periodo di pace in Europa, quindi il giovane La Marmora dovette rinunziare alla gloria desiderata sui campi di battaglia. Si dedico’, cosi’, allo studio dei piu’ importanti problemi militari. Volse la sua attenzione alla fanteria piemontese, la cui efficienza giudicava inferiori a quelle delle altre nazioni europee, da lui analizzate durante i suoi viaggi all’estero. La fanteria piemontese, infatti, prevedeva una ferma molto breve e una scarsa cura nell’addestramento dei soldati, specialmente per quanto riguardava il tiro con il fucile. Inoltre le campagne napoleoniche avevano dimostrato che il tradizionale combattimento con formazioni in ordine chiuso era ormai incompatibile con le armi moderne che, essendo piu’ precise nel tiro, imponevano un cambiamento nelle strategie militari. La Marmora riteneva necessario formare un corpo di fanteria con soldati addestrati in modo speciale all’esercizio fisico, abituati a correre e a muoversi nei terreni accidentati per permettere celeri spostamenti e un combattimento in ordine sparso. Inoltre i nuovi soldati dovevano essere particolarmente abili nel tiro e a tale scopo La Marmora ideo’ un nuovo tipo di carabina che potesse essere caricata molto rapidamente e fosse dotata di baionetta per un eventuale combattimento all’arma bianca. Divisa ed equipaggiamento dovevano essere essenziali per non ostacolare i movimenti dei soldati: nacque, cosi’, una nuova divisa di colore scuro per impedire l’identificazione da parte del nemico, e il cappello piumato sarebbe diventato il tratto distintivo dei nuovi soldati. La nuova formazione avrebbe assunto il nome di Bersaglieri, dalla parola bersaglio, stando a significare che il compito principale era l’abile uso della carabina.Nel 1836 il re del Piemonte accetto’ la proposta di formare il nuovo corpo e l’efficacia delle prime compagnie costituitesi fu evidente durante la guerra del 1848. La Marmora nel frattempo era divenuto colonnello ed egli stesso guido’ i suoi Bersaglieri a Goito contro gli austriaci. Il valore dei fanti piumati non valse a vincere la guerra, ma diede il definitivo suggello a una formazione che ormai veniva presa come modello da tutta la fanteria. In quello stesso anno La Marmora venne promosso generale e per l’eroismo dimostrato in guerra gli fu conferita la medaglia d’argento al valor militare.Il generale La Marmora continuo’ ad organizzare nuovi battaglioni di Bersaglieri ed a Genova istitui’ una scuola per la formazione degli ufficiali dei Bersaglieri. Doveva giungere presto l’occasione perche’ il nuovo corpo potesse coprirsi ancora di gloria. Infatti, quando nel 1855 il governo piemontese mando’ in Crimea un proprio contingente, partirono anche 5 battaglioni di Bersaglieri e Alessandro La Marmora comandava la seconda delle due divisioni che formavano il corpo di spedizione.La guerra di Crimea inizio’ nel 1853. Lo zar Nicola I voleva porre sotto protettorato russo i 12 milioni di cristiani ortodossi soggetti all’impero ottomano. Il deciso rifiuto opposto dal sultano diede l’avvio alle operazioni belliche da parte del governo zarista. L’esercito russo occupo’ la Moldavia e la Valacchia e in un combattimento navale nel Mar Nero distrusse la flotta turca. Le vittorie russe fecero sorgere il timore degli stati europei che si potesse turbare irrimediabilmente l’equilibrio dei poteri nei Balcani e permettere, di conseguenza, l’accesso diretto nel Mediterraneo alla flotta russa. Per tali motivi Francia e Inghilterra si allearono con la Turchia e inviarono nelle zone di guerra 50 mila uomini con lo scopo di avanzare verso Sebastopoli per distruggere la flotta e gli arsenali dell’impero russo.Nel frattempo l’Inghilterra aveva proposto al governo piemontese di intervenire nella guerra con l’invio di un proprio contingente. Il capo del governo, il conte Camillo Cavour, voleva approfittare di questa occasione per portare all’attenzione delle potenze europee la questione dell’unita’ d’Italia. Vinte le non poche opposizioni del parlamento e dell’opinione pubblica, il Cavour riusci’ a far costituire un corpo di spedizione formato da 18 mila uomini, fra i quali i Bersaglieri di Alessandro La Marmora, che giunsero in Crimea il 14 maggio 1855.I piemontesi incominciarono a partecipare alle operazioni belliche in un momento poco propizio: l’esercito anglo-franco-turco aveva posto l’assedio a Sebastopoli, dispiegandosi a sinistra nel porto di Balaclava e a destra nella sponda del fiume Cernaja, ma le operazioni erano giunte ad una situazione di stallo. Inoltre un’epidemia di colera stava decimando le forze alleate.Gia’ alla fine di maggio si manifestarono i primi casi di colera fra i soldati dell’esercito piemontese. La scarsezza di mezzi profilattici e le condizioni atmosferiche avverse, con piogge ininterrotte, avevano favorito la propagazione del morbo. Spesso i casi erano fulminanti e rendevano vana ogni cura. Alessandro La Marmora aveva avuto l’incarico d’ispezionare l’infermeria dei colerosi a Kamara, eseguendo gli ordini nonostante le sue critiche condizioni di salute poiche’ era gia’ stato contagiato. Dopo aver compiuto questa ispezione, il 4 giugno la malattia si sviluppo’ in lui in una forma virulenta. Nella notte del 6 giugno i suoi ufficiali lo sentirono gemere nella sua tenda ed accorsero per prestargli soccorso, ma il generale sapeva bene che non c’era piu’ rimedio. Venne trasportato a Kadikoy, presso il quartier generale piemontese. Qui il generale venne sistemato in una piccola stanza e posto su un lettino da campo. Nonostante le affettuose cure dei suoi uomini.Alessandro La Marmora non sopravvisse a lungo, mori’ la notte stessa del suo arrivo, il 7 giugno 1855. Le sue spoglie, avvolte in una coperta di lana e chiuse in una modesta bara, vennero sepolte su una collinetta di fronte al villaggio di Kadikoy: il corpo dei Bersaglieri aveva perduto il suo capo e il suo maestro. Nonostante il primo momento di smarrimento i Bersaglieri non si persero d’animo e dimostrarono il loro valore dopo poco tempo, il 16 agosto, nella battaglia della Cernaja, in russo Ciornaja, ossia Nero. Quel giorno, protetto dalla nebbia, l’esercito russo aveva attaccato le forze franco-piemontesi che erano dislocate lungo il vallone del fiume Cernaja. All’inizio le forze alleate non riuscirono a respingere l’attacco e persero le loro postazioni, poi, grazie al coraggio dei Bersaglieri di La Marmora, venne riconquistata l’altura sul fiume e si costrinse alla ritirata l’esercito nemico.Alla battaglia della Cernaja segui’ l’espugnazione di Sebastopoli che pose fine alla guerra. L’esercito piemontese fece ritorno in patria nell’aprile del 1856, lasciando in terra russa le spoglie del generale La Marmora. Solo nel 1911 la sua salma venne traslata in Italia e tumulata nella tomba di famiglia a Biella. Qualche anno prima, nel 1880, grazie a un accordo con il governo russo, era stato costituito presso Sebastopoli un ossario, dove erano state riunite le spoglie di tutti gli italiani caduti durante la guerra di Crimea.


                

domenica 26 febbraio 2012

Francesco De Sanctis


"Giovani studiate, siate intelligenti e buoni, l'Italia sarà quello che sarete voi."
 Si chiamava Morra Irpino (oggi Morra De Sanctis) il piccolo centro della più interna provincia di Avellino in cui il De Sanctis nacque nel 1817, ed i genitori, piccoli proprietari terrieri, rappresentavano l’ambiente sociale più agiato. Il primo, significativo distacco dalla provincia avvenne nel 1826, quando fu invitato a studiare a Napoli presso la scuola di uno zio prete, Carlo Maria De Sanctis. Al completamento degli studi liceali seguiranno gli studi giuridici, che ben presto il De Sanctis trascurò attratto dalle lezioni del purista Basilio Puoti, di cui divenne discepolo e poi collaboratore.Dopo un breve soggiorno a Morra in coincidenza del dilagare del colera, tra gli anni 1836-39, il rientro a Napoli coincise con fondamentali esperienze di vita e di studioDapprima egli ottenne la cattedra presso la scuola militare di S. Giovanni a Carbonara, poi l’incarico nel reale collegio militare della Nunziatella. Alla fine del 1838 aprì la sua scuola dove, perseguendo un progetto di lezioni di grammatica filosofica, ben presto arrivò a trattare problematiche di carattere linguistico, stilistico, retorico, letterario, estetico, storico e di filosofia della storia. In questi anni ebbe accanto amici e discepoli, insigni intellettuali del Regno d’Italia tra cui lo scienziato Angelo Camillo De Meis, il giurista Diomede Marvasi, lo storico Pasquale Villari. La scuola si sciolse allorché discepoli e maestri, partecipando alle barricate della Rivoluzione del 15 maggio del 1848, andarono incontro ad irrimediabili conseguenze: morì il discepolo prediletto, Luigi La Vista, altri emigrarono, il De Sanctis fu destituito dall’insegnamento nel collegio militare. Le pagine migliori di questi anni sono concordemente dalla critica indicate nel Discorso a‘ giovani, pronunciato il 18 febbraio del 1848, dove emerge non tanto l’uomo d’azione, quanto l’educatore che con la sua parola manifesta un’ansia straordinaria di progresso intellettuale e morale. Seguirono anni drammatici durante i quali prima fu arrestato come presunto mazziniano e rinchiuso nel 1850 nella fortezza di Castel dell’Ovo a Napoli (qui l’isolamento di trentadue mesi partorì importanti testimonianze letterarie: il poema filosofico La Prigione, la traduzione della Logica di Hegel, precorsa dallo studio del tedesco, la traduzione della Storia della poesia di Carlo Rosenkranz, la traduzione parziale di Faust di Goethe ed altre liriche di poeti tedeschi, l’abbozzo di due opere teatrali il Cristoforo Colombo e il Torquato Tasso), poi nel 1853 fu condannato all’esilio. La polizia riteneva pericolosissimo quel professore che, con l’adesione alla setta dell’Unità d’Italia, tanta influenza esercitava sui giovani, sicché come luogo d’esilio fu scelta l’America. Fortunatamente, però, egli riuscì a fuggire a Torino. Qui ottenne una cattedra presso una scuola privata della signora Elliot, e visse anni di grande fervore culturale. Collaborò ad importanti periodici torinesi, sui quali pubblicò importanti saggi critici, e si distinse per una serie di conferenze dantesche; una di queste, il commento al canto su Pier delle Vigne, fu pubblicata dall’insigne rivista Lo Spettatore di Firenze.  La grande rinomanza che andava acquisendo gli fruttò un incarico di letteratura italiana al Politecnico di Zurigo, dove insegnò dal 1856 fino al 1860. Gli anni zurighesi furono ricchi di stimoli culturali e politici, conobbe Wagner e Schopenhauer e molti altri esuli tedeschi, francesi ed italiani; furono pure gli anni della ripresa feconda degli studi sulla Divina Commedia, sul Petrarca, sul Manzoni, sul Leopardi e sulla poesia cavalleresca.  Nel 1860 conobbe Mazzini e, dopo aver interrotto il ciclo di lezioni sulla poesia cavalleresca, sottoscrisse il manifesto del Partito d'Azione e partì per l'Italia per un nuovo impegno da attivista della politica volto ad assecondare l’unificazione e a combattere l’estremismo repubblicano. Fu eletto prima Governatore della Provincia di Avellino, poi da Cavour fu nominato Ministro della Pubblica Istruzione Nel 1866, non avendo ottenuto la riconferma del suo mandato parlamentare, poté dedicarsi alla pubblicazione di molte fra le sue opere più importanti: Saggi critici (’66) , Saggio critico sul Petrarca (’69), Storia della Letteratura Italiana (‘70 – ‘71), Nuovi saggi critici (’72). In questo periodo maturò il suo distacco dalla Destra Moderata e divenne autorevole promotore della Sinistra costituzionale, laica e democratica. Ottenne nel ’71 la cattedra di Letteratura comparata presso l’Università Federico II di Napoli, il cui solo titolo sarebbe sufficiente a documentare la dimensione europea del suo impegno di studioso e di maestro. Tuttavia, con l'avvento della Sinistra al potere la ripresa della lotta e la speranza di una seria svolta democratica allontanarono ancora una volta e per sempre il De Sanctis dall’insegnamento, e in occasione di un viaggio elettorale, nel 1875, fece ritorno alla sua natìa terra. L’occasione generò un romanzo memorialista in cui il De Sanctis dimostra di conoscere e riconoscere gli ambienti, le personalità, i costumi di vita e i comportamenti sociali. Redarguisce i giovani, affinché essi dissolvano l’atmosfera di scetticismo che li avvolge, li spinge a confrontarsi con la realtà del paese e ad impegnarsi direttamente nelle grandi occasioni storiche. In quest’opera sperimentò anche un nuovo linguaggio narrativo, ispirato alle esperienze del naturalismo francese, cui fu sempre attento. I suoi sforzi per la formazione di una mentalità nuova e progressiva sono tuttora significative testimonianze della vivacità e del realismo di una mente altissima, che sapeva sempre politicamente adeguarsi alle circostanze ed esporre concetti profondi nella forma più piana e meglio accessibile all’animo popolare. Dopo altre, insigni occasioni politiche, nel Ministero della Pubblica Istruzione, dopo memorabili testimonianze letterarie (lo Studio sopra Emilio Zola, lo Studio su Leopardi e il Darwinismo nell’arte) e dopo aver lottato contro gravi infermità, morì a Napoli il 29 dicembre del 1883.




MARVASI, Diomede


MARVASI, Diomede. – Nacque il 13 ag. 1827 a Casalnuovo (oggi Cittanova), presso Reggio Calabria, da Tommaso e da Gerolama Guzzo; appartenne a un’agiata famiglia borghese politicamente orientata verso i principî liberali ispirati dalle idee di uguaglianza e fraternità diffuse dalla Rivoluzione del 1789.
Il nonno Francescantonio era stato protagonista della rivoluzione del 1799 e aveva partecipato ai moti del 1820, mentre il padre, notaio, carbonaro e massone, fu un esponente dell’opposizione liberale al governo borbonico e per questo nel 1850 fu anche arrestato.Compiuti gli studi classici a Monteleone (oggi Vibo Valentia), nel 1844 il M. si trasferì a Napoli per intraprendere gli studi giuridici. La formazione politica familiare lo portò ad avvicinarsi ai gruppi liberali napoletani; tra gli studenti strinse amicizia con A.C. De Meis, P. Villari, L. Settembrini, i fratelli B. e S. Spaventa e A. e C. Poerio; come maestri seguì in particolare B. Puoti e F. De Sanctis.Dopo avere subito un primo arresto per motivi politici nel 1847, non desistette dall’impegno diretto e nel 1848 firmò un Indirizzo ai Borbone, in cui si chiedeva al sovrano di ripristinare la costituzione del 1820 riformata in senso bicamerale.Attivo collaboratore del Nazionale, foglio fondato a Napoli da S. Spaventa all’inizio del 1848, allo scoppio della guerra di indipendenza il M. si arruolò nella guardia civica e sostenne con forza l’invio in Lombardia dei volontari napoletani. Il 15 maggio 1848 venne ferito da un colpo di baionetta durante i combattimenti in città. Nei giorni che seguirono, quando la reazione si abbatté sui rivoltosi, il M. fuggì imbarcandosi su un vascello francese.L’anno successivo, al ritorno a Napoli, fu arrestato e tradotto al carcere della Vicaria. Deferito alla Gran Corte criminale con l’accusa, tra le altre, di essere affiliato alla Giovine Italia, venne assolto per insufficienza di prove. Uscito dal carcere iniziò a svolgere con successo l’attività di avvocato, ma nel 1851 fu di nuovo accusato di partecipazione a progetti eversivi; arrestato nel 1853, fu giudicato esaltato liberale e condannato all’esilio perpetuo.Imbarcato sul piroscafo francese «Hellespont», che avrebbe dovuto condurlo in America, il M. si fermò invece a Malta. La vita nell’isola gli apparve subito triste e monotona e neppure l’arrivo di De Sanctis, esule anch’egli, alleviò il disagio del M. che chiese agli amici di adoperarsi per fargli avere un passaporto per il Piemonte; ottenutolo, lasciò Malta e insieme con De Sanctis raggiunse Torino, dove ritrovò, oltre a De Meis e a B. Spaventa, un folto gruppo di fuoriusciti napoletani tra cui A. Scialoja e P.S. Mancini. Centro di riunioni fra gli esuli partenopei era il caffè della Perla, mentre il luogo degli incontri politici e letterari era il salotto di casa Mancini (animato dalla poetessa Laura Beatrice Oliva, moglie dello stesso Mancini) costantemente frequentato dal M. e da De Meis.Non ancora abilitato all’esercizio forense, il M. iniziò a studiare la legislazione piemontese e a frequentare lo studio dello Scialoja. Qui, insieme con Mancini e con G. Pisanelli, cominciò a lavorare a un Commentario del Codice di procedura civile degli Stati sardi, pubblicato a fascicoli a Torino tra il 1855 e il 1858. Nel 1856 la partenza di De Sanctis per Zurigo amareggiò il M., ma l’amicizia anziché spegnersi si consolidò attraverso un costante e ricco scambio epistolare. Nel giugno dello stesso anno il M. presentò alla corte di appello di Torino istanza per l’ammissione all’esercizio del patrocinio legale che fu accolta ai primi di gennaio del 1857. In breve tempo divenne un avvocato famoso per il facile e forbito eloquio e per la solida preparazione.In seguito alle annessioni del 1859-60, al M. fu offerta dall’Università di Modena la cattedra di diritto costituzionale: egli accettò ma non prese mai possesso della cattedra perché la liberazione del Mezzogiorno gli consentì di tornare a Napoli, dove giunse il 6 ag. 1860 in compagnia di De Sanctis e De Meis.Gli furono subito conferiti incarichi di prestigio. Nell’ottobre del 1860 il M. fu nominato giudice della Gran Corte criminale di Santa Maria Capua Vetere con funzione di sostituto procuratore generale; nel dicembre ottenne da L.C. Farini, luogotenente del re a Napoli, la carica di direttore (vale a dire sottosegretario) del dicastero di Polizia della Luogotenenza, collaborando con S. Spaventa che ricopriva la carica di ministro.Nel gennaio del 1861 il M. si presentò candidato alle elezioni per l’VIII legislatura nel collegio di Cittanova; eletto, rinunciò per incompatibilità con la carica che ricopriva nel dicastero di Polizia a Napoli. Si ripresentò ancora candidato nel medesimo collegio pochi mesi dopo, nell’aprile 1861, ma di nuovo fu costretto a declinare il mandato, ancora per incompatibilità, per non dover rinunciare alla carriera in magistratura. Nel 1862 il M. fu nominato sostituto procuratore generale. Nel medesimo anno sposò Elisabetta Miceli, vedova Viollard, donna colta nel cui salotto si riunivano letterati e artisti.Nel 1863 il M. fu nominato procuratore generale presso il tribunale di Napoli, con il compito precipuo di indagare sulle cospirazioni del Comitato centrale borbonico che fomentava speranze di restaurazione del passato regime e alimentava il brigantaggio minando la sicurezza interna.In tale funzione il M. mostrò costantemente equilibrio, correttezza, pragmatismo e grande conoscenza della dottrina giuridica. Così fu quando, pur avendo le prove del favoreggiamento di Francesco II (in esilio a Roma) nei confronti del brigantaggio, non ritenne opportuno procedere contro di lui o quando, unico tra i membri della giunta per la repressione istituita a Napoli secondo quanto stabilito dalla legge Pica, si oppose all’arresto dei giornalisti S. Morelli, G. La Cecilia e G. Gervasi – tutti di idee democratichevulnus alla libertà di stampa e di opinione.Nell’ottobre del 1866, dopo la fine della III guerra d’indipendenza, il Senato costituito in Alta Corte di giustizia per giudicare l’ammiraglio C. Pellion conte di Persano annoverò il M. tra i tre procuratori generali incaricati del giudizio.A lui fu affidato il compito della requisitoria finale pronunciata nella tornata dell’11 apr. 1867. Fu un intervento lucido, emozionato ed emozionante: il M. esordì proclamando di accingersi al giudizio «colla più grande freddezza d’animo» e che l’unica passione che lo motivava era «l’adempimento del mio dovere»  Passò quindi a discutere e a dimostrare l’imperizia, la negligenza, la disobbedienza di Persano nella battaglia del 20 luglio e anche nei giorni precedenti, chiedendo come pena la degradazione e la radiazione dell’ammiraglio dalla Marina.La requisitoria del M., considerata un capolavoro di eloquenza, tradotta in più lingue, divenne famosa a livello europeo.Promosso consigliere presso la Corte di cassazione di Napoli nel 1868, il M. entrò nella commissione per la riforma dei codici. In seguito decise di tornare alla vita politica e si candidò alle elezioni del 1870 nel collegio di Cittanova, ma fu sconfitto nel ballottaggio per soli sei voti. Nello stesso 1870, insieme con alcuni amici, acquistò La Patria, il giornale che meglio rappresentava la politica dei moderati. Nel 1872, dopo lo scioglimento del Consiglio comunale di Napoli, venne nominato regio commissario straordinario. Nello svolgimento di detto incarico ottenne positivi risultati soprattutto nel dirimere il conflitto tra liberali e clericomoderati che aveva paralizzato la vita pubblica cittadina.Dopo questa esperienza ebbe altri incarichi giudiziari: nel novembre del 1873 come procuratore generale presso la corte d’appello di Napoli e nel marzo del 1874 come procuratore generale presso la Cassazione della stessa città. Infine il 15 nov. 1874 fu nominato senatore del Regno.In precarie condizioni di salute per una malattia cardiaca, il suo ultimo atto pubblico fu il discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 1875 a Napoli. Ricoverato in una clinica di Castellammare di Stabia, si spense il 18 ott. 1875.

sabato 25 febbraio 2012

Angelo Bassini


Angelo Bassini nacque a Pavia da una famiglia di probabile origine milanese. Disertato il servizio militare austriaco prese parte alla prima guerra d'indipendenza nel 1848 e alla difesa di Roma nel 1849.
Nel 1859 fu con Garibaldi nella seconda guerra d'indipendenza e nel 1860 gli venne assegnata l'ottava compagnia dei Mille con il titolo di colonnello.Seguì nuovamente Garibaldi nella giornata d'Aspromonte.Con lo scoppio della terza guerra d'indipendenza si arruolò nel Corpo Volontari Italiani di Garibaldi come tenente colonnello del 3º reggimento. Il 3 luglio fu ferito nella battaglia di Monte Suello e decorato di medaglia d'argento al Valor militare con la seguente motivazione: "Leggermente ferito continuò acombattere"Congedato dall'esercito tornò a Pavia dedicandosi all'assistenza educativa, ma l'anno successivo partecipò alla campagna dell'Agro Romano combattendo nella battaglia di Mentana. Morì a Pavia nel 1889.

venerdì 24 febbraio 2012

La battaglia di Tolentino


Gioacchino Murat, re di Napoli, nel marzo del 1815 occupò la Toscana, Marche e Romagna. Il 30 marzo 1815 rese pubblico il Proclama di Rimini, con cui intendeva scatenare la sollevazione popolare contro gli Austriaci. Il proclama non ebbe però seguito, anche perché gli Italiani ben sapevano che Murat stesso era uno straniero, per di più imposto a suo tempo da Napoleone con la forza delle armi e dopo una sanguinosissima invasione.Le forze austriache costrinsero, dopo i primi scontri, i murattiani a ritirarsi verso sud. L'armata murattiana, forte di circa 15.000 uomini, 3.800 cavalli e 28 cannoni, si riunì quindi a Macerata, dove la sera del 30 aprile giunse re Gioacchino. Il suo esercito aveva problemi di rifornimenti,  e i soldati erano estenuanti dalla lunga campagna.Intanto, lo stesso 30 aprile, l'armata austriaca di Bianchi, forte di circa 12.000 uomini, 1.500 cavalli e 48 cannoni, si accampò in località Cisterna di Tolentino.Fu Murat a scegliere Tolentino come campo di battaglia, nel tentativo di dividere le due armate austriache, quella del maresciallo Bianchi e quella del generale Neipperg.All'alba del 2 maggio Murat prende l’iniziativa e mosse all’attacco lungo la vallata che porta a Sforzacosta. I murattiani sembrano prevalere e lo stesso maresciallo Bianchi venne accerchiato, finché intervenne a spezzare l’assedio uno squadrone di Ussari. Intanto il grosso dell'esercito murattiano, dopo vari combattimenti, prese possesso di Monte Milone (l'attuale Pollenza).Duri combattimenti, che si protrassero fino a notte inoltrata, si ebbero anche presso il fosso di Cantagallo ed il Castello della Rancia.  La prima giornata di battaglia si concluse quindi a favore di Murat, e indusse il maresciallo Bianchi ad assumere una tattica difensiva, ed a pensare addirittura ad un piano di ripiegamento su Serravalle.Il mattino del 3 maggio si presentò con una fitta nebbia che intralciò l’avanzata dell'esercito di Murat, che comunque riuscì a conquistare le alture di Cantagallo ed a far indietreggiare l'esercito austriaco. Lo scontro si concentrò presso il Castello della Rancia.Gli austriaci, situati sulle alture ed in assetto difensivo, attesero con fredda determinazione i francesi che avanzavano in formazione serrata, centrandoli quindi con un micidiale fuoco d'artiglieria. Ben presto gli assalitori  si videro costretti a ripiegare.Intanto giungevano a Murat dispacci sull'avvicinamento dell'altra armata austriaca, e dell’insurrezione filo-borbonica in Abruzzo. Rischiava di non poter raggiungere più Napoli. Ordinò quindi la ritirata generale, che ben presto si trasformò in un’irrimediabile rotta. Gli austriaci, nelle cui file militavano molti napoletani e meridionali, rimasero padroni del campo.


giovedì 23 febbraio 2012

La battaglia di Castelfidardo


La conquista di territori pontifici era il necessario presupposto per unire le spinte unitarie del 1860, quella dell’esercito regolare piemontese che scendeva verso sud e quella dell’esercito rivoluzionario di Garibaldi che muoveva verso nord.Il generale dell’esercito piemontese Fanti partì dalla Romagna dirigendo i suoi uomini su due tronconi, il primo via mare passando per Ancona, il secondo attraverso gli Appennini diretto a Urbino. I due eserciti si ritrovarono a Jesi per poi dirigere su Castelfidardo.Intanto lo stato pontificio aveva chiesto l’intervento in supporto delle proprie truppe dell’esercito francese del generale Lamoricière che, di stanza a Narni e Spoleto, intendeva dirigersi verso Ancona, ma trova la strada sbarrata dai piemontesi proprio a Castelfidardo.Lo scontro avvenne nella frazione Crocette il 18 settembre, quando una colonna pontificia guidata dal generale Pimodan entrò in contatto con le truppe piemontesi attaccandole, il vigoroso contrattacco avvenne alla baionetta, a questo punto arrivarono altre colonne comandate da De La Moricière, ma anche lui non riuscì a sfondare e a prendere le migliori posizioni degli avversari.A questo punto il grosso dello scontro si produsse tra fra S. Casa di Sopra e S. Casa, il generale piemontese Cialdini fece accorrere altre truppe che alla fine soverchiano l’esercito pontificio e lo costrinsero alla ritirata verso Loreto, lasciando sul campo armi e attrezzature di vario genere. De La Moricière si diresse verso Ancona.Durante la notte Cialdini fece occupare Recanati e la zona circostante per tagliare la via di fuga ai pontifici che, all’alba, rendendosi conto della situazione insostenibile, capitolarono. Anche Ancona capitola dopo pochi giorni, la via per il sud era aperta.

martedì 21 febbraio 2012

Dio e popolo: la rivoluzione di Giuseppe Mazzini


«E un popol morto dietro a lui si mise. Esule antico, al ciel mite e severo. Leva ora il volto che giammai non rise, Tu sol – pensando – o ideal, sei vero».
Sono le parole con cui Giosuè Carducci immortala la figura di Giuseppe Mazzini, uno dei personaggi più controversi, discussi e ammirati del Risorgimento.Il padre voleva che diventasse medico ma il giovane Giuseppe, nato a Genova nel 1805, svenne quando si trovò di fronte a un cadavere da sezionare. Intraprese quindi gli studi giuridici e divenne avvocato. Ma la sua vera passione era il giornalismo.Conoscitore profondo di letteratura, i suoi primi articoli sull’«Indicatore genovese» erano recensioni di libri patriottici.Colpito dalla censura del Regno sardo (di cui Genova era entrata a far parte dopo il Congresso di Vienna), Mazzini si affiliò alla Carboneria. Ma i fallimenti dell’attività carbonara, che peraltro lo portarono a espatriare a Marsiglia, lo indussero a lanciare un innovativo programma rivoluzionario, quello della Giovine Italia.L’attività di Mazzini, che era un repubblicano convinto, fu animata, per tutta la vita, da una profonda fede nell’inevitabilità dell’unità nazionale. Questa, infatti, era garantita da una missione che Dio stesso aveva assegnato al popolo italiano.Accanto a Dio, proprio il popolo è l’elemento che caratterizza l’attività patriottica di Mazzini. Soltanto il popolo, infatti, avrebbe potuto realizzare quel piano provvidenziale garantito e voluto da Dio. Non stupisce,quindi, che sui primi tricolori della Repubblica romana, di cui Mazzini fu uno dei maggiori esponenti, campeggiasse il motto “Dio e Popolo”.Ardua resta l’interpretazione della religiosità di Mazzini. Credeva certo in una divinità trascendente, ma è difficile pensare che questa si identificasse con una religione rivelata. Basti pensare, a titolo d’esempio, all’ostilità più volte dimostrata da Mazzini nei confronti del papato, definito «la base d’ogni autorità tirannica».Mazzini fu certo uomo d’azione, ma fu anche un fine pensatore politico che restò sempre fedele ai dettami della propria coscienza e alle convinzioni della propria ragione. Ad esempio, pur essendo eletto al Parlamento del Regno d’Italia, rifiutò la carica per non dover giurare fedeltà al re. Questa coerenza fu però pagata, spesso, con una grande sofferenza. Come nel caso della celebre “tempesta del dubbio”, periodo nel quale, durante gli anni Trenta e dopo i primi fallimenti della Giovine Italia, rimise in discussione la propria opera insurrezionale.Nonostante il Risorgimento non si sia compiuto come auspicato da Mazzini, egli fino agli ultimi anni rimase una spina nel fianco per avversari e nemici. Morì in clandestinità, a Pisa, nel 1872. La sua salma riposa nel cimitero di Staglieno, nella città natale.


lunedì 20 febbraio 2012

Leone XIII contro la massoneria


Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci (Carpineto Romano, 2 marzo 1810 – Roma, 20 luglio 1903), fu eletto al Soglio Pontificio il 20 febbraio 1878, all’età di 68 anni, col nome di Leone XIII.Contraddicendo le previsioni che lo volevano papa di transizione, regnò per 25 anni - uno dei pontificati più lunghi della storia - dando alla Chiesa forte impulso con ben 86 Encicliche, alcune delle quali hanno indicato con netta lucidità, che conservano intatta ancora oggi, il cammino della società cristiana di fronte alle nuove istanze poste dal processo di secolarizzazione e dal diffondersi di liberalismo e socialismo.Tra le maggiori, vanno ricordate l’enciclica Immortale Dei (1885) sul ruolo dei cattolici nello Stato moderno; l’Aeterni Patris (1879) nella quale la filosofia di san Tommaso d'Aquino viene riaffermata come perno del rinnovamento sociale e politico; la Rerum Novarum (1891), sulla questione operaia e la dottrina sociale della Chiesa.Leone XIII è anche ricordato come uno dei papi che più fortemente si oppose alla massoneria e allo strapotere che le consentiva il nuovo assetto politico italiano, con l’invasione e la scomparsa dello Stato Pontificio avvenute soltanto otto anni prima dell’inizio del suo pontificato.Proseguendo sulla linea del suo predecessore Pio IX, Leone XIII ribadì il non expedit che proibiva la partecipazione dei cattolici italiani alla vita politica del Regno sabaudo e si dichiarò “prigioniero entro i confini del Vaticano”.Ugualmente, riaffermando il lungo Magistero della Chiesa sulla massoneria – la prima scomunica risale a Papa Clemente XII, con la Lettera Apostolica In Eminenti del 1738 – scrisse numerosi documenti contro di essa, tra cui le due Encicliche che proponiamo ai nostri lettori.Nella Humanum genus (20 aprile 1884), Leone XIII denunciò la netta opposizione tra la dottrina cattolica e le idee filosofiche e le concezioni morali della massoneria, che riconducevano al naturalismo razionalista.Indicò anche la strategia di penetrazione utilizzata dai massoni che “insinuandosi sotto specie di amicizia nel cuore dei Principi, mirarono ad avere in essi complici ed aiuti potenti per opprimere il Cristianesimo; e a fine di mettere nei loro fianchi sproni più acuti, si diedero a calunniare ostinatamente la Chiesa come nemica del potere e delle prerogative reali. Divenuti con tali arti baldanzosi e sicuri, acquistarono influenza grande nel governo degli Stati, risoluti per altro di crollare le fondamenta dei troni, e di perseguitare, calunniare, discacciare chi tra’ sovrani si mostrasse restio a governare a modo loro. Con arti simili adulando il popolo, lo trassero in inganno. Gridando a piena bocca libertà e prosperità pubblica; facendo credere alle moltitudini che dell’iniqua servitù e miseria in cui gemevano tutta della Chiesa e dei sovrani era la colpa, sobillarono il popolo, e lui smanioso di novità aizzarono ai danni dell’uno e dell’altro potere. Vero è bensì che dei vantaggi sperati maggiore è l’aspettazione che la realtà: anzi oppressa più che mai la povera plebe vedesi nelle miserie sue mancare gran parte di quei conforti, che nella società cristianamente costituita avrebbe potuto facilmente e copiosamente trovare”.Nella Inimica Vis (8 dicembre 1892), indirizzata ai Vescovi italiani (ai fedeli fu indirizzata una versione di diverso stile ma identico contenuto, la Custodi, pubblicata nella stessa data), il Pontefice descrisse la massoneria come “una forza nemica che, sotto l’istigazione e l’impulso dello spirito del male, non ha smesso di combattere il nome cristiano, e si è sempre associata a certi uomini per riunire e dirigere i loro sforzi distruttori contro le verità rivelate da Dio, e, per mezzo di funeste discordie, contro l’unità della società cristiana. […] lo spirito comune a tutte le sètte anteriori che sono insorte contro le istituzioni cattoliche, ha ripreso vita nella sètta che si chiama ‘massonica’, e che, fiera di potere e di ricchezza, non teme di attizzare con una violenza inaudita il fuoco della guerra, e di portarlo in tutti i campi più sacri”.La conclusione di Leone XIII fu che “essenzialmente inconciliabili tra loro sono cristianesimo e massoneria; sicchè aggregarsi a questa è un far divorzio da quello”, ribadendo così la scomunica che colpisce chi si associa a logge e circoli massonici.Scomunica che, è il caso di ricordarlo, è ancora attiva e non è mai stata ritirata da alcun Pontefice successivo, fino ai giorni nostri.Anzi, essa è stata ulteriormente rinnovata, con un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 26 novembre 1983, resosi necessario a causa di dichiarazioni fuorvianti di esponenti massonici rese in occasione della pubblicazione del Codice di Diritto Canonico, nel quale la massoneria non veniva esplicitamente menzionata come in precedenza. L’allora Prefetto della Congregazione, card. Joseph Ratzinger, attuale regnante Pontefice,  dichiarò che “rimane immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poichè i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione.”








sabato 18 febbraio 2012

Il marinaio Giuseppe Garibaldi L'eroe dei due mondi in rotta lungo le coste del Cile (1851 - 1853)


Nell'estate del 1849, dopo lo sfortunato epilogo della Repubblica Romana, un'avventurosa fuga attraverso l'Umbria e le Marche portò Giuseppe Garibaldi ed i resti della Legione Italiana nelle paludi di Comacchio. Qui, il 4 agosto del medesimo anno, trovò morte la compagna Anita, la quale, sebbene in attesa di un figlio, aveva voluto seguire l'"Eroe dei due mondi" nell'ennesimo cimento di guerra.Scampato alla cattura da parte degli austriaci, da Ravenna , Garibaldi riuscii a raggiungere Portovenere ed infine Chiavari, ove agli inizi di settembre fu arrestato dai carabinieri piemontesi e condotto a Genova.Liberato dopo alcuni giorni di detenzione grazie alle numerose proteste di parlamentai sardi, il condottiero s'imbarcò su di una nave a vapore con la quale avrebbe dovuto raggiungere Tunisi, il luogo che egli stesso aveva scelto per il suo secondo esilio. Durante il viaggio, Garibaldi riuscì a sostare per qualche ora a Nizza, il tempo necessario per riabbracciare la madre ed i figli. Rifiutandogli lo sbarco a Tunisi per motivi politici, Garibaldi iniziò a peregrinare per il Mediterraneo, sostando dapprima alla Maddalena, poi a Tangeri e a Gibilterra.Varcate le colonne d'Ercole, Garibaldi approdò a Liverpool ed, infine, si diresse in America del Nord ove giunse nell'aprile 1850. Nell'aprile dell'anno seguente dopo aver trascorso qualche tempo a New York, ospite dell'amico Antonio Meucci (l'inventore del telefono), utilizzando il nome di Giuseppe Pane (già adottato nel lontano 1834), Garibaldi seguì l'amico Francesco Carpaneto dapprima in America Centrale e poi in quella Meridionale, peraltro già teatro delle sue imprese giovanili, stabilendosi inizialmente a Lima. Qui fu accolto a braccia aperte dalla "ricca e generosa colonia Italiana", come egli steso ricordò nelle sue Memorie, nel contesto delle quali scrisse: "Quando io penso alle nostre colonie Italiane dell'America meridionale, è veramente da andarne superbi. Quei nostri conterranei sulla terra libera di quelle Repubbliche mi sembrano valer più assai che nelle nostre contrade".  Ed è proprio in questi affascinati angoli del pianete che Garibaldi, abbandonati - per un momento - i panni del condottiero, "riprese" quelli di capitano di una nave (più precisamente un cargo mercantile), con la quale compì numerosi e lunghi viaggi intercontinentali. Fu proprio a Lima dunque che, sul finire del 1851, Garibaldi conobbe l'imprenditore  Pietro Denegri, appartenente ad una facoltosa famiglia italiana originaria di Chiavari (secondo altri di Nizza) stabilitesi n Perù per affari. Il Denegri, infatti, gli affidò il comando della nave Carmen, un clipper mercantile da 400 tonnellate ancorato al Callao (il proto di Lima), destinata ad operare il commercio con la Cina. I viaggi per la Cina iniziarono il 10 gennaio 1852, data della partenza da Callao per Canton, ed ebbero come scopo principale il trasporto di guano, un fertilizzante naturale di cui sia il Perù che il Cile erano già allora i principali esportatori. In più occasioni, al rientro in Perù, Garibaldi sbarcò al Callao molti emigrati cinesi, le cui colonie già allora erano ben impiantate sia nel Nord che nel Sud dell'America. Di tale attività fu testimone lo stesso armatore Pietro Denegri. Nel 1865, incontrando a Lima il noto scrittore Vittorio Vecchi (meglio conosciuto con lo pseudonimo di Jack La Bolina), ricordando la figura di Garibaldi, l'armatore disse: "Don Victor, non ho mai avuto un capitano simile e che tanto poco mi spendesse (.) M'ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcato e tutti grassi ed in buona salute, perché li trattava come uomini e non come bestie". Per regione climatiche, i viaggi per la Cina (e per l'Asia in generale) furono spesso alternati ad altrettante missioni che potremmo definire "a breve raggio d'azione". Alcune di queste missioni ebbero luogo a partire dell'estate dello stesso 1852, allorquando Garibaldi, al ritorno da Canton, ripartì "in zavorra" (in gergo marinaro equivale a "senza carico utile") alla volta di Valparaiso, in Cile. Qui la Carmen fu noleggiate per alcuni viaggi commerciale per contro del governo cileno, proprio in quel momento impegnato un vasto programma di interscambi commercial con l'Europa ed il Nord America.Essendo quelli gli anni della Presidenza di Manuel Montt (1851-1861), un periodo felice per il Cile, essendo caratterizzato da un processo di profondo rinnovamento sociale ed economico, tanto da far guadagnare a quel Paese l'appellativo di "la Prussia dell'America del Sud". La Carmen fu dunque adibita al trasporto di rame, una delle principali risorse minerarie del Cile, e per questo toccò i porti di Coquimbo e di Huasco, già allora considerati come i principali poli minerari del paese. Per diversi mesi, Valparaiso e gli altri porti cileni, grazie soprattutto all'ospitalità degli abitanti, rappresentarono per il Garibaldi marinaio i "luoghi del riscatto": I luoghi ove il grande condottiero ritrovò nuovamente se stesso dopo la perdita della cara mamma avvenuta il 19 marzo (sempre dell'52) mentre esule navigava nell'Oceano Indiano. Nella bella Valparaiso, già allora considerata la più grande città marittima e mercantile del Cile, Garibaldi ritrovò anche la Patria lontana, grazie a quel "Consistente lembo d'Italia" sorto attorno alla primitiva colonia ligure sbarcatavi verso la fine del '700. In quella fatidica estate del '52 quando il capitano Francesco Pane sbarcò a Valparaiso tutti gli italiani gli corsero incontro avendo riconosciuto in lui il grande Giuseppe Garibaldi. Come ricordano le cronache del tempo: "non si contentarono degli evviva, ma gli offrirono una magnifica bandiera che poi lo seguí oltre l'Atlantico e sventolò a Quarto, a Palermo,e d al Volturno". In realtà, la "bandiera degli italiani" fu donata a Garibaldi dalle donne italiane di Valparaiso e fatta recapitare a Caprera sono nel 1855.Il vessillo fu lo stesso che nella primavera del 1860, affidato inizialmente all'alfiere Giuseppe Campo della gloriosa 7 compagnia, guidò i Mille sin dalla partenza di Quarto. Nell'epica battaglia di Calatafimi del 15 maggio, la "Bandiera dei Mille" (come fu subito ribattezzata) fu difesa strenuamente dal prode Simone Schiaffino (un capitano di lungo corso della Marina genovese, nato a Camogli nel 1835), il quale cadde eroicamente sull'altura detta "il Pianto dei Romano", trafitto dai numerosi colpi di fucile, nel vano tentativo di sottrarla ai Cacciatori napoletani che l'avevano conquistata. L'ultimo viaggio che Garibaldi effettuò al comando della Carmen ebbe inizio proprio da Valparaiso alla volta di Boston, in America del Nord, ove il mercantile giunse verso la fine del 1852. Trasferita l'imbarcazione a New York, in seguito ad alcune incomprensioni sorte con l'armatore Denegri, il capitano Garibaldi decise di lasciare il comando della barca. Con il denaro guadagnato in Sud America e con una piccola eredità realizzata a Nizza, l'"eroe dei due mondi" ritornò a Genova il 10 maggio 1854. Mutando spesso navi ed armatori, Garibaldi continuò a sfidare il mare per molti anni ancora; ciò fino al febbraio 1859, data della sua partenza da Caprera per i nuovi cimenti di guerra che tutti conosciamo. Nel 1872, circa venti anni dopo aver lasciato l'America Latina, L'Unione Italiana di Valparaiso, appena istituita, volle conferire l'incarico di primo Presidente Onorario proprio al Generale Garibaldi. Il grande condottiero, com'era sua abitudine, ripose con un'accordata e patriottica lettera, che concluse con la seguente frase: "Accetto con gratitudine il titolo, ricordando con affetto la gentile accoglienza dei concittadini Valparaiso".


venerdì 17 febbraio 2012

Gli ordini di Francesco II contro Garibaldi


La consegna del Re Francesco II al Maresciallo di Campo Tommaso de Clary, che reggeva la piazzaforte di Messina nella Sicilia invasa da Garibaldi, era quella di combattere, di organizzare la guerriglia contro gli invasori, di recuperare con iniziative politiche la popolazione e di ritirarsi nella Cittadella, “solo quando la difesa sia divenuta impossibile”.Lo dimostra un documento custodito all’Archivio di Stato di Napoli, trovato dall’appassionato studioso Luigi Andreozzi de Romano Colonna.Il 19 giugno 1860, per il tramite del ministro della Guerra, Tenente Generale Francesco Antonio Winspeare (1778-1870), il Re invia a Clary ordini dettagliati per l’organizzazione della resistenza. «L’attuale forza non essendo da tanto di poter estendere il suo raggio di operazione per quanto si dovrebbe – è scritto nel testo - curerà di tener concentrata la Truppa sempre nell’anriguardo della Cittadella tenendo per fermo che non dovrà ritirarsi in essa, che quando forze cotanto superiori avessero preso il disopra e non restasse altro mezzo di difendere la Città».A Clary, Francesco II raccomanda di far costruire dal Genio militare le opere necessarie ad assicurare la difesa della città in modo che le truppe napoletane non fossero colte di sorpresa, di smontare le batterie eventualmente costruite contro la Cittadella e di difendere i Forti.«In una parola le Truppe dovranno difendere la Città da un’aggressione qualunque, e non rientrare alla Cittadella che quando la difesa sia divenuta impossibile, lo che non si suppone», è scritto nelle consegne inviate al Comandante della Piazza di Messina.Il Re pensava anche alla controffensiva. «Potrà formare delle guerriglie, atte ad agire nella campagna, con i modi che Ella prescriverà - faceva sapere al Comandante della Piazzaforte di Messina - ed all’oggetto invierà a me le istruzioni che avrà date ai Capi di queste masse, comprendendovi gli appuntamenti giornalieri per ciascuno, il servizio a prestare e le norme per l’arruolamento. Farà uso de’ mezzi che crederà convenevoli per tenere dei fondi a disposizione pel mantenimento di tali squadriglie (…)».Non mancavano, nello stile dei Sovrani delle Due Sicilie, che combattevano con le regole della guerra medievale contro la guerra rivoluzionaria senza regole e senza onore dei piemontesi e dei garibaldini, indicazioni dettate dalla carità cristiana. «Procurerà che i prigionieri siano rispettati, lasciando il giudizio sul loro conto a Lei», ordina Francesco II.Il documento smentisce l’immagine di un Sovrano debole, inadatto a combattere ed indeciso costruita dalla storiografia risorgimentale. Al contrario emerge la volontà di Francesco II di affrontare Garibaldi in Sicilia e di rioccupare le province conquistate dagli invasori, a partire da Catania. A Clary vengono date anche direttive politiche, come l’abolizione del dazio sul macinato e l’amnistia da concedere a quanti, anche se compromessi con l’insurrezione, non si fossero resi responsabili di delitti e intendessero “rientrare nell’ordine”.Come andarono le cose, nonostante le disposizioni di Francesco II lo documenta lo storico Giacinto de’ Sivo.L’avventura di Garibaldi avrebbe potuto finire subito. Ma Clary, che disponeva di oltre 15 mila uomini, prima rimase inerte, poi rifiutò il sostegno di due battaglioni al colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco. Il 14 luglio 1860 Bosco aveva effettuato una sortita da Messina. Il 17, al trivio di Archi, sulla strada di Barcellona, aveva messo in fuga i garibaldini e presi prigionieri un capitano, un tenente, un sergente e 18 soldati piemontesi che combattevano con la bande garibaldine.Il 20 aveva inflitto in uno scontro aperto a Milazzo perdite per quasi 800 uomini ai garibaldini prima di essere costretto a ritirarsi per la mancanza di quei rinforzi che Clary rifiutò di inviargli. «Questo Clary – sintetizza de’ Sivo – fece cader una opportunità sì rara in vita d’acquistare fama grande con poca fatica: accorrere a salvare il compagno, stringere l’invasore in un cerchio di ferro, spazzare La Sicilia da quei tristi».L’occasione fu perduta, come lo stesso de’ Sivo lascia comprendere, per il tradimento, non certo per gli ordini impartiti da Francesco II.






                

mercoledì 15 febbraio 2012

La rivolta di Milano del 6 febbraio 1853


Questo avvenimento all'epoca ebbe vasta risonanza presso l'opinione pubblica moderata borghese che vide in esso la necessità che il processo unitario si compisse quanto prima mettendo ai margini sia il movimento mazziniano sia quei movimenti d'ispirazione socialista che avevano già dato prova di sé nelle Cinque Giornate di Milato del 1848 e che ora sembravano volersi riproporre in Italia ad opera della classe operaia.
La rivolta scoppia domenica 6 febbraio 1853, alle ore 16,45.Il giorno fu scelto, dal Comitato Rivoluzionario organizzatore (Piolti, capo civile; Brizi, capo militare; Fronti, logistica; Vigorelli, cassiere), perché era l’ultima domenica di carnevale e gli insorti contavano, di conseguenza, che i soldati austriaci in libera uscita si spargessero per le osterie.Armati soltanto di coltelli e pugnali, dato che la mancata collaborazione del comitato militare di Genova (del partito mazziniano stesso !) e degli esuli repubblicani in Svizzera, non avevano permesso di far loro arrivare i fucili, un migliaio circa di artigiani e di operai, sul fare della sera, danno audacemente l’assalto alle caserme, ai posti di guardia austriaci, ad ufficiali di passaggio e posti di polizia, confidando anche sulla promessa diserzione delle truppe ungheresi (che non ci fu). Mancò anche l’intervento concordato dal Brizi con un ingegnere del municipio, che aveva ai suoi ordini un centinaio di operai per la manutenzione delle vie, che avrebbero dovuto intervenire – al momento opportuno – coi loro attrezzi a dar man forte nel costruire barricate, dove si era deciso di costruirle, e per tagliare le tubazioni del gas e lasciare la città al buio. Le barricate furono erette al Cordusio (Gaetano Vigorelli, Luigi e Giuseppe Baglia, Leopoldo Negri, ecc.), a Porta Tosa (ora dal Verziere al corso di Porta Vittoria), Piazza del Verzaro (ora di S.Stefano), Via della Signora, Via dell’Ospedale, Porta Ticinese, Porta Vicentina, al principio della Corsia (via Torino). L’azione più incisiva e prolungata fu quella di Porta Tosa (Giuseppe Varisco, il pettinaio Saporiti, il Ferri, il pettinaio Carlo Galli, Biffi, Colla, l’ortolano Crespi, il calzolaio Galimberti, e altri).Viene poi presa d’assalto la Gran Guardia al Palazzo Reale: al comando del Ferri, si battono i fratelli Piazza (Camillo e Luigi), Giuseppe Moiraghi, Modesto Diotti, Antonio Cavallotti, Alessandro Silva, Pietro Varisco, Luigi Brigatti, Giuseppe Forlivesi, Antonio Marozzi, e altri. I rivoltosi si impossessano, ma solo per poco tempo, delle armi (fucili). Gli scontri proseguono in via Rastrelli, Larga, del Pesce (oggi Paolo da Cannobbio), piazza Borromeo, San Bernardino delle Monache, Palazzo Litta, contrada della Lupa. Gli scontri più violenti avvengono in Corso di Porta Romana (un soldato ucciso); al Carrobbio (il cappellaio Opizzi, lo scalpellino Rivolta, ecc.: un insorto ci rimise il braccio, troncato di netto); nel borgo di Porta Ticinese, vicino al Ponte sul Naviglio; Corso di Porta Vercellina, presso Palazzo Litta (l’acquavitaio Antonio Cavallotti guida l’azione, ma viene arrestato); da via San Vincenzino sino all’arco di San Giovanni Sul Muro (Francesco Segalini, già combattente del ‘48, appoggiato da due dei suoi figli, fu ferito gravemente e morirà il 2 marzo di dissanguamento per essersi strappato le fasciature, onde schivare la forca); nella stessa Piazza Duomo e in Mercanti; Piazza Fontana, contrada dei Borromei; Via Orefici.Negli scontri, tra gli insorti rimasero uccisi (oltre al Segalini), Giuseppe Conti e Moiraghi. Tra i soldati austriaci si contarono 10 morti e 47 feriti. Viene assalito, senza successo, il Circondario di Polizia in Piazza Mercanti. Ma gli attacchi non sono coordinati, le energie vengono disperse in mille rivoli. Manca una direzione unitaria, centralizzata, risultando così inefficaci.Si contava, in origine, sull’apporto di almeno 5.000 insorti. Ma i mazziniani borghesi rimangono chiusi nelle loro case, e il restante ceto popolare, pur appoggiando in tutti i modi la rivolta (incitando i combattenti, aiutandoli nelle barricate, gettando oggetti dalle finestre sui soldati, esultando quando venivano feriti, ecc.), non si lascia trascinare in massa dal moto.Reparti austriaci prontamente accorsi da fuori Milano riescono perciò subito a circoscrivere la rivolta e a spegnerla prima dell’alba del giorno successivo. Seguono 420 arresti (in tutto saranno 895), sei impiccagioni e una fucilazione immediate. Il 10 altri quattro furono impiccati; il 14 due e il 17 gli ultimi tre. In totale 16 giustiziati.Il piano originario prevedeva, profittando di un ballo cui doveva partecipare tutta l’alta ufficialità austriaca il 31 gennaio a palazzo Marino, di avvelenarli tutti e di sbarazzarsene in una sola volta. La guarnigione di Milano sarebbe stata facilmente in balìa degli eventi e la rivolta vittoriosa. Ma il piano fu lasciato cadere. Qualcuno aveva proposto anche di assassinare tre personaggi dell’aristocrazia milanese, particolarmente ligi all’imperatore austriaco, ma non se ne fece nulla. L’Orsini, nelle sue Memorie, disse che si mancò “alla prima legge della cospirazione, la quale vuole, che dove mancano armi, dove sono proibiti i bastoni, egli è lecito ricorrere ad ogni mezzo che valga a distruggere il nemico”.


martedì 14 febbraio 2012

Teresa Kramer Berra


Nata a Milano dall’avvocato Domenico Berra e da Carolina Frapolli.
E' una dama implicata nei moti milanesi del 1821, fu molto attiva nella congiura delle donne lombardo-venete per l’unità d’Italia. Sposa Carlo Kramer, uomo di famiglia tedesca, ma si stabilisce a Milano dove è impegnata nell’industria tessile lombarda. Poi nel 1821 si allontana da Milano e si dirige verso Parigi e la Svizzera, fa ritorno nel 1826 e vi rimane fino al ’51, poiché si dedica all’educazione del figlio Edoardo e fa l’animatrice in un salotto repubblicano.Affermata sostenitrice di Mazzini, poteva svolgere la necessaria azione di supporto al movimento degli esuli anche dalla villa di Lugano dove viveva con il marito, non interessato alla politica.Nel 1869, alla morte del figlio, decide di destinare tutte le sue sostanze per la creazione a Cremasella di Brianza della Pia Fondazione Edoardo Kramer finalizzata all’assistenza degli invalidi del lavoro, ma anche all’istituzione di asili per l’infanzia locale.Fu inoltre generosa sostenitrice delle società di mutuo soccorso lombarde, ma per la morte del figlio dovette soccombere all’immenso dolore, così che Giuseppe Mazzini le scrisse una lettera datata 31 Agosto 1869 nella quale le faceva le più sentite condoglianze e le ricordava la loro viva e antica amicizia, spingendola ad avere fede non nel Dio dei Cristiani che salva o danna, ma nel Dio che ha dato alla vita, a tutte le vite Mazzini le consiglia di superare il dolore cercando uno scopo ededicandosi al bene comune.Queste le parole che senz’altro contribuirono a stimolare Teresa verso attività di impegno sociale:"Cara Teresa, concedete a me pure, fra le tante che avete ricevuto, il diritto di mandarvi una parola di condoglianza. La perdita irreparabile che avete fatta m’ha fatto sentire più viva l’antica amicizia, il cortese asilo preparatomi, la visita a Londra e tutti i ricordi d’un tempo nel quale sentivamo in ogni cosa vitale concordemente (...) non esistono che due cose reali nel mondo: gli affetti e il culto delle idee. Abbiate le due cose a un tempo.Egli amava l’Italia e aveva combattuto e lavorato per essa. Continuate, continuate l’opera sua. Perdonate che io mi avventi in consiglio. E’ il privilegio dell’età. Se mai potessi in qualche modo giovarvi, ricordate che avete un amico antico nel vostro Giuseppe Mazzini."

lunedì 13 febbraio 2012

Tommaso Grossi


Tommaso Grossi (Bellano, 23 gennaio 1790 – Milano, 10 dicembre 1853) è stato uno scrittore e poeta italiano, amico di Carlo Porta e di Alessandro Manzoni.
Figlio di Francesco Grossi e di Elisabetta Tarelli, fece i primi studi a Treviglio, poi a Castello, a Rezzonico e a Milano. Laureatosi in giurisprudenza nel 1810 all'Università di Pavia, fece pratica in uno studio legale di Milano e ottenne l'abilitazione di avvocato nel 1815.Voltosi a interessi letterari, nel 1816 pubblicò anonimamente a Milano la Prineide, un poemetto satirico in milanese e in sestine di endecasillabi: il soggetto è costituito dal caso del ministro delle Finanze del Regno d'Italia, Giuseppe Prina, che fu linciato dalla folla il 20 aprile 1814 perché accusato, ma ingiustamente, di malversazione. Nell'operetta, definita da Stendhal «la maggiore satira che la letteratura abbia prodotto nell'ultimo secolo», si satireggiava tanto il comportamento della folla che quello del potere, così che la polizia austriaca, scoperta l'identità dell'autore, lo fermò e lo interrogò per un giorno, rilasciandolo tuttavia senza ulteriori conseguenze.Seguì la pubblicazione della novella La fuggitiva, in 59 ottave e ancora in dialetto milanese, che l'anno dopo il Grossi traspose in lingua italiana, con un risultato di minore efficacia per l'uso di forme retoriche e auliche inappropriate alla resa del soggetto. Si narra, in prima persona, la vicenda di una ragazza che abbandona la famiglia per seguire segretamente il fidanzato e il fratello, arruolati nella Grande Armée impegnata nella campagna di Russia. I due militari muoiono in battaglia - ma il fidanzato avrà il tempo di riconoscerla - e la giovene, tornata in Italia, muore a sua volta nella sua casa, chiedendo perdono ai genitori.L'amicizia con Carlo Porta fu di grande importanza per la scelta del dialetto e del genere satirico - col poeta milanese scrisse nel 1818 il Giovanni Maria Visconti e le Sestinn per el matrimoni del sur cont don Gabriel Verr con la sura contessina donna Giustina Borromea nel 1819 - oltre ad avere in comune il rifiuto del classicismo. Quando il Porta morì, Grossi lo ricordò con una breve biografia e con le sestine In morte di Carlo Porta, pubblicate nell'edizione del 1821 delle poesie di Carlo Porta.Il successo de La fuggitiva - dovuto al favore di cui godeva allora presso il pubblico borghese il genere sentimentale e avventuroso - stimolò nel 1820 il Grossi a scrivere in italiano un'altra novella in 326 ottave, Ildegonda. Ambientata in un medioevo di maniera, è la vicenda dell'amore di Ildegonda, contrastata dal padre e dal fratello, per il nobile cavaliere Rizzardo; Ildegonda muore in un convento.Il poema storico nazionale I Lombardi alla prima crociata, del 1826 (in cui Grossi tentò, pur senza sortire l'effetto sperato, di effettuare una sorta di "rivisitazione", secondo i propri intendimenti più scorrevole e aggiornata, della Gerusalemme liberata di Tasso) che con le sue 3500 copie risultò l'opera letteraria con più alta tiratura del tempo e che ispirò, alcuni decenni più tardi, il melodramma omonimo di Giuseppe Verdi (1843).Poi si dedicò al romanzo storico Marco Visconti (1834) che ebbe subito delle traduzioni in francese, inglese, tedesco e spagnolo. Nel 1838 dopo il matrimonio si dedicò alla professione di notaio e lasciò la letteratura. Nel 1848 stese l'atto ufficiale della fusione tra Piemonte e Lombardia in seguito alla prima guerra di indipendenza. Morì a Milano per una meningite il 10 dicembre 1853.

sabato 11 febbraio 2012

LA SCOMPARSA DI MARIA ROSARIA DE STEFANO NATOLI


La notizia della morte di Maria Rosaria De Stefano Natoli, poliedrica artista e figlia dell’On Salvatore Natoli Sciacca, avvenuta qualche giorno addietro a Messina,  ha profondamente addolorato quanti hanno avuto la fortuna di conoscerla ed apprezzarne le doti culturali ma anche umane. Era nata a Reggio Calabria e si laureò in Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Messina. Quindi la specializzazione a Firenze, in Restauro e Conservazione. Si occupò di molteplici argomenti e studi, scrisse articoli e nel 2010 diede alle stampe un bellissimo libro dal titolo eloquente “LA NAZIONE CHE NON FU”, scritto a quattro mani col l’On. Salvatore Natoli Sciacca, sul tema scottante della nascita della nostra Italia, con la Sicilia che, a suo dire, fu praticamente conquistata. Una microstoria taciuta per tanti anni e che con il suo certosino lavoro di ricerca insieme al padre, ha portato alla luce. E l’impegno meridionalista è continuato anche di recente, come testimoniato dal suo ultimissimo articolo dedicato al “Movimenti dei Forconi”, che potete leggere qui di seguito.
Tutta l’equipe dell’Associazione Culturale Sindacale e Sportiva “Giuseppe Garibaldi” partecipa al lutto delle famiglie De Stefano/Natoli Sciacca.
IL PRESIDENTE
C.Cicero

 “Il Movimento dei Forconi” .
“Entro la mezzanotte di oggi (venerdì 20) gli autotrasportatori dell’Aias dovranno decidersi a sciogliere i blocchi per consentire il rifornimento di carburante e generi di prima necessità, ormai introvabili in tutta l’isola. In caso contrario interverranno le forze dell’ordine.
D’altra parte, ciò non significa che questa “rivoluzione” made in Sicily terminerà all’ improvviso: il coordinamento di Forza D’ Urto ha annunciato di voler continuare a tutti i costi la sua lotta, con modi e tempi ancora tutti da decidere. Ma gli animi sono tutt’altro che distesi e la tensione è ancora alle stelle.
“La protesta non si fermerà in alcun modo – precisa il presidente Aias Giuseppe Richichi – siamo pronti ad affrontarne le conseguenze. Fino ad ora abbiamo avuto delle risposte insoddisfacenti, non c’è alternativa allo sciopero ad oltranza”.
Non è la prima volta che nella Storia della Sicilia si verificano “sommosse”  che rivendicano diritti sacrosanti, diritti previsti dallo Statuto Autonomista ma che per insipienza e servaggio politico  di una classe dirigente occupata a salvaguardare le miserabili sicurezze da accattoni ,quando non a sostenere poteri occulti  cui la Sicilia risolta non serve , non vengono esercitati.
L’ultima “rivoluzione” del  1800, quella dei Fasci Siciliani un movimento che chiede  riforme,  fiscali ed un  radicale mutamento  nell’ambito agrario è stata un tentativo di riscatto di una classe sociale che prende coscienza di essere classe produttiva.. I fasci dei lavoratori siciliani sono stati l’ultima battaglia di un secolo  già teatro sia di una primavera dei popoli, sia di sanguinose e aspre repressioni.
I fasci dei lavoratori preoccupano  molto i grandi proprietari terrieri ,che in quella occasione chiedono a Crispi un intervento straordinario per soffocare le iniziative di quanti  protestano per avere “migliori condizioni salariali e nuovi patti colonici In questo contesto ,l’allora, Presidente del Consiglio Francesco Crispi. siciliano, ex garibaldino,patriota e rivoluzionario, ascolta le sole istanze dei possidenti, ed adotta la linea dura con un intervento militare.
I Fasci Siciliani del  1891 e il Movimento dei Forconi nel 2012  hanno più di qualcosa in comune  come un ricorso storico , suggeriscono ,piuttosto,una lectio da imparare:la Rivoluzione non può essere un atto di passione  impulsivo ed estemporaneo  deve essere un’azione meditata e non  iniziata a margine di un bisogno ancorché sacrosanto : I Movimenti di lotta  devono esplicarsi per obbligare Roma a perfezionare  lo Statuto , il solo strumento che attuato in ogni parte consentirà il riscatto dei Siciliani liberi, oltre questo c’è solo arbitrio, il cui esito può essere soltanto la repressione soffocata nel sangue e ancora una volta sarà il sangue dei Siciliani ad essere versato nelle strade.Non mi piace l’aria di sufficienza di Bruno Vespa né quella di un tale con la faccia da Guercio che ieri sera mentre i siciliani del movimento dei Forconi , tentavano di intervenire e spiegare le ragioni del blocco , ridacchiavano con un fare insopportabile..Mi rendo conto che i Siciliani in questione,  non abituati ai riflettori e ai microfoni ,avessero difficoltà di comunicazione e il portavoce del Movimento poteva risparmiarsi l’ironia ecologista , ma si sa che i siciliani sono ironici  e parlano pochissimo, sono riservati e per molti versi sono  poco comunicativi, ma non mi piace che gente serva del potere salga in cattedra e disprezzi i contenuti perché non confezionati in bella forma.Le istanze rivendicate dai Siciliani sono giustissime, non capiamo perché in Val D’Aosta la benzina costi meno che in Sicilia , non comprendiamo perché le politiche europee privilegino il nocciolo turco invece che siciliano, perché limitino le estensioni di coltura del grano e per il nostro fabbisogno dobbiamo comprare il grano canadese. Ho letto su vari quotidiani che il Presidente siciliano di Confindustria sarebbe preoccupato  per eventuali infiltrazioni mafiose :i peggiori nemici dei Siciliani liberi sono i Siciliani servi dei poteri politici centrali, occorrerebbe ricordare a questo signore e ad altri della sua specie che loro sono coloro cui pecunia non olet… a buon intenditor..Siamo stufi  che gente di sangue siciliano remi contro il proprio popolo e contro il proprio epos.
E’ la storia di sempre i siciliani che si ribellano sono sempre mafiosi e briganti mentre gli altri sono combattenti e rivoluzionari.
Maria Rosaria De Stefano Natoli

Jacopo Ruffini


Jacopo Ruffini nacque a Genova il 22 giugno 1805 da Bernardo ed Eleonora Curlo nella casa di proprietà Brignole situata nell’antica Strada Dritta al Molo (oggi Via delle Grazie, 13).
Per una curiosa coincidenza Jacopo nacque nello stesso giorno in cui a Genova in via Lomellini vedeva la luce il suo grande amico Giuseppe Mazzini.Jacopo era il quartogenito dei fratelli Ruffini poichè l’avevano preceduto Ottavio, Vincenzo e Carlo.Il padre di Jacopo, Bernardo, incrollabile monarchico e conservatore, era originario di Finalmarina.Si laureò in legge, appena ventenne, nell’ateneo genovese per poi stabilirsi col padre ed i fratelli nel capoluogo ligure dove arrivò a coprire la carica di vice presidente del Tribunale di Prefettura. Eleonora Curlo apparteneva invece alla famiglia dei nobili signori Curlo, originari di Taggia, ed era l’unica figlia ed erede del patrizio genovese Ottavio Curlo. Jacopo, dopo aver trascorso i primi anni della sua vita a Taggia ospite dello zio canonico, frequentò a Genova il Collegio Reale "della SS. Annunziata" tenuto dai padri somaschi.Nel 1819, Jacopo per volere del padre, abbandonò il Collegio Reale e fu dapprima commesso di commercio e poi praticante nello studio di un notaio.Poco portato a questa attività, il Ruffini si iscrisse in seguito alla facoltà di medicina dove, sotto la guida del professor Giacomo Mazzini (padre di Giuseppe), si laureò a pieni voti nel luglio del 1830. Nel maggio del 1831 troviamo Jacopo a Taggia, ma non conosciamo i veri motivi di quel viaggio repentino, anche se si può ipotizzare il tentativo di incontrarsi con Mazzini in partenza per la Francia o quello di incontrarsi con alcuni cospiratori dell’estremo ponente ligure. L’arrivo del giovane a Taggia turbò i sonni del generale conte Bernardo Morra di Laviano, governatore di Nizza, che lo sottopose ad una sorveglianza rigidissima finche non ne poté disporre il rientro obbligato a Genova.Pochi mesi dopo questa parentesi, nel dicembre 1831, Jacopo vinse un concorso per assistente medico sopranumerario all’ospedale di Pammatone.Da qui fino alla morte non abbiamo più notizie, ma è facile intuire che il giovane mazziniano gettò ogni energia negli ideali della Giovine Italia.L’adesione alla "GIOVINE ITALIA"Nel 1829, auspice Mazzini, il Ruffini si affiliò alla Carboneria.L’anno seguente scoppiava in Francia la rivoluzione di luglio che portò al trono Luigi Filippo e fece sobbalzare tutta l’Europa di commozione.In Piemonte cominciarono i primi arresti: la mattina dell’11 novembre Giuseppe Mazzini, che ritornava dalla sua villa di Posalunga a Bavari, veniva arrestato e rinchiuso nella fortezza di Savona, da dove uscì il 2 febbraio 1831.Intanto le pesanti e puerili persecuzioni poliziesche e l’amara delusione provata dopo l’avvento al trono di Carlo Alberto, salutato dapprima con vivo entusiasmo dai liberali, poi rivelatosi artefice di una politica incerta, spinsero Jacopo sulla via della cospirazione.Nello stesso tempo in cui Jacopo Ruffini assumeva il suo servizio di assistente all’ospedale di Pammatone, un capitano della marina mercantile recava da Marsiglia a Genova il piano particolareggiato della Giovine Italia, l’associazione nazionale, foggiata sull’Eteria greca, che Mazzini aveva ideato nella fortezza di Savona. Jacopo radunò nell’appartamento abitato dalla sua famiglia il gruppo dei più fidi amici di Mazzini e cioè il fratello Giovanni, il dottor Napoleone Ferrari di Porto Maurizio, Federico Campanella, compagno di studi di Giovanni ed il marchese G.B. Cambiaso.Dopo aver esposto il piano di Mazzini, egli dichiarò che bisognava contare sul proprio coraggio, sulla devozione incrollabile alla grande causa dell’indipendenza nazionale.I compagni ad una voce lo acclamarono loro capo ed Jacopo accettò, ma, come presagendo il prossimo martirio pronunciò queste parole:"Io ho il presentimento che a pochi di noisarà concesso di vivere tanto da vedere il fruttodelle nostre fatiche;ma il seme sparso germoglierà dopo di noi,ed il pane che avevamo gettato sopra le acquesarà trovato".L’arresto e la morteJacopo Ruffini fu l’anima di quella vasta trama che avrebbe dovuto provocare un moto insurrezionale a Genova ed in Alessandria nel giugno del 1833.Arrestato nella notte dal 13 al 14 maggio, Jacopo fu rinchiuso nella Torre di Palazzo Ducale che fungeva da prigione di stato e sottoposto a lunghi e tormentosi interrogatori che durarono un mese. Per lungo tempo si è creduto che il delatore che portò Ruffini in carcere fosse il dottor Giambattista Castagnino, suo amico e collega, ma da studi più approfonditi degli atti processuali si è scoperto che gli accusatori furono due furieri di fanteria: Sebastiano Sacco e Lodovico Turffs.Nella notte dal 18 al 19 giugno, alle due di notte, i guardiani delle carceri, facendo la consueta visita alla segreta dove il Ruffini era rinchiuso, lo trovarono steso a terra immerso nel proprio sangue.La tesi del suicidio non ha però mai convinto del tutto.Jacopo Ruffini era destinato, come capo dei cospiratori, al patibolo, ma questo avrebbe dato ulteriore spinta ai moti insurrezionali.La soluzione dell’omicidio ben mascherato da suicidio consentiva di liberarsi del capo dei cospiratori offrendo inoltre all’opinione pubblica l’immagine di un vile che si era tolto la vita.


venerdì 10 febbraio 2012

William James Linton


Londra 1812 - New Haven, Conn. 1897
Pittore e incisore aderì al movimento cartista e alle correnti radicali inglesi. Linton ebbe contatti e rapporti con vari personaggi del movimento democratico europeo soprattutto negli anni immediatamente precedenti il 1848 e negli anni '50. Nel  triennio 1846-1848 fu il segretario della "People's International League" e si mantenne in stretto rapporto con Giuseppe Mazzini, con l'emigrazione democratica polacca a Londra e con Alexander Herzen. Fu il fondatore e direttore del periodico "The English Republic" (1851-1855).

Il Risorgimento italiano


Indica il movimento italiano che ebbe come risultato l'indipendenza dell'Italia e la costituzione di uno stato unitario. Ebbe la sua origine nella diffusione dei principi liberali e nazionali in tutta Europa, a seguito della Rivoluzione francese, prima sotto forma di movimento segreto (carboneria) con l'organizzazione di una serie di moti (Napoli, 1820; Piemonte, 1821; Modena e Bologna, 1831) con lo scopo di liberarsi dagli invasori e costringere i sovrani a concedere la costituzione. Questi fatti storici trovano la loro radice nei concetti illuministici di fine Settecento, espressi nella cultura italiana da Parini e da Alfieri. La Giovine Italia, costituita da Mazzini, ebbe invece lo scopo di guidare all'insurrezione il popolo intero al fine di conseguire la libertà e l'unità Repubblicana della nazione. Questo movimento contribuì alle insurrezioni di Milano, Venezia e della repubblica romana (1848 - 1849) e costituì il prodromo alle vicende garibaldine.  Politicamente la svolta fu operata da Cavour nel 1852 che seppe tessere alleanze internazionali per porre i Savoia a capo del movimento nazionalista e attribuire al Piemonte l'autorità per imbrigliare le forze repubblicane e rivoluzionarie di Mazzini e Garibaldi. Dopo la vittoria della seconda guerra di indipendenza (1859) e i plebisciti per annettere al Piemonte l'Italia centrale (1860), la spedizione garibaldina consentì l'annessione del mezzogiorno e di parte dello stato pontificio. Nel 1861 fu costituito il regno d'Italia guidato da Vittorio Emanuele II. L'annessione del Veneto e di Roma (terza guerra di indipendenza, 1870) completò il processo unitario, anche se gli interventisti considerarono la prima guerra mondiale come la vera conclusione del risorgimento.
 Al Risorgimento fu dedicata l'emissione di dodici valori nel 1948, in occasione del centenario della prima guerra per l'indipendenza.

giovedì 9 febbraio 2012

Augusto Elia


Augusto Elia (1829 – 1919), militare e politico italiano.
Nato in Ancona il 4 settembre del 1829 e figlio d'un marinaro, Elia volle fin dalla tenera età di nove anni intraprendere esso pure la carriera del mare incominciando ad esercitarla da mozzo e percorrendola tutta, fino a diventare Capitano di lungo corso.Nei suoi viaggi più volte gli era occorso di entrare in relazione con patrioti italiani; nei loro discorsi aleggiava già la fulgida figura di Giuseppe Garibaldi. Si sentivano entusiasmati dal racconto delle eroiche azioni da lui compiute nell'America del Sud, ne apprendevano i particolari con avidità e ne facevano prezioso tesoro. Era tutta un'epopea che vedevano svolgersi intorno all'eroe, e loro sembravano omeriche gesta quelle compiute in difesa della piccola repubblica dell'Uraguay invasa dalle truppe del terribile Rosas, e fra le altre, la campagna del Paranà combattuta da Garibaldi con tre piccoli legni, male armati, contro tutta la flotta Argentina comandata dall'Ammiraglio Brown; e particolarmente il combattimento di Nuova Cava decantato quale uno dei più brillanti fatti navali.

martedì 7 febbraio 2012

IL COMANDANTE GARIBALDINO NINO BIXIO PASSO' DA GELA NEL 1860


     Molti sono i vuoti che si possono riscontrare nella plurisecolare storia di Gela; per esempio è classico quello di più di mille anni che va dalla distruzione dell'antica Gela del 282 a.C. alla fondazione di Terranova del 1233. Ma non è il solo. Come dicevamo, ce ne sono tanti altri vuoti e di essi colpisce maggiormente il fatto che spesso riguardano la storia più recente di Gela come, ad esempio, quella inserita nel contesto della liberazione Garibaldina della Sicilia dall'oppressore borbonico. Ci chiediamo: la città di Gela (allora Terranova) che ruolo ebbe, ammesso che l'abbia avuto, nell'epopea garibaldina? Chi scrive, nel 1990 ebbe la possibilità di riportare diverse notizie in merito in una pubblicazione ("Appunti su Terranova di Sicilia, vol.II) grazie al ritrovamento nel locale archivio storico comunale di una serie di carteggi assolutamente inediti relativi ai moti risorgimentali gelesi del 1848 e del 1860. Quanto scritto allora e quanto ricavato recentemente da un periodico stampato a Torino ("Specchio della Stampa", n.38 del 12 ottobre di quest'anno, messoci a disposizione da Rocco Cerro direttore di questo giornale), dove su una cartina geografica della Sicilia viene riportato il tragitto dei garibaldini, oggi ci mette in condizione di rispondere con una certa sicurezza alla suddetta domanda. Possiamo sicuramente affermare che Gela diede un contributo non indifferente all'epopea garibaldina e non solo in termini di vite umane. Leggiamo infatti nel suddetto periodico torinese che dopo la liberazione di Palermo i garibaldini si divisero in tre gruppi; uno di questi, guidato dal Comandante Nino Bixio e con la presenza di Menotti figlio di Garibaldi, il 6 di giugno del 1860 si diresse prima verso Agrigento e poi a Gela per ricongiungersi successivamente agli altri garibaldini alle porte di Catania, ancora sotto il dominio di imponenti forze napoletane. Ma Bixio perchè si diresse e si fermò a Gela per tagliare poi direttamente verso Catania, senza continuare nel siracusano come era nelle sue previsioni? Dalla consultazione di una serie di dispacci e corrispondenze (tratti da una pubblicazione del 1913 edita a Palermo da Francesco Guardione dal titolo "I Mille") tra i comandanti supremi del regno borbonico e le navi di guerra che operavano lunghe le coste della Sicilia sud-occidentale si apprende che a Gela già da diversi giorni prima della venuta di Bixio eistevano dei "movimenti rivoltosi", che richiesero addirittura l'intervento del Maresciallo Afan de Rivera il quale al comando di una nave di soldati borbonici sbarcò nella nostra rada alle ore 10 di sera del 20 maggio 1860 per dare manforte agli uomini del locale presidio borbonico impegnati a sedare un principio di rivolta; nei suddetti documenti leggiamo pure che il"nominato maresciallo, rimase colà (cioè a Gela) tutta notte e parte del giorno appresso onde assodare le misure d'ordine pubblico adottate da quel Sotto Intendente". Gela dunque per la sue vicissitudini risorgimentali contro l'oppressore borbonico (ma anche perchè essendo Capodistretto dei comuni di Butera, Riesi, Niscemi e Mazzarino rappresentava anche un importante caposaldo politico della presenza borbonica) era una tappa obbligata per Nino Bixio anche perchè a Gela avrebbe avuto tra l'altro la possibilità di impinguare di volontari gelesi il suo contingente garibaldino: come in effetti è veramente accaduto; anzi non è azzardato avanzare pure l'ipotesi che la nostra città, ultima della costa ad essere toccata da Bixio prima della partenza per Catania, sia stata un punto di concentramento di volontari garibaldini provenienti dai paesi viciniori, anche se successivamente, durante il tragitto per Catania, la colonna di Bixio si fermò a Niscemi, Acate, Vittoria (forse pure Comiso e Santa Croce Camerina), Caltagirone e Palagonia per raccogliere ancora altri volontari: tale ipotesi  trova conforto nella cifra ufficiale di circa 20.000 garibaldini siciliani che parteciparono all'epopea dell'Eroe dei due Mondi per liberare la Sicilia e per l'Unità d'Italia. Il fatto poi che Bixio non abbia proceduto nella maggior parte del rimanente territorio siracusano (allora la provincia di Ragusa non era stata ancora istituita) si spiega con la presenza in esso di consistenti truppe borboniche che sicuramente avrebbero rappresentato un grosso pericolo per la colonna garibaldina ancora in via di formazione.