/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": 2013

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venerdì 27 dicembre 2013

Albini Giovanni Battista

Conte, nacque a La Maddalena il 20 sett. 1812, da Giuseppe: nel 1826, uscito giovanissimo dicollegio, entrò al servizio della marina da guerra del Regno di Sardegna. Nel 1848, agli ordini del padre ammiraglio, partecipò alle operazioni nell'Adriatico, al comando di una corvetta; l'anno dopo fu inviato a Oporto, a rilevare la salma di re Carlo Alberto. Partecipò alla spedizione di Crimea nel 1855-56; nel 1859, col grado di capitano di vascello, alla campagna dei Franco-Sardi in Adriatico, e nel 1860 alla spedizione di Sicilia della squadra sarda, che, guidata dal Persano, seguiva l'azione di Garibaldi. Subito dopo, prese parte alle operazioni della flotta sarda contro la piazza di Ancona, al comando della fregata Vittorio Emanuele. Fu l'unico ad appoggiare l'ardito piano del Persano di attaccare i forti a specchio del mare, e il 3 ott. 1860 realizzò un nuovo metodo di bombardamento navale in movimento, portandosi con la sua nave a brevissima distanza dalla Lanterna e riuscendo, col preciso fuoco delle sue artiglierie, a far saltare in aria la polveriera, ciò che contribuì in modo decisivo alla resa della piazzaforte. Per tale azione gli fu concessa la medaglia d'oro al valor militare. Sempre in sottordine al Persano, combattè anche nelle azioni del Garigliano e di Mela di Gaeta, ottenendo, in ricompensa del valore dimostratovi, la croce di commendatore dell'Ordine Militare di Savoia.Nel 1861, dopo lo scioglimento della squadra d'operazione del Persano, l'A. comandò la divisione navale della Sicilia, che era la più importante forza navale del Regno rimasta armata: le unità della divisione svolsero, tra l'aprile e l'ottobre 1861, compiti di ordine pubblico, effettuando numerose crociere di protezione del traffico marittimo, insidiato dalla pirateria costiera.Nell'agosto 1862, egli era al comando della squadra d'evoluzione nelle acque siciliane, mentre Garibaldi preparava nell'isola la spedizione contro Roma, che doveva concludersi all'Aspromonte. L'A. aveva avuto ordine d'incrociare nello stretto, per impedire a Garibaldi di passare in Calabria, ma condusse le cose senza sufficiente decisione, lasciandosi giocare da lui.Egli aveva proposto a Garibaldi, dietro suggerimento proveniente dall'alto, di lasciar cadere l'impresa e d'imbarcarsi su una fregata della flotta: il generale finse di aderire, e indicò Acireale come luogo d'imbarco, ma, invece, entrò a Catania, donde passò in Calabria. In seguito a ciò, i comandanti di due fregate che dipendevano dall'A., Giraud e Avogadro, furono arrestati e deferiti a un consiglio di guerra.Nel 1864 l'A. comandò, col grado di viceammiraglio, la squadra italiana che, col pretesto di proteggere il bey di Tunisi dai moti scoppiati all'interno della Reggenza, effettuò dal maggio al settembre una lunga stazione navale nelle acque della Tunisia, dove erano presenti anche forze navali francesi, inglesi e turche. La stazione navale italiana si trovò coinvolta nel gioco delle rivalità anglo-francesi, che dominarono lo svolgersi degli eventi, e l'A. condusse anche un'importante azione politica.Seguendo le direttive del governo, in un primo tempo egli agì di conserva con i Francesi, per cercar poi di effettuare lo sbarco di un corpo italiano nella Reggenza di Tunisi: tramontate le speranze di metter piede in Tunisia, l'A. si sforzò di favorire la liquidazione della questione, in modo da salvare il prestigio italiano.Durante la seconda fase della stazione navale, in concomitanza con il tentativo del governo italiano d'inserirsi come terzo tra Francia e Inghilterra, l'A. preparò un proprio progetto di sbarco e di occupazione militare della Tunisia.In esso sosteneva la necessità d'impiegare oltre ìo.ooo uomini dell'esercito; più le compagnie da sbarco della squadra, per eseguire un'operazione in grande stile, che prevedeva l'occupazione di Tunisi; di Susa e di Sfax, nonché di altri centri. Il progetto dell'A. si contrapponeva a quello del maggiore Ricci, inviato all'uopo sul posto dallo Stato Maggiore dell'esercito, che consigliava, invece, l'impiego di 4.000 uomini per un'operazione limitata alla zona di Tunisi. Durante la stazione navale di Tunisi, lo Stato Maggiore della marina e il governo italiano furono informati anche delle grandi possibilità che offriva Biserta a chi avesse potuto insediarvi una importante base navale: le notizie in proposito furono carpite a un ufficiale inglese che comandava il Firefly, una nave destinata a rilevamenti idrografici, dal comandante Racchia, dipendente dall'Albini.Nel luglio 1866, con il grado di vice-ammiraglio, l'A. comandò la squadra delle navi di legno (7 fregate e 3 corvette), che doveva operare lo sbarco delle truppe italiane nell'isola di Lissa. La sua condotta poco decisa contribuì al fallimento dell'attacco all'isola il 18 e il 19 luglio: la mattina del 20, quando la squadra austriaca al comando del Tegetthoff giunse nelle acque di Lissa, la squadra di legno italiana era in procinto di ritentare lo sbarco e non partecipò alla battaglia, prestando il fianco a molte critiche.Non furono mai chiari i motivi della passività della formazione comandata dall'A. durante la battaglia: se la rapidità con cui si svolse lo scontro, o l'inefficienza delle navi di legno, o le rivalità personali tra l'A. e il Persano, comandante in capo della flotta, o, ancora, la mancata ricezione dei segnali. Certo è che la condotta dell'A. nella campagna di Lissa non fu in complesso favorevolmente giudicata.Privato nel possesso del comando, fu collocato a riposo nel 1867. Morì a Cassano Spinola apr. 1876.

sabato 21 dicembre 2013

Spech Eliodoro

Spech Eliodoro Milano, 1810 – Molfetta, 1866
Cantante e militare, da Garibaldi fu detto Specchi. Era stato soldato nella prima legione bolognese nell'aprile del 1848, fu poi caporale al servizio della Repubblica romana nel 1849. Successivamente ufficiale dei bersaglieri nell'esercito sardo, si dimise nel 1860 e partì volontario per la Sicilia con la spedizione Cosenz. Rinomato tenore, alla Scala di Milano riscosse clamorosi successi tra il 1839 e il 1842, in particolare come interprete nell'Italiana in Algeri, nel Roberto Devereux, nel Nabucco e nella Figlia del Reggimento.

giovedì 12 dicembre 2013

Niccolini Giovanni Battista

Bagni di San Giuliano (Pisa), 1782 – Firenze, 1861
Tragediografo. Repubblicano da giovane, fu sempre liberale e anticlericale. Insegnò dal 1807 all'Accademia di belle arti di Firenze. Il nome di Niccolini è affidato essenzialmente alle tragedie, specie alle politiche: Polissena (1810), Nabucco (1819), in cui intese raffigurare Napoleone, Antonio Foscarini (1827), Giovanni da Procida (1839), Arnaldo da Brescia (1843), Filippo Strozzi (1847). Classicista quanto alla poetica, si lasciò sempre più permeare da spiriti romantici. La sua opera ebbe rilievo per l'energica propaganda civile e per l'ispirazione.

lunedì 2 dicembre 2013

Antonelli Giacomo

Antonelli Giacomo
Sonnino (Latina), 1806 – Roma, 1870Nato da una famiglia di modeste origini, arricchitasi poi in fortunate speculazioni immobiliari.Mandato a Roma dal padre Domenico, che desiderava avviarlo, nonostante la sua scarsa propensione per la vita ecclesiastica, ad una carriera nell'amministrazione pontificia, compì gli studi umanistici al Collegio romano e quelli di diritto alla Sapienza.Nel 1830, avuti dal padre i fondi richiesti per l'ingresso nella Prelatura iustitiae, iniziò la carriera curiale nella giustizia amministrativa, e nel 1834 passò come assessore al tribunale criminale di Roma.L'acume, il senso pratico e i modi eleganti avevano presto attratto sul giovane Antonelli l'attenzione di prelati influenti, in particolare dei cardinali Zurla e Lambruschini, che ne favorirono la rapida ascesa. Nominato nel 1845 protesoriere della Camera apostolica e poco dopo tesoriere generale, concluse felici operazioni finanziarie.Creato cardinale da Pio IX l'11 giugno 1847, fu chiamato nel novembre dello stesso anno alla presidenza della Consulta di Stato, ed ebbe un ruolo di rilevo nell'elaborazione dello Statuto. Il 10 marzo 1848 Pio IX lo pose poi col titolo di prosegretario di Stato alla testa del primo ministero incaricato di mettere in opera la nuova costituzione.Incline, in un primo tempo, ad assecondare il movimento che premeva per l'intervento delle truppe pontificie in Lombardia a fianco dell'esercito piemontese, cambiò successivamente indirizzo alla politica pontificia, sull'onda anche delle notizie che riceveva dai nunzi apostolici in Austria e in Baviera riguardo alla forte avversione delle popolazioni tedesche per il papa, che con la decisione di partecipare alla prima guerra d'indipendenza italiana era venuto meno al suo ruolo di suprema autorità della Chiesa universale.Si giunse così alla celebre allocuzione di Pio IX il 29 aprile 1848, in cui il papa respingeva il tentativo di portare lo Stato pontificio a muovere guerra contro l'Austria. Dimessosi dopo l'allocuzione papale, Antonelli continuò a svolgere un ruolo di primo piano presso Pio IX.Fu alla sua influenza che si dovette la nomina di Pellegrino Rossi a primo ministro; dopo il suo assassinio, il 15 novembre del 1848, fu sempre lui a manovrare perché il pontefice si decidesse a fuggire da Roma per sottrarsi alla pressione popolare e, contro il parere di Rosmini, a restare a Gaeta e a non rifugiarsi presso la corte di un sovrano cattolico.Alla proclamazione della Repubblica romana (1849), Antonelli chiese l'intervento militare degli Stati fedeli al papa per ripristinare il suo potere temporale.Posto, il 26 novembre del 1849, a capo del governo pontificio con il titolo di prosegretario di Stato, rifiutò, dopo il rientro a Roma di Pio IX nell'aprile 1850, qualsiasi concessione costituzionale, mettendo a punto una serie di riforme amministrative, ma non di carattere strutturale.Ormai, convinto dallo sviluppo degli avvenimenti che era vano tentare una laicizzazione e una liberalizzazione, sia pure parziali, del governo dello Stato pontificio e che l'autonomia del papa, in quanto capo della Chiesa universale, sarebbe stata garantita solo dal ritorno a un regime teocratico, Antonelli mantenne il suo intransigente indirizzo politico lungo i vent'anni in cui rimase sulla grande scena diplomatica europea.La sua politica, se nella prima fase procurò alla Santa Sede vantaggi notevoli (influenza sulla Francia di Napoleone III, concordato del 1851 con la Toscana, del 1855 con l'Austria), fallì di fronte alle aspirazioni nazionali italiane, alle quali Antonelli oppose sempre il principio di legittimità formulato al Congresso di Vienna, escludendo qualsiasi possibilità di un compromessoDopo il Concilio Vaticano del 1870, la sua condotta suscitò inoltre violente reazioni anche all'estero: Kulturkampf in Germania, denuncia del concordato in Austria. Accusato da più parti di nepotismo e di aver privato il Sacro Collegio di ogni influenza reale sugli affari di Stato, dopo il 1870 respinse, d'accordo con il papa, la legge delle guarentigie e intraprese una riorganizzazione finanziaria della Santa Sede, ottenendo la restituzione dei cinque milioni dell'obolo di San Pietro.Da tempo sofferente di gotta e aggravatosi per una complicazione alla vescica, si spense a Roma nel novembre 1876.


venerdì 29 novembre 2013

Winspeare David

Portici (Napoli), 1775 – Napoli, 1847
 Giurista e filosofo. Discepolo di Genovesi, funzionario della monarchia borbonica fu poi membro e procuratore generale della Commissione feudale. Di quell'attività e dei suoi studi storico-giuridici resta tra gli altri la Storiadegli abusi feudali (Napoli 1811), dedicata Murat. Nominato nel 1812 avvocato generale presso la Corte di cassazione, fu destituito ed esiliato da Ferdinando I per aver accompagnato a Trieste Carolina Murat (1815). Rientrato a Napoli, nel 1820 fu membro della Giunta provvisoria di governo; ma nel 1821 tornò all'avvocatura, che lasciò del tutto nel 1834. Tra il 1843 e il 1846 pubblicò i Saggi di filosofia intellettuale.

domenica 24 novembre 2013

Zurlo Giuseppe

Baranello (Campobasso), 1757 – Napoli, 1828
 Conte. Uomo politico. Allievo di Filangieri, fu giudice della Gran corte della Vicaria, avvocato fiscale del Reale patrimonio, direttore della Finanza (1798); al ritorno dei Borboni, resse il ministero delle Finanze (1800-03). Durante il decennio francese fu consigliere di Stato (1808), ministro della Giustizia (1809) e infine ministro dell'Interno fino al 1815. Esiliato al ritorno di Ferdinando IV, poi riammesso nel Regno, nel 1820 fu nominato ministro dell'Interno del governo costituzionale. Studioso di problemi economici, nel 1790 aveva pubblicato un'opera sulla Sila, nella quale aveva cercato di determinare le ragioni che rendevano passivo quel vasto territorio della Corona.

domenica 17 novembre 2013

ORSINI, Vincenzo Giordano

ORSINI, Vincenzo Giordano. – Nacque a Palermo il 14 gennaio 1817 da Gaetano, ufficiale dell’esercito borbonico, e da Maddalena Mazzeo.Iniziò giovanissimo la carriera militare. A poco più di dieci anni, nel novembre 1828, entrò nel Real Collegio della Nunziatella a Napoli. Si graduò come alfiere di artiglieria nel gennaio 1837 (era stato in quel tempo anche paggio di corte). Negli anni Quaranta, con altri suoi colleghi, si avvicinò alle idee rivoluzionarie, condividendo un percorso comune a molti meridionali che dal collegio erano entrati nell’esercito e si erano formati anche una propria coscienza politica.Quella generazione della Nunziatella seguì percorsi opposti nella crisi del 1848 e negli anni successivi: colleghi come Carlo Pisacane e Francesco Carrano diventarono punti di riferimento del movimento nazional-patriottico italiano, altri, di converso, come Francesco Traversa e Matteo Negri, furono simboli dell’estrema resistenza del Regno napoletano. Orsini e gli altri rappresentarono un segmento di quella frattura interna alle élite duosiciliane che contribuì all’implosione dello Stato meridionale.All’inizio del 1848 Orsini fu arrestato con il commilitone Giacomo Longo perché accusato di simpatizzare per l’opposizione, ma fu subito liberato, essendo esplosa l’insurrezione palermitana. Il giovane ufficiale fu immediatamente coinvolto nel gruppo dirigente liberale, iniziando l’apprendistato del rivoluzionario ottocentesco: assunse la direzione della costruzione di barricate in città, poi guidò l’assalto allo strategico forte di Castellammare. La sua formazione, unita alla scarsezza di quadri preparati, lo portarono ai vertici dell’apparato militare dei ribelli. Fu nominato direttore generale dell’artiglieria isolana e subito dopo comandante della divisione di Catania e di Messina.Non fu un caso isolato. Molti ufficiali napoletani seguirono il vecchio generale Guglielmo Pepe alla difesa di Venezia, o parteciparono alle rivolte locali nel Regno. Si trattò però di una minoranza nell’armata borbonica: l’accordo, quasi completo, tra i liberali e i militari negli anni Venti era stato spezzato da Ferdinando II a vantaggio della dinastia.Orsini partecipò alla campagna contro le forze regolari comandate dal vecchio generale napoleonico Carlo Filangieri, mostrando autentiche capacità militari nella direzione dell’artiglieria che difese Messina. Il drammatico assedio posto dalle truppe napoletane terminò con la resa della città nel settembre 1848. Poco tempo dopo, crollata l’intera resistenza siciliana, il giovane rivoluzionario fuggì dall’isola. Condivise la sorte di buona parte dell’élite liberale meridionale che, come i predecessori del 1821, si rifugiò nelle capitali europee o nel Mediterraneo. Si ritrovò così in un mondo dove circolavano uomini e idee: avventurieri, mercenari o esuli politici si muovevano da una parte all’altra del Mediterraneo e dell’Atlantico. Raggiunse Istanbul e si arruolò nelle forze di sicurezza imperiali, ottenendo il grado di colonnello di artiglieria (con il nome di Osman Bey), ma subendo anni dopo l’accusa di essersi convertito alla religione islamica. Iniziata la guerra fra l’Impero russo e quello turco con i suoi alleati franco-inglesi, raggiunse la Crimea insieme al corpo di spedizione ottomano. Nella penisola, al centro delle operazioni belliche, partecipò con successo all’intera campagna, operando anche come ufficiale di collegamento con gli alleati.Nel 1859, raggiunse il Piemonte, dopo che la politica del conte Camillo Benso di Cavour aveva dato inizio al tumultuoso biennio unitario. Quando partì la spedizione di Giuseppe Garibaldi per la Sicilia, era tra i Mille. Fu messo al comando della 2ª compagnia e poi della raffazzonata artiglieria garibaldina; formazioni che guidò nella battaglia di Calatafimi. Pochi giorni dopo, svolse un ruolo decisivo nella presa di Palermo.Gli fu affidato un piccolo reparto che doveva condurre una manovra diversiva e attrarre l’attenzione del corpo scelto del maggiore borbonico Ferdinando Beneventano del Bosco, in modo da lasciare aperta a Garibaldi la strada per la città. La manovra riuscì: contribuì a determinare il successo della rivoluzione a Palermo e la definitiva affermazione delle camice rosse nell’isola. Si trattò di un piccolo, ma cruciale episodio che fu immortalato in tutta la mitografia patriottica risorgimentale.Orsini era ora tra gli uomini più considerati da Garibaldi: fu nominato responsabile del dicastero della Guerra a Palermo e fu promosso generale.In quelle settimane, nell’esercito meridionale, si ritrovò quasi tutta la frazione degli ufficiali napoletani che nel 1848 avevano scelto la rivoluzione, fra i quali: Enrico Cosenz, Teodoro Pateras, Moisé Maldicea, Camillo Boldoni. Questi uomini completarono un percorso generazionale e diventarono uno dei pilastri del volontariato politico-militare, combattendo un sanguinoso conflitto civile contro gli ex colleghi della Nunziatella e dell’esercito napoletano che restarono invece fedeli alla dinastia borbonica.Garibaldi aveva ormai occupato gran parte della Sicilia. Orsini lasciò il governo per organizzare un vero e proprio corpo di artiglieria che, a differenza di altri reparti, poté contare su un cospicuo numero di disertori napoletani, e con il quale partecipò allo scontro di Milazzo. Nelle settimane successive fortificò Messina, assediando la cittadella dove si erano concentrati, come nel 1848, alcuni battaglioni lealisti. Nell’agosto 1860, portò i suoi uomini in Calabria e a Napoli. Le batterie garibaldine ebbero un ruolo importante nella battaglia del Volturno e poi nell’assedio di Capua. Le due occasioni gli valsero un riconoscimento da parte dei comandi regolari piemontesi che fu concesso a pochi altri ufficiali dei volontari.La vita di Orsini dopo l’Unità fu simile a quella di molti militanti meridionali, divisa fra l’impegno politico, l’attività intellettuale e il richiamo rivoluzionario. Il suo grado era stato confermato nell’esercito regolare, dove comandò la brigata Abruzzi e poi la brigata Pisa (1862-64). Inoltre, restò sempre legato a Garibaldi. Fu nel gruppo che compilò l’elenco ufficiale dei Mille, un altro caposaldo del mito risorgimentale. A Napoli, dove viveva, fu eletto consigliere comunale e assessore (1865-66). Rinunciò dopo poco tempo per diventare ispettore della guardia nazionale di Foggia. La sua principale attività era, infatti, quella militare. In vista della terza guerra d’indipendenza, ritornò in servizio, insieme ai reduci delle campagne garibaldine, nel Corpo dei volontari Italiani. Nell’estate del 1866 guidò una delle brigate del raggruppamento, partecipando ai combattimenti dell’offensiva italiana in Trentino. L’anno dopo, quando Garibaldi e i democratici tentarono il colpo di mano nello Stato pontificio, assunse la guida della colonna che si inoltrò nella campagna romana, gestendone poi il ripiegamento di fronte all’efficace reazione franco-papale.Negli ultimi anni di vita, abbandonata l’attività militare, si impegnò con energia soprattutto negli ambienti associativi e culturali. Fece parte di numerose società, che andavano da quelle dei reduci delle patrie battaglie ai sodalizi scientifici o di assistenza sociale. In quella stagione scrisse anche libri e opuscoli, spesso originali, sugli argomenti più vari: dagli studi sul prelievo fiscale alla riflessione sul progresso sociale fino all’applicazione di macchine motrici per le navi.Morì a Napoli il 7 luglio 1889.

venerdì 8 novembre 2013

Giuseppe Mazzoni

Giuseppe Mazzoni

(1808 – 1880)

Nacque a Prato da nobile famiglia e si laureò in giurisprudenza all'università di Pisa. Fu avvocato, uomo politico, filantropo e Gran Maestro della Massoneria italiana. Fino da giovane abbracciò gli ideali democratici e mazziniani.
Chiamato a far parte nel 1835 della pratese Accademia degli Infecondi, assunse poi iniziative politiche sempre più importanti. Ispirato dagli ideali risorgimentali, si fece promotore con l'amico Pier Cironi della sezione pratese della Associazione Nazionale.
Insieme ad Atto Vannucci, fondò il giornale L’Alba ed animò il “Circolo del popolo”, punto di raccolta di spiriti democratici. Eletto deputato al Consiglio Generale nel 1848, fu chiamato da Giuseppe Montanelli a ricoprire la carica di ministro di Grazia e Giustizia e degli Affari Ecclesiastici nel governo democratico costituito in ottobre.
L'anno successivo, insieme a Montanelli e Guerrazzi, fu acclamato triumviro, per reggere le sorti della Toscana dopo la fuga del Granduca. Con la restaurazione granducale, fu costretto all'esilio, prima a Marsiglia, quindi a Parigi ed infine a Madrid. Nei dieci anni trascorsi all’estero si legò a personaggi della Massoneria e, al suo ritorno in patria, fondò la loggia pratese Intelligenza e lavoro, dopo essere stato cooptato Gran Maestro.
Ebbe contatti col rivoluzionario anarchico russo Bakunin, cercando un'azione sociale comune tra il movimento anarchico e la massoneria. Eletto deputato nell'Assemblea Nazionale, assunse una linea politica antipiemontese, ispirata dalla delusione verso il moderatismo dello Stato unitario, cui contrapponeva una visione federalista.
Fu il fondatore di un Movimento Federalista, ispirato all'omonimo gruppo creato anni prima in Lombardia da Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari e di cui facevano parte studenti, artisti, garibaldini, ex-mazziniani. Vi aderì anche Alberto Mario, allievo di Cattaneo.
Deluso dalla politica, dedicò gli ultimi anni della sua vita ai destini operai e agli ideali massonici. Per la coerenza e l'intransigenza delle sue posizioni fu soprannominato il “Catone toscano”.


mercoledì 30 ottobre 2013

Cuneo Giovan Battista

(Oneglia, oggi Imperia, 1809 – Firenze, 1875)
 Patriota, marinaio di professione. Crebbe in un ambiente carico di fermenti rivoluzionari. Prese parte ai moti del 1833. Esule in America latina dal 1834, si rifugiò dapprima a Montevideo, dove fu in affari con Giacomo e Stefano Antonini, fratelli di Paolo, suo compagno di lotta.Giocò un ruolo importante nella divulgazione del pensiero mazziniano in Brasile e Uruguay. Ispiratore di Garibaldi, fu tra i principali esponenti della giovane generazione argentina, detta dei «proscritti», che in quegli anni lasciava Buenos Aires per sottrarsi alle persecuzioni del dittatore Rosas.Tornato in Italia nel 1849, fu deputato per un anno. Nel 1850 era di nuovo in Argentina. Tornò in Italia nel 1861. È sua la prima Biografia di GiuseppeGaribaldi (1850).

venerdì 18 ottobre 2013

La Cecilia Giovanni

(Napoli, 1801 – ivi, 1880Uomo politico e scrittore. Carbonaro, partecipò alla rivoluzione del 1820, e fu perciò arrestato e bandito dal Regno al trionfo della reazione.
Emigrato, strinse relazioni con Mazzini, e visse sino al 1847 fra la Toscana, la Corsica, Marsiglia, Tours e Parigi (dove pubblicò La Repubblica Partenopea). Tornato poi a Livorno, fu implicato nelle lotte politiche toscane; passò quindi a Napoli, dove ebbe una parte importante negli avvenimenti del 15 maggio 1848, dopo i quali si rifugiò a Roma e presso il governo democratico di Toscana.
Di nuovo esule (1849), pubblicò in Piemonte una serie di scritti politici e letterari. Dopo il 1859 abbandonò il movimento risorgimentale e fu accusato di trame filo borboniche (scrisse allora Storie segrete delle famiglie reali, in 4 volumi, 1859-1860 e Storia degli ultimi rivolgimenti siciliani, 1860-1861).

venerdì 11 ottobre 2013

Giuseppe Petroni

Bologna, 1812 – Terni, 1888
Patriota; membro (1832) della Giovine Italia e della setta degli apofasimeni, si diede poi (1845) all'avvocatura presso il Tribunale della Rota. Durante la Repubblica romana (1849) fu sostituto del ministro della Giustizia, Giovita Lazzarini e, alla Restaurazione pontificia, continuò a tener vivo l'ideale mazziniano. Arrestato (1853), condannato a morte (1854), ebbe la pena commutata in quella della galera a vita. Liberato (1870), diresse la «Roma del Popolo»; infine (1882-85) fu gran maestro della massoneria.

venerdì 27 settembre 2013

LO STATO DEL PARANÀ (BRASILE) RICORDA I 200 ANNI DALLA NASCITA DI GARIBALDI

CURITIBA\aise\ - Si è svolta nei giorni scorsi, durante l’Assemblea Legislativa dello Stato del Paranà, in Brasile, una sessione solenne in commemorazione dei 200 anni della nascita di Garibaldi, che si celebra oggi, 4 luglio. La seduta è stata proposta dal deputato Cida Borghetti, consigliere del Comites locale ed è stata presieduta dal Presidente dell’Assemblea, On. Nelsos Justus. Presenti, tutti i parlamentari locali, diverse autorità, membri dei Comites ed il Console Generale di Curitiba, Riccardo Battisti, accompagnato dal Consigliere CGIE, Walter Petruzziello e dal Presidente del Comites, Gianluca Cantoni.
L’On. Borghetti ha sottolineato aspetti della vita di Annita e Giuseppe Garibaldi in Brasile, mentre il Console Battisti ha ricordato parte della storia di Garibaldi. Il Consigliere CGIE Petruzziello, da parte sua, invitato a parlare a nome della collettività italiana ed italo-brasiliana, ha ricordato, non solo la data di nascita di Garibaldi, ma ha sottolineato anche quella di morte: Garibaldi morì il 2 giugno, data della nascita della Repubblica Italiana. Alla Rai questa notizia deve essere sfuggita , altrimenti avrebbe invitato Borghezio per fargli ripetere la storia di “ Garibaldi ladro di cavalli , sanguinario , pirata e schiavista “ e a dare man forte a Borghezio avrebbe chiamato Uno di quei storici / revisionisti che ci raccontano come il Risorgimento e’ sato voluto dalla massoneria inglese e Garibaldi si compro’ i generali del Re delle due Sicilie ( ma perche’ si sono venduti ? ) cosi va oggi l’Italia ......................

sabato 14 settembre 2013

Zini Luigi

Luigi Zini nasce a Modena l’11 febbraio 1821. Nel 1843 si laurea in legge all’Università di Modena. Fortemente influenzato dallo spirito liberale della famiglia, diviene un fervente sostenitore del progetto dell’unità nazionale. Allontanato da Modena per aver partecipato ai moti del 1848, è condannato a 24 anni di esilio. Si rifugia allora in Piemonte dove ottiene la naturalizzazione sarda e l’incarico dell’insegnamento di storia nel Collegio municipale di Asti. In quegli anni si occupa dell’istituzione di scuole serali per operai. Pubblica i quattro volumi della “Storia d’Italia dal 1850 al 1866 continuata da quella di Giuseppe La Farina”, in cui esprime tra l’altro la sua propensione per un sistema amministrativo che lasci ampie autonomie a Comuni e Province, limitando al massimo l’ingerenza governativa. Nel 1858, trasferitosi a Lugano, insegna letteratura italiana nel liceo locale, avendo come colleghi Giovanni Cantoni e Carlo Cattaneo. Entra in contatto con altri profughi modenesi e conosce tra gli altri lo stesso Giuseppe La Farina, che nel febbraio del 1859 - in accordo con Cavour - gli affida l’incarico di recarsi nel Ducato di Modena per verificare le possibilità di suscitare in quel territorio un moto popolare favorevole all’annessione al Regno sabaudo. Dopo l’insurrezione modenese, Zini assume nel giugno 1859 il titolo di commissario provvisorio del re di Sardegna. Regge il governo della città fino all’arrivo di Luigi Carlo Farini, emanando una serie di provvedimenti tra i quali il sequestro dei beni dell’ex duca, il riordinamento della magistratura, l’accentramento degli istituti di istruzione sotto il relativo dicastero, la soppressione dell’Ordine dei Gesuiti. Nel settembre del 1859 fa parte della delegazione che reca a Vittorio Emanuele i risultati del plebiscito di annessione delle province modenesi (un’azione che gli varrà il conferimento onorifico della cittadinanza torinese). Dopo l’Unità entra nell’amministrazione e diventa negli anni prefetto di Ferrara, Siena, Brescia, Padova, Como e Palermo. Eletto deputato per i collegi di Ferrara e Guastalla nella IX e X legislatura (dal novembre 1865 al novembre 1870), interviene alla Camera soprattutto su questioni di politica interna. Il 10 luglio 1873 è nominato consigliere di Stato e nell’aprile 1881 viene collocato a riposo col grado e titolo di presidente di sezione. Nominato senatore il 16 novembre 1876. Muore a Modena il 21 settembre 1894.

domenica 8 settembre 2013

Giuseppe, conte. - Uomo politico (Baranello 1757 - Napoli 1828). Educato a Napoli alla scuola di G. Filangieri, fu giudice della Gran corte della Vicaria, avvocato fiscale del Reale patrimonio, direttore della Finanza (1798); al ritorno dei Borboni, resse il ministero delle Finanze (1800-03). Durante il decennio francese fu consigliere di stato (1808), ministro della Giustizia (1809) e infine ministro dell'Interno fino al 1815. Esiliato al ritorno di Ferdinando IV, poi riammesso nel regno, nel 1820 fu nominato ministro dell'Interno del governo costituzionale. Studioso di problemi economici, nel 1790 aveva pubblicato un'opera sulla Sila, nella quale aveva cercato di determinare le ragioni che rendevano passivo quel vasto territorio della Corona. Tra gli altri suoi scritti, un Rapporto generale sulla situazione del Regno di Napoli per gli anni 1806-1811 (1813).

lunedì 2 settembre 2013

Valerio Lorenzo

Valerio, Lorenzo
Giornalista e uomo politico (Torino 1810 - Messina 1865). Direttore di una manifattura di sete, nel 1831 fu costretto a lasciare il Piemonte per le sue idee liberali e viaggiò per affari in Europa centrale e orientale e in Russia. Rientrato in Italia nel 1836, assunse la direzione di un setificio ad Agliè, in provincia di Torino, impegnandosi in un’opera di miglioramento delle condizioni di lavoro delle operaie dei suoi stabilimenti e nell’apertura di asili e scuole femminili e serali. Nello stesso anno fondò il settimanale «Letture popolari», un periodico rivolto alla classe lavoratrice, con rubriche e notizie su arti e mestieri, che rappresentò una delle più significative esperienze del giornalismo risorgimentale. Proibito dalle autorità piemontesi nel 1841, il settimanale fu ripreso con il titolo «Letture di famiglia», ma fu definitivamente soppresso nel 1847. Nel gennaio del 1848 fondò il quotidiano «La Concordia», un giornale che, dopo avere abbandonato l’iniziale connotazione liberale e moderata, si spostò su posizioni sempre più radicali e filorepubblicane, battendosi a favore di maggiori libertà politiche. Nel 1848 Valerio fu anche eletto deputato al Parlamento subalpino e, schieratosi a sinistra, partecipò attivamente alle discussioni parlamentari, accusatore convinto di coloro che riteneva i responsabili della sconfitta militare del 1848. Diventato uno dei capi della Sinistra democratica, avversò la politica moderata di Cavour dalle colonne di altri due giornali da lui fondati («Il Progresso» e «Il Diritto»). Commissario regio nelle Marche nel 1860, divenne senatore del Regno nel 1862 e pochi mesi prima della sua morte fu nominato prefetto di Messina.

venerdì 23 agosto 2013

Carlo Troya

Napoli, 1784 – ivi, 1858
Storico. Esiliato per aver preso parte ai moti del 1820-1821, si dedicò a studi di storia medievale, iniziati con il Veltro allegorico di Dante (1825), seguito dal Veltro allegorico dei Ghibellini (1832), promossi con la fondazione a Napoli della Società Storica, che presiedette (1844-47), e culminati nella Storia d'Italia nel Medioevo (4 voll., 1839-55), nella quale si sostiene l'importanza determinante del papato nella formazione della civiltà italiana medievale. Di tendenza neoguelfa, durante la rivoluzione del 1848 collaborò al giornale "Il Tempo" e fu presidente di gabinetto.

sabato 17 agosto 2013

Porta San Pancrazio

Durante i drammatici avvenimenti della primavera e dell’inizio estate del 1849, quando le truppe francesi aggredirono militarmente la Repubblica Romana ponendo la città sotto assedio per un intero mese, Porta San Pancrazio rivestì un ruolo di primaria importanza nella difesa disperata di Roma capeggiata da Giuseppe Garibaldi.In memoria di quell’eroica resistenza, per la quale sacrificarono la propria vita uomini come Emilio Dandolo, Luciano Manara, Goffredo Mameli, nella ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Porta San Pancrazio diventa sede di un museo dedicato alla Repubblica Romana del 1849 e alla tradizione garibaldina. Luogo fortemente evocativo dei fatti, la porta costituisce anche un punto privilegiato di lettura dell’area storico-monumentale del Gianicolo che di quella dura battaglia conserva ad oggi ampia memoria a livello monumentale.L’attuale porta S. Pancrazio, situata sull’altura del Gianicolo nel perimetro delle mura urbaniane o gianicolensi, fu costruita nel 1854-57 dall’architetto Virginio Vespignani sulle rovine della porta realizzata da Marcantonio De Rossi nel 1648 e semidistrutta durante le vicende belliche del 1849. A sua volta la porta seicentesca aveva sostituito l’antica porta Aurelia che si apriva nel recinto delle mura aureliane in posizione leggermente arretrata rispetto a quella odierna.Il 19 aprile 1951 l’Amministrazione Comunale consegnò i locali all’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini per la realizzazione del Museo. Nel contempo fu avviato l’ordinamento dei materiali e della documentazione per la costituzione del Museo che è stato aperto al pubblico nel 1976 con due sezioni: la prima riguardante la Storia garibaldina risorgimentale e la seconda la storia e le vicende della Divisione italiana partigiana Garibaldi.

lunedì 12 agosto 2013

Mario Pagano

Francesco Mario Pagano nacque a Brienza, nei pressi di Potenza, l’8 dicembre 1748 da una famiglia di avvocati. Dopo essere rimasto orfano di padre, nel 1762 si trasferisce a Napoli, per intraprendere gli studi umanistici; impara la filosofia sotto la guida dello zio prete Gerardo degli Angioli, grazie da cui viene introdotto alla conoscenza di Vico.Nella grande città borbonica, poi, studia alla facoltà di giurisprudenza ed ha modo di conoscere Antonio Genovesi, di cui fu allievo, e Gaetano Filangieri, suo amico, con il quale condivide l’interesse per la criminologia. Si laurea appena ventenne e Genovesi, che vede in lui un erede, lo invita a partecipare ad un concorso per la cattedra di etica che Pagano perderà, però un anno dopo la otterrà in sostituzione del suo maestro morto improvvisamente. Nel 1769 è già considerato come un grande esperto di cultura classica ed è chiamato “avvocato filosofo” per le sue arringhe ricche di citazioni intellettuali. Successivamente ottiene la cattedra di economia e poi quella di giurisprudenza. Attratto dalla riflessione sul rinnovamento della legislazione penale divenne “avvocato dei poveri”, una sorta di avvocato d’ufficio per i delinquenti più bisognosi; attività per cui sarà sospettato di attività sovversive.Nel 1785 pubblica i “Saggi politici”, con la sua concezione dello Stato e della sua organizzazione. Sempre nello stesso periodo la sua attività dedicata al diritto lo porta a scrivere opere come “Considerazioni sul processo criminale” (1787) o “ Logica dei probabili o teoria delle prove” che lo pongono sullo stesso piano dei grandi illuministi italiani Beccaria e Filangieri e rappresentano il rinnovamento del pensiero giuridico illuminista del Settecento. Si impegna per abolire la tortura: "la confessione, estorta tra i tormenti, è l'espressione del dolore, non già l'indizio della verità".Pubblica tre tragedie: “Gli esuli tebani” (1782), dedicata a Filangieri; “Agamennone” (1787), ambientata in Grecia; “Corradino” (1789) ambientato nel medioevo.Nel 1792 nacque la “Società patriottica” a cui Pagano aderì; questa era una società di uomini illuminati, senza alcun fine rivoluzionario ma con la speranza di portare il sovrano all’interesse verso la cultura. Le autorità borboniche decisero in quegli anni una brusca svolta repressiva e nel 1794 tre giovani patrioti vengono processati per cospirazione antimonarchica e condannati a morte. La “Società” è sciolta ed inquisita e Pagano assumerà la sua difesa nel 1794 nella “Gran causa dei rei di Stato”. Si impegna a fondo per dimostrare l’infondatezza dell’accusa e il fine non eversivo dell’organizzazione; non riesce a salvare i tre giovani dal patibolo ma ne salva altri grazie alla sua abilità; tuttavia 48 persone saranno condannate all’ergastolo o all’esilio e dal ’94 al ’98 ci saranno ben tremila carcerazioni per altri nemici dei Borbone.La sua bravura gli venne riconosciuta e fu nominato giudice del tribunale dell’Ammiragliato ma nel 1796 fa arrestare un avvocato corrotto che accusa Pagano di averlo fatto arrestare per la sua fedeltà al Re. Questo dà ai Borbone il pretesto per liberarsi di lui nonostante il suo prestigio; da tempo il sovrano aveva scatenato le sue spie contro il mondo della cultura napoletana. In febbraio dello stesso anno il filosofo viene arrestato e trattenuto per ben 29 mesi in carcere senza alcun processo; nel 1798, non essendosi trovate alcune prove contro di lui, viene liberato.Dopo la scarcerazione si rifugiò a Roma, accolto con entusiasmo dalla Repubblica Romana che offrirà all’esule una cattedra di diritto pubblico con uno stipendio che gli consente a malapena di sopravvivere. Quando la Repubblica cade, Pagano va a Milano ma il 23 gennaio 1799 a Napoli viene abbattuta la monarchia e Pagano ritorna subito nella città e diviene membro del governo e presidente del Comitato di legislazione. Il filosofo è l’assoluto protagonista: da febbraio ad aprile fa approvare diverse leggi volte a rivoluzionare l’apparato del Regno di Napoli e dà alle stampe la Costituzione Repubblicana che tuttavia non entrerà mai in vigore a causa della breve durata della repubblica (cinque mesi). Il 5 giugno, infatti, il Governo provvisorio è costretto a richiamare alle armi la popolazione perché le armate reazionarie si stanno avvicinando, aiutate dagli inglesi. Anche Pagano combatte strenuamente per la difesa di San Martino ma purtroppo sarà costretto poco dopo a trattare la resa con gli inglesi del celebre Ammiraglio Nelson, l’artefice del crollo della Repubblica Partenopea. È una resa condizionata e la condizione, per Pagano, prevede la sua detenzione su una nave inglese in attesa di giudizio. I patti non saranno rispettati e Re Ferdinando IV si fa consegnare il filosofo da Nelson per rinchiuderlo a Castel Nuovo nel Maschio Angioino. Per fiaccarne le forze sarà messo dentro alla “fossa del coccodrillo”, la zona più buia e umida riservata ai criminali più pericolosi. In seguito sarà rinchiuso a Poggioreale assieme ad altri 119 rivoltosi. Il processo a cui viene sottoposto è già segnato: il giudice gli disse che non avrebbe preso atto della sua dichiarazione in quanto sia la Corte, sia il popolo volevano la sua morte. Pagano rispose che auspicava un futuro in cui il popolo avrebbe parlato attraverso di sé e non per i suoi rappresentanti così bugiardi e corrotti come il giudice del suo processo.Il 29 ottobre 1799 un Pagano ormai distrutto anche fisicamente dalla dura prigionia viene impiccato in piazza Mercato assieme a Domenico Cirillo, Giorgio Pigliacelli ed Ignazio Ciaja. Per uno strano ricorso storico, l’illuminista sarà impiccato lo stesso giorno (29 ottobre 1268) e nello stesso punto in cui venne impiccato Corradino di Svevia, a cui Pagano aveva dedicato una tragedia.

domenica 4 agosto 2013

Giuseppe Sciva, unico martire dei moti del 1847

La targa che ricorda i moti dell'1 settembre 1847
Girando per le vie della nostra città, spesso ci si domanda chi sia il personaggio storico cui la stessa è intitolata. Molti sono nomi che non ci dicono nulla. Eppure, dietro quei nomi, magari accompagnati da una data, spesso c’è una vita interamente dedicata alla città.
È il caso di Giuseppe Sciva, un calzolaio di 27 anni, giustiziato dopo i moti dell’1 settembre 1847 che, di fatto, diedero il viale all’insurrezione che nel 1848 infiammò l’intera Europa.Pochi mesi prima, nel luglio del 1847 il poeta Luigi Settembrini, mazzinianio della Giovine Italia, scrisse un libello, “Protesta del popolo delle Due Sicilie”, che era un duro atto d’accusa contro il governo di Ferdinando II di Borbone e sulle conseguenze per il popolo delle Due Sicilie.
“Questo Governo -scriveva Settembrini- è una immensa piramide la cui base è fatta dagli sbirri e dai preti, la cima dal re. Ogni impiegato, dal soldato al generale, dal gendarme al ministro di Polizia, dal prete al confessore del re, ogni piccolo scrivano è un despota spietato e lo è peggio su quelli che sono a lui soggetti, mentre è un vilissimo schiavo nei confronti dei suoi superiori! Onde chi non è fra gli oppressori si sente da ogni parte schiacciato dalla tirannide di mille ribaldi, e la pace, le sostanze, la libertà degli uomini onesti dipendono dal capriccio, non dico di un principe o di un ministro, ma di ogni impiegatuccio, di una baldracca, di una spia, di un gesuita, di un prete. O fratelli italiani, o generosi stranieri, non dite che queste parole sono troppo aspre, e non scrivete nei vostri giornali che dovremmo parlare con più moderazione e freddezza; venite fra noi, sentite voi pure come una vera mano di ferro ci stringa e ci bruci il cuore; venite a soffrire quanto soffriamo noi, e poi scrivete e consolateci. Noi pregheremmo Iddio di donare senno a questo Ferdinando, se sapessimo che Dio ascolta la voce del popolo, che è pure la voce di Dio. Non ci resta dunque che far palesi le nostre miserie, mostrare che siamo immeritevoli di soffrirle e che è vicino il tempo in cui dovrà finire per noi tanta vergogna”.La reazione di Ferdinando II fu immediata, nonostante alcune promesse e la riduzione dei dazi sul sale, sul vino e sul grano, ma ormai i meccanismi che avrebbero portato alla rivoluzione del ’48 si erano già stati messi in moto. I circoli mazziniani erano al lavoro per organizzare la sollevazione e anche Messina si preparava a fare la propria parte. Alcuni Comitati come quelli di Cosenza, Catanzaro e Palermo cercavano di prendere tempo sostenendo che le città non erano pronte, Reggio Calabria e Messina erano di parere opposto e riuscirono ad imporre la propria tesi. Contrari e no, decisero comunque di giocarsi il tutto per tutto il 10 settembre di quell’anno. Come spesso accadde durante le Guerre di Indipendenza che portarono all’Unità d’Italia, all’ultimo momento alcune città fecero un passo indietro. Solo le due città dello Stretto si mossero contro i Borboni. Impreparati e divisi, i cospiratori fallirono l’obiettivo. Il piano preparato con cura (impadronirsi delle armi durante un banchetto degli ufficiali organizzato per l’1 settembre) fu rinviato, ma non tutti furono avvertiti. Chi rimase tagliato fuori si mosse, ignaro di ciò che lo aspettava. Un conciatore, Antonio Pracanica, guidava gli insorti. Troppo pochi per avere ragione dei militari, gli insurrezionisti furono sconfitti dopo un aspro combattimento con le truppe borboniche. Molti dovettero andare in esilio, parecchi furono catturati, uno solo fu ucciso.Ferdinando II reagì con estrema durezza ed immediatamente dopo il fallimento del moto, che si concluse il 10 settembre dopo aspri combattimenti iniziarono i processi. In nove, tra i quali anche preti come Giovanni Krimi e frati, furono condannati all’ergastolo, dieci riuscirono a fuggire, alcuni morirono in prigione. Giuseppe Sciva fu fucilato il 2 settembre. Del calzolaio ventisettenne, che perse la vita per l’Unità d’Italia, restano soltanto vaghi accenni nei libri di storia locale ed una via a lui intitolata a Montepiselli.

domenica 28 luglio 2013

Masini Angelo

Angelo Masina fu un patriota italiano.
Partecipò ai moti del 1831 in Romagna, poi fuggì in Spagna dove combattè con i costituzionali.
Durante la guerra del 1848 egli combattè nel corpo dei Cacciatori Alto Reno in difesa di Vicenza, col generale Durando.Poi a fine agosto partecipò a Bologna ai tentativi di instaurare un governo provvisorio al posto del prolegato pontificio.  Dopo l'armistizio della I Guerra d'Indipendenza accorse con Garibaldi alla difesa della Repubblica Romana raggiungendo il grado di colonnello; fu tra i valorosi del 30 aprile 1849.
L'intraprendente generale Masina, che il Carducci paragonò a Patroclo, l'eroe greco, viene colpito da una freccia alla coscia durante la difesa di Villa Corsini dai francesi e, trascinato dal suo cavallo, morì.
E' il 3 giugno 1849: nonostante la difesa strenua delle truppe garibaldine i francesi ebbero la meglio.
Sul Gianicolo, definito da Napolitano luogo "della sfida eroica e precorritrice",

sabato 20 luglio 2013

Solaro Della Margarita Clemente

Che il Risorgimento italiano non sia stato esattamente la grande e luminosa epopea che per molti anni è stata raccontata a generazioni di studenti, è – oramai – dato ampiamente condiviso dagli storici. Che Garibaldi e Cavour, ai quali pure occorre riconoscere coraggio (Garibaldi) e genialità politica (Cavour) – non fossero mossi esclusivamente da nobili ideali scevri da più bassi interessi – è dato altrettanto appurato. Che senza il sostegno decisivo della marina inglese, "mille" uomini – pur indossanti temerarie camicie rosse – difficilmente avrebbero potuto scardinare un Regno pluricentenario come quello borbonico, è evidente a chiunque sia dotato di un minimo di buon senso.
A questi dati, se ne affianca un altro, non di minore rilievo. Gli avversari del conte di Cavour e dell’avventura risorgimentale, non furono soltanto Pio IX e il Regno delle Due Sicilie, ma anche figure interne al mondo sabaudo e alle sue istituzioni. Una su tutte, quella di Clemente Solaro della Margarita. Nato a Cuneo nel 1792 – l’anno in cui la Francia giacobina iniziava la conquista dell’Europa – entrò nella carriera diplomatica del Regno piemontese dopo la fine dell’era napoleonica e il ritorno di Vittorio Emanuele I dall’esilio. Credette nell’Europa della Restaurazione, nel diritto divino dei sovrani, nella Chiesa cattolica, nella legittimità dell’alleanza fra il trono e l’altare. Era convinto i re dovessero render conto dei loro atti soltanto a Dio e considerava il pensiero liberale alla stregua di una minaccia alla stabilità degli Stati. Ritenne l’«opinione pubblica», di cui i liberali si atteggiavano a rappresentanti, fosse soltanto una chimera. Nel suo saggio di maggior rilievo, il Memorandum storico-politico – pubblicato a Torino nel 1851 – la descrisse come un torrente senza sponde «che si getta ora a destra, ora a sinistra e copre di fango tutto ciò che incontra sulla sua strada». Aggiungendo che «se scorre in un letto ben scavato e custodito, il torrente non minaccerà le campagne; se lo si abbandona alle passioni, diverrà feroce». Disse anche che «l’opinione pubblica intimidisce i codardi e travolge i deboli nei suoi capricci» ma «può essere spezzata da coloro che l’affrontano con forza e autorità». Fu, insomma, un intransigente reazionario, nello stile di Joseph de Maistre – di una generazione antecedente a quella di Solaro, sabaudo come lui e fra i più insigni teorici della Restaurazione – e, per restare in Italia, di Monaldo Leopardi, padre del più celebre Giacomo.Queste idee e questi sentimenti piacquero a Carlo Alberto negli anni in cui il giovane sovrano non era ancora attratto dal desiderio di cavalcare, per la gloria della dinastia, il movimento nazional-liberale. Così, nel 1835, mentre Solaro si apprestava a partire per Vienna come rappresentante del Regno di Sardegna, Carlo Alberto lo volle a Torino e gli affidò il ministero degli Esteri. Nei dodici anni in cui mantenne l’incarico, firmò trattati di commercio, lavorò a consolidare l’Europa della Restaurazione contro i movimenti liberali e a rafforzare, in un clima di buona intesa con l’Austria, la posizione internazionale del Regno. Il suo declino iniziò quando la pressione austriaca rafforzò il movimento liberale in Piemonte e convertì Carlo Alberto, oramai ex "re tentenna", all’idea nazionale. Fu quello il frangente in cui venne congedato.Ma anche Solaro della Margarita, come Cavour, aveva un progetto per l’ampliamento dello Stato sabaudo. Nel Memorandum sosteneva il Piemonte avrebbe dovuto agire in particolare in Svizzera e Lombardia. In terra elvetica, dove nel 1847 divampò una guerra civile che oppose cantoni cattolici e protestanti, avrebbe dovuto finanziare e aiutare i primi. La vittoria avrebbe sopito le tendenze liberali in Lombardia ed evitato, forse, le Cinque giornate milanesi. Ma quando l’insurrezione scoppiò, nel marzo del 1848, secondo Solaro il Piemonte avrebbe dovuto fare ciò che la Russia zarista avrebbe fatto in Ungheria un anno dopo: intervenire militarmente per ripristinare l’ordine ed evitare che il "morbo" rivoluzionario contagiasse il Regno di Sardegna. Se avessero adottato tale strategia, i Savoia avrebbero avuto diritto a qualche compensazione territoriale. Nel Memorandum scrisse infatti: «Dal lato della Francia non v’è ingrandimento a desiderare, né a sperare, dal lato della Svizzera difficile, ma oltre il Po e il Ticino non impossibile».Erano le partite geopolitiche di un pensionato che trascorse il resto della sua vita a contestare Cavour dai banchi del Parlamento e a redigere testi che meriterebbero tutt’oggi di esser presi in considerazione. Morì nel 1869, quindi italiano, ma convinto – sino all’ultimo giorno della sua esistenza

sabato 6 luglio 2013

ANTONIO PANIZZI

Nato a Brescello (Reggio Emilia) il 16 settembre 1797 il giovane Panizzi si trasferì ben presto a Reggio Emilia, dove frequentò il liceo ginnasio retto dai Gesuiti e la Biblioteca Comunale (da poco istituita), che avevano sede nello stesso edificio settecentesco: Palazzo S. Giorgio.
Compiuti gli studi superiori, nel 1814 si iscrisse al corso di giurisprudenza dell'Università di Parma. Nella capitale del vicino ducato allacciò nuove e significative conoscenze. Tra di esse rimarrà duratura l'amicizia con Angelo Pezzana, direttore della Biblioteca Palatina, ma rimarchevoli saranno anche le assidue frequentazioni di alcuni illustri professori di orientamento liberale e progressista dell'ateneo parmense. Proprio negli anni dell'Università, Panizzi entrò in contatto con la massoneria partecipando fattivamente all'attività cospirativa. Dopo la laurea conseguita nel 1818, aprì uno studio legale a Brescello nella casa paterna, ricoprì incarichi pubblici e si applicò ancor di più nell'attività politica. Coinvolto nelle indagini sulle organizzazioni carbonare dei Ducati, nell'ottobre del 1822 lasciò clandestinamente l'Italia per stabilirsi a Lugano prima e a Londra poi, dove ebbe buona accoglienza dagli esuli italiani e particolarmente dal Foscolo; su consiglio di quest'ultimo si trasferì a Liverpool per dedicarsi all'insegnamento privato dell'italiano.La notifica della sentenza della condanna a morte in contumacia, che lo raggiunse nel '24, non abbattè lo spirito intraprendente del Panizzi, anzi lo spinse ad iniziare una assidua collaborazione con i più importanti periodici culturali inglesi. Nel 1831 trovò impiego presso il British Museum, per mezzo dell'amicizia che lo legava a personaggi influenti del mondo culturale e politico britannico, quegli stessi dei quali si valse (a partire dal 1848) per svolgere un ruolo sempre più prezioso ed importante nelle vicende politiche risorgimentali e che gli consentirono inoltre di adoperarsi fruttuosamente per sensibilizzare la diplomazia inglese alla causa dell'Unità d'ItaliIl ruolo sociale di rilievo che gli conferì la posizione acquisita al British Museum permise al Panizzi di integrarsi perfettamente nella società inglese del suo tempo. Nella grande biblioteca, della quale si apprestava a divenire "principal librarian" (direttore generale), elaborò, tra l'altro, le ormai famose "91 regole" di catalogazione, che costituiranno, per molto tempo, un fondamentale punto di riferimento nello sviluppo delle tecniche biblioteconomiche. Introdusse inoltre una serie di importanti innovazioni, prima fra tutte la progettazione della famosa Reading Room, sala di lettura a base circolare, inscritta nel quadrilatero del cortile interno del British Museum, e sormontata da un'ampia cupola metallica. Uomo di grande levatura culturale (ebbe tra l'altro stretti rapporti con Prosper Mérimée), seppe farsi stimare a tal punto da ottenere il titolo onorifico di Sir, onore riservato in Inghilterra a pochissimi stranieri. Nel 1868 fu nominato Senatore del Regno d'Italia. Morì a Londra nel 1879.

lunedì 10 giugno 2013

Thouar Pietro

Letterato. Fu collaboratore di Gian Pietro Vieusseux presso il quale lavorò come correttore di bozze. Incoraggiato da Lambruschini, si dedicò all'attività letteraria per l'educazione del popolo e dei fanciulli. Nel 1832 iniziò la pubblicazione di Il nipote di Sesto Caio Baccelli, lunario proseguito fino al 1848, nel quale introdusse stornelli, poesie, bozzetti, principî morali e notizie d'istituzioni utili per il popolo; nel 1834 prese a pubblicare, anonimo, il Giornale dei fanciulli, avversato dalla polizia e presto interrotto.
Dal 1836 al 1845 collaborò alla Guida dell'educatore di Raffaello Lambruschini nelle annesse Letture per i fanciulli; nel 1847 fondò insieme con Mariano Cellini il Catechismo politico o Giornaletto pei popolani, che dal 30 ottobre 1848 prese il titolo di Letture politiche o Giornaletto per il popolo, trasformato poi nel 1849 in Letture di famiglia, alla cui compilazione si dedicò fino alla morte. Nominato nel 1848 direttore della Pia Casa di lavoro, con il ritorno del granduca perdette sia quello che gli altri impieghi.
Tuttavia nel 1860 ebbe la direzione della prima scuola magistrale maschile di Firenze. Affiliato alla Giovine Italia, si era sempre più accostato al partito moderato; eletto nel 1849 alla Costituente italiana, rinunziò subito al mandato, accettando invece la deputazione all'Assemblea toscana del 1859. È ritenuto il più importante scrittore italiano di letteratura infantile e popolare prima di Collodi e De Amicis.

domenica 26 maggio 2013

Rosaroli Cesare

Rosaroli Cesare Roma, 1809 – Venezia, 1849
Patriota e soldato. Fu con il padre e i fratelli in Spagna e in Grecia. A Napoli fu ammesso nel 1830 in un reggimento di cavalleria della guardia reale. Ordì l'assassinio di Ferdinando II con lo scopo di proclamare a suo successore il principe di Capua, che avrebbe dovuto elargire la Costituzione di Spagna. Denunciato, per sfuggire all'arresto Rosaroli cercò di uccidersi senza riuscirvi. Graziato sul patibolo, la pena fu commutata nel carcere a vita. Amnistiato nel 1848 si arruolò nel corpo dei volontari della principessa Cristina di Belgioioso. Combatté tra Goito e Curtatone. Difese Venezia al comando della batteria Sant'Antonio a Marghera.

mercoledì 22 maggio 2013

Vicenzo Giordano Orsini

Orsini, Vincenzo Giordano. - Generale (Palermo 1817 - Napoli 1889). Ufficiale borbonico, allo scoppio della rivoluzione siciliana del 1848 si dimise e assunse l'incarico di colonnello d'artiglieria del governo provvisorio. Riparò quindi a Costantinopoli. Partecipò alla spedizione dei Mille e fu nominato da Garibaldi ministro della Guerra e della Marina (1860). Generale poi nell'esercito regolare, prese parte alla campagna del 1866 nel corpo dei volontarî.

lunedì 13 maggio 2013

Emilio Visconti Venosta

Il marchese Emilio Visconti Venosta nasce a Milano il 22 gennaio 1829 da una famiglia dell'antica nobiltà valtellinese. Animato sin da giovane da nobili sentimenti patriottici aderisce al movimento di Giuseppe Mazzini e collabora a "L'Italia del popolo" di Losanna.
Nel 1853 prende parte ai moti delle Cinque Giornate di Milano ma, deluso dagli esiti negativi della rivolta, si allontana dal fondatore della "Giovine Italia" e dai repubblicani per avvicinarsi alle posizioni di moderato liberalismo di Cavour, del quale sposerà una pronipote, Luisa Alfieri di Sotegno, lontana discendente di Vittorio Alfieri. Trasferitosi in Piemonte agli inizi del 1859, Cavour lo nomina commissario governativo a Varese, al fianco di Garibaldi. Nel 1860 è segretario del "Dittatore dell'Emilia", Luigi Carlo Farini. Nello stesso anno Visconti Venosta si reca a Parigi, insieme a Gioacchino Pepoli e per conto di Cavour, per definire con Napoleone III i termini delle annessioni nell'Italia Centrale. L'anno successivo è eletto deputato per la Destra storica nel primo Parlamento italiano, ruolo che conserva fino al 1876, anno della caduta della destra Ministro degli Esteri con il governo Minghetti, stipula con il sovrano francese, nel 1864, la "Convenzione di Settembre" per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze in cambio del ritiro delle truppe francesi da Roma a presidio del Papa. Due anni dopo Emilio Visconti Venosta si occupa della cessione del Trentino, da parte dell'Austria. Il 18 marzo 1866 è inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Costantinopoli. Ma la questione forse più delicata cui pone mano è quella romana: con la liberazione della città, infatti, sorge il problema delle garanzie da offrire al Papa ed alla Chiesa, che egli risolve brillantemente, anche se solo temporaneamente, con l'approvazione della "Legge delle Guarantigie", nel 1871.

lunedì 6 maggio 2013

Dolfi Giuseppe


Dolfi Giuseppe Firenze, 1818 – ivi, 1869
Patriota. S'iscrisse giovanissimo alla Giovine Italia, amico di Pietro Thouar, di Piero Cironi e di Francesco Domenico Guerrazzi, godette anche di grande ascendente sulle classi popolari fiorentine. Fu uno dei capi dell'opposizione democratica ai Lorena, e, dopo essersi accordato con Ricasoli, ebbe gran parte nella pacifica rivoluzione del 27 aprile 1859. Di professione fornaio, fu capo del Partito d'azione in Firenze; fondò la «Fratellanza artigiana», della quale fu presidente fino alla morte.

mercoledì 24 aprile 2013

Castelli Michelangelo

Castelli Michelangelo Racconigi, 1808 – Recco, 1875

Di famiglia benestante,di idee giacobine, Michelangelo Castelli studia giurisprudenza all'università di Torino dove si laurea nel luglio 1835. Già nell'ottobre dello stesso anno è eletto, a soli 27 anni, sindaco di Racconigi, carica che manterrà fino al 1837. Dal 1847 collabora con il giornale torinese Il Risorgimento, lavorando nella sezione politica a fianco di Cavour, direttore del giornale.
Vicino agli ambienti Risorgimentali, amico e confidente di Cavour, viene eletto per la prima volta Deputato del Regno di Sardegna nella I legislatura, il 26 giugno 1848. Deputato per altre cinque legislature (1849-1859) nel 1852 viene nominato Segretario del Ministero dell'interno, carica che manterrà fino al marzo 1854. Il 29 giugno 1860 viene nominato Senatore del Regno di Sardegna, su relazione di Gabrio Casati. In ambito professionale diventa nel luglio del 1854 Direttore generale degli Archivi generali di Torino.
Muore a Torino il 20 maggio 1875.

martedì 9 aprile 2013

Massarani Tullo


Massarani Tullo Mantova, 1826 – Milano, 1905
Letterato e uomo politico. Cospiratore, esule dal 1848 al 1850 in Francia e in Svizzera, tornato in Lombardia collaborò al «Crepuscolo» di Carlo Tenca e al «Vesta Verde» di Cesare Correnti.
Deputato dal 1860 al 1869, senatore dal 1876, fu buon intenditore d'arte (era stato discepolo di Gerolamo Induno); nel 1878 presiedette la commissione giudicatrice dell'esposizione artistica di Parigi e scrisse il saggio L'arte a Parigi.Fu socio corrispondente dei Lincei (1876). Instancabile lavoratore, scrisse moltissimo (Opere, in 24 voll., 1906-11) con agilità ed eleganza. Ha il merito di aver fatto conoscere Heine agli italiani e di aver divulgato in Italia le opere di scrittori europei poco conosciuti. I suoi studi più convincenti sono forse quelli su Tenca e Correnti.

venerdì 29 marzo 2013

Calà Ulloa Girolamo


Calà Ulloa Girolamo (Napoli, 1810 – Firenze, 1891)
Generale e patriota. Alfiere d'artiglieria dell'esercito borbonico, venne implicato (1833) col fratello Antonio (1807-1889) nella congiura di Cesare Rosaroll; assolto, fu riammesso nell'esercito e si dedicò agli studi militari.Deputato della provincia di Napoli (1848), nel 1849 partecipò alla difesa di Venezia e dopo la caduta della città andò in esilio a Parigi.Rientrato in Italia (1859), fu comandante in capo dell'esercito toscano; ma sospettato di favorire le aspirazioni di Girolamo Napoleone al trono di Toscana, fu costretto ad abbandonare il comando.Tornato a Napoli, seguì poi Francesco II a Roma (1861). Nel 1866 si stabilì a Firenze e si dedicò agli studi militari

venerdì 22 marzo 2013

Moti di Savigno (1843)



L’attività cospirativa dei patrioti che portò ai fatti del 1843 ebbe inizio diversi anni prima, nel 1837, in particolare per opera di Nicola Fabrizi, fondatore della Legione Italica, che doveva essere il “braccio armato” della Giovine Italia di Mazzini. Fin dal 1838 il Fabrizi, scrivendo a Pasquale Muratori, lo individuava come “candidato ideale” a capeggiare un moto insurrezionale sull’Appennino bolognese. Pasquale Muratori, infatti, conosceva bene il territorio, avendo proprietà (insieme al fratello Saverio) a Pramarano in Tignano, all’interno del comune di Monte San Pietro, proprio al confine con Praduro e Sasso. Il moto si sarebbe dovuto estendere progressivamente, per poi portare alla sollevazione di Bologna e alla caduta del Governo pontificio. Anche se Mazzini mostrò la sua opposizione al moto, Fabrizi decise per l’azione. Pasquale Muratori aveva già organizzato un gruppo armato, formato da alcune decine di rivoluzionari. Un rapporto del Priore di Praduro e Sasso, confinante con Monte San Pietro tramite il torrente Lavino, indirizzato al cardinale legato Spinola racconta come la situazione si era andata evolvendo già dalla notte del 13 agosto 1843. Il racconto era basato sulla testimonianza di Giuseppe Medici, colono nel podere “Casino Nuovo” di Monte San Giovanni, che denunciò come “nella notte della domenica 13 corrente agosto essendo circa le tre ore di notte comparvero nella casa colonica di detto podere la Canova circa 40 individui la di cui metà armati di schioppe, o schioppi da caccia, di pistole, e coltelli, e vollero ivi pernottare. Asserisce egli, che in detta conventicola erano li fratelli Pasquale e Saverio Muratori domiciliati in Pramarano in Tignano, giurisdizione del Comune di Monte S. Pietro, Gaetano Turri di Bologna con altri bolognese della classe plebea male vestiti, ed equipaggiati. Alle ore 7 circa antimeridiane d’oggi [15 agosto] sono partiti prendendo la carreggiata del Lavino verso la Badia sotto la Comune di Monte S. Pietro. Il 15 agosto la “conventicola” assaltò l’osteria di Savigno, dove si trovava una compagnia di carabinieri pontifici. Dopo un lungo combattimento i ribelli ebbero la meglio, lasciando sul posto i corpi di alcuni carabinieri e prendendo in ostaggio il capitano Castelvetri, che successivamente venne ucciso. Gli insorti erano in attesa della sollevazione di Bologna, ma dalla città non arrivò nessuna notizia in quel senso: si trovarono perciò ad essere inseguiti dalle truppe pontificie sulle colline tra la valle del Reno e del Lavino. Il 25 agosto l’inseguimento finì con la cattura dei ribelli. Muratori riuscì a fuggire oltrepassando il confine toscano e si rifugiò in Francia. Il moto per la liberazione dal potere pontificio era fallito.


domenica 17 marzo 2013

Il Mito della Gioventu'

Quanti si impegnarono nelle cospirazioni e nelle battaglie risorgimentali erano per lo più giovani: ad esempio, i patrioti arrestati nel 1833-34 perché appartenenti alla rete clandestina mazziniana della Lombardia avevano generalmente tra i venti e i trent'anni.Questa prevalente partecipazione giovanile aveva anche a che fare con la prestanza fisica che certe imprese militari richiedevano e con la minor presenza, nel caso dei giovani, delle responsabilità familiari che inevitabilmente condizionavano le scelte degli adulti. Ma una tale partecipazione si inseriva soprattutto in un clima culturale europeo caratterizzato da un'esaltazione della gioventù e del suo ruolo nella storia. Clima che naturalmente faceva sentire i suoi effetti quasi soltanto nei ceti più abbienti e acculturati della società dell'epoca.I giovani cospiratori avevano appreso a sentirsi parte di una stessa generazione – avevano cominciato a percepirsi appunto come «giovani» – attraverso la lettura delle sofferenze per cui erano passati il giovane Werther di Goethe e il giovane Ortis di Foscolo; o anche attraverso la lettura del «pellegrinaggio» di cui era protagonista un altro degli eroi letterari dell'epoca, il giovane Harold di Byron.I giovani dell'epoca avevano ricavato dalla lettura di Jean-Jacques Rousseau, in particolare dell'Emilio, l'idea che la gioventù fosse un'età ancora immune dalla corruzione e dall'ipocrisia che caratterizzavano invece la società degli adulti.  Le stesse biografie di grandi poeti come Byron, Shelley, Keats (morti rispettivamente a 36, 30 e 26 anni) rendevano familiare l'idea che il momento centrale della vita andasse collocato nella giovinezza. Un dato, quest'ultimo, che era reso a tutti evidente dalla facilità con cui si poteva morire prima ancora di diventare adulti.L'idea di una peculiare disponibilità della gioventù alla rivoluzione e alla lotta era perfino banale per la nuova cultura borghese e aristocratica del tempo: i giovani – aveva scritto nei primi anni dell'Ottocento il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte – «recano in petto un mondo tutto nuovo e diverso». Si trattava di una convinzione evidentemente connessa ai tumultuosi avvenimenti del periodo rivoluzionario e napoleonico.La Rivoluzione dell'89 infatti, interrompendo la continuità storica, presentandosi come rifiuto del passato e della tradizione, aveva anche accreditato il ruolo centrale dei giovani in quanto naturali protagonisti di una rifondazione della società. La strettissima connessione tra la gioventù e il processo rivoluzionario scaturito dall'89 aveva poi trovato la sua massima espressione in Napoleone: i suoi soldati, quando entrarono a Milano nel 1796, scrisse Stendhal nella Certosa di Parma, avevano «tutti meno di venticinque anni, e il loro generale in capo, che ne aveva ventisette, passava per il più vecchio».Come avrebbe scritto Alfred de Musset nella Confessione di un figlio del secolo (1836), sintetizzando una percezione diffusa nella cultura europea dei primi anni o decenni dell'Ottocento, dietro i giovani c'era «un passato per sempre distrutto davanti a loro, l'aurora di un immenso orizzonte, i primi chiarori dell'avvenire».«La gioventù – scrisse Mazzini nel 1831 nella sua lettera aperta a Carlo Alberto – è bollente per istinto, irrequieta per abbondanza di vita, costante ne' propositi per vigore di sensazioni, sprezzatrice della morte per difetto di calcolo». Mazzini, se mostrava così di condividere un mito che circolava nella cultura del tempo, diede però al richiamo alla gioventù un essenziale significato politico. L'associazione da lui fondata nell'esilio francese, la Giovine Italia, si rivolgeva anzitutto ai giovani, come indicavano la sua stessa denominazione e il fatto che l'adesione fosse espressamente riservata a chi non aveva superato i quarant'anni.Il ruolo privilegiato della gioventù si giustificava sulla base della lettura che Mazzini dava allora della rivoluzione francese del luglio 1830 e dei tentativi italiani del 1831, interpretati appunto nei termini di un conflitto generazionale. Nella rivoluzione di luglio – scriveva – era stata la gioventù a vincere; ma gli uomini della generazione precedente, che pure «alcuni anni addietro avevano comunicato l'impulso,  s'erano ritratti atterriti» e avevano accettato la monarchia orleanista.Analogamente, nella rivoluzione dell'Italia centrale i giovani, infiammati «al sole della novella civiltà», fiduciosi nelle «idee di patria comune, di fratellanza italiana», si erano gettati nella mischia con entusiasmo. Ma era subentrata la delusione quando il loro coraggio si era dovuto scontrare con la «lentezza» e la «incapacità» dei capi, bollati dal fondatore della Giovine Italia come «uomini del passato». Non poteva non essere sensibile all'appello rivolto da Mazzini alla gioventù quella parte consistente di esuli che era appunto formata da giovani: come scrisse in un suo rapporto il prefetto di Marsiglia, i rifugiati italiani, «in maggioranza giovani, hanno abbracciato con entusiasmo le sue idee».Dalla Giovine Italia noi «siamo messi da parte – scriveva nel 1832 un esule a un corrispondente   giacché vi si proclama che il segreto del secolo sta nelle mani dei nati col secolo. Noi siamo dei barbogi del tempo degli Argonauti». Un analogo malumore traspariva dalle parole di un esule che aveva partecipato ai moti del 1821, il quale accusava i mazziniani di non fidarsi «che di ragazzi e di gente incapace».Mazzini chiarì più volte che il limite dei quarant'anni non andava inteso alla lettera e che dunque la Giovine Italia avrebbe accolto volentieri quanti, pur nati in un'epoca anteriore, erano disposti a seguirne i princìpi. Nonostante questa apertura, restava il fatto che definire i cospiratori più anziani come «uomini del passato» costituiva, tanto più in un'epoca dominata dall'idea di progresso, un'arma polemica efficacissima.Chi era invecchiato in un sistema di idee superato, chi restava ancorato al materialismo e all'individualismo del XVIII secolo, secondo Mazzini difficilmente avrebbe potuto mutare le proprie convinzioni e guidare con successo la battaglia per l'indipendenza nazionale.Fu soprattutto con i moti del 1848-1849 che la centralità dei giovani si allargò oltre i ranghi della cospirazione (mazziniana e non solo) diventando un fenomeno diffuso. Le insurrezioni del '48 videro infatti protagonista la gioventù intellettuale urbana, ma anche tanti giovani e ragazzi del popolo.Allo scoppio delle ostilità tra il Piemonte e l'Austria, furono migliaia i giovani che si arruolarono nelle formazioni volontarie; un fenomeno, quello del volontariato, che avrebbe poi scandito a più riprese la lotta per l'indipendenza e l'unità nazionale. Uno degli episodi più famosi del '48, destinato a simboleggiare come forse nessun altro la partecipazione dei giovani al Risorgimento, fu quello degli studenti universitari toscani (in gran parte dell'ateneo di Pisa) che, arruolatisi volontari, combatterono eroicamente contro gli austriaci a Curtatone e Montanara, a poche miglia da Mantova, riportando molte perdite.Proprio l'episodio appena citato di Curtatone e Montanara doveva legare la partecipazione dei giovani alla loro accentuata disponibilità al sacrificio e al martirio, alla loro capacità di far prevalere l'amore per l'Italia su ogni altro sentimento e affetto.Ecco ad esempio le parole dell'«addio del volontario» cantato allora dai giovani studenti toscani: «Addio, mia bella addio, / l'armata se ne va; / se non partissi anch'io / sarebbe una viltà! Tra quanti moriranno / forse ancor io morrò; / non ti pigliare affanno, / da vile non cadrò».Il 1848-1849 popolarizzò (e consegnò alla leggenda) il binomio gioventù ed eroismo anche attraverso una delle figure più famose tra i caduti del Risorgimento, il mazziniano Goffredo Mameli.Morto a ventisette anni nella difesa della Repubblica romana, aveva composto poco prima (nel 1847) le parole del futuro inno nazionale italiano; un inno nel quale, non per caso, Mameli richiamava la figura di Balilla, l'eroe giovinetto che secondo la tradizione a metà del Settecento aveva incitato i genovesi alla ribellione contro gli austriaci che occupavano la citta'.

domenica 3 marzo 2013

Giuseppe Bandi


Scrittore e patriota (Gavorrano, Grosseto, 1834 - Livorno 1894), mazziniano, preparò una rivolta in Toscana nel 1857, che fallì e costò al B. due arresti e un anno di prigionia. Nel 1859 entrò nell'esercito piemontese, che abbandonò nel 1860 per partecipare alla spedizione dei Mille; di nuovo ufficiale regio, partecipò alla battaglia di Custoza (1866). Dopo il 1870, si diede al giornalismo fondando e dirigendo due giornali, la Gazzetta livornese (1872) e il Telegrafo (1877). Nell'opera I Mille, pubblicata a puntate sul Messaggero e sul Telegrafo dal 1886 (raccolta poi in volume nel 1902), lasciò i ricordi dell'impresa; essa, insieme con le Noterelle dell'Abba, è la più vivace e limpida rievocazione della spedizione garibaldina. Morì assassinato da un anarchico.

venerdì 15 febbraio 2013

SARA LEVI NATHAN



Una donna dell’800 che ebbe un rilevante ruolo della storia della democrazia italiana di quell’epoca fu SARA LEVI NATHAN, nata a Pesaro il 7 dicembre 1819 nel “getto grande” , da Angelo Levi di Senigallia e da Enrichetta Rosselli di Livorno.Ella a 17 anni sposò l’agente di borsa Meyer Moses Nathan e lo seguì in Inghilterra; dal matrimonio nacquero dodici figli: David, Enrico, Jenet, Adolfo, Ernesto, Enrichetta, Joe (Giuseppe), Filippo, Walter, Alfredo, Adah, Beniamino.A Londra Sara Levi Nathan (quasi sempre chiamata Sarina), tramite i parenti Rosselli conobbe Giuseppe Mazzini e incominciò a interessarsi alle iniziative delle donne inglesi a favore della causa italiana per cui si batteva Giuseppe Mazzini.Negli anni cinquanta dell’800 la casa di Sarina diventò luogo d’incontro degli esuli italiani: Mazzini, Saffi, Quadrio, Campanella.Alla morte del marito, nell’estate del 1859, Sarina ritornò in Italia soggiornando a Roma, Firenze e Milano accolta con amicizia dai democratici che aveva frequentato a Londra e che erano rientrati in patria ove erano in atto i processi di unificazione del Paese, in particolare Maurizio Quadrio, Carlo Cattaneo, Giuseppe Garibaldi.Nell’ottobre del 1862 affittò una villa a Cornegliano per i bagni, mentre Mazzini era sotto falso nome a Genova e Sarina sorvegliata dalla polizia rischiò l’arresto, per cui si trasferì a Lugano e la sua casa divenne luogo di soggiorno abituale di Mazzini, e meta di molti visitatori da Manzoni e Cattaneo, da Bertani a Mario, mentre Maurizio Quadrio, che scriveva per i giornali mazziniani, fu precettore ai tanti figli di Sarina, che impiegò il cospicuo patrimonio ereditato dal marito per sostenere le iniziative repubblicane.
Sara Levi Nathan, insieme ai suoi figli, dedicò le sue energie alla diffusione del le idee mazziniane, e alla raccolta dei suoi manoscritti e alla documentazione dell’opera politica di Giuseppe Mazzini che, poi, il figlio Ernesto Nathan, diventato sindaco di Roma dal 1907 al 1913, donò allo stato italiano nel 1900.
A Roma Sarina aprì la Sala Mazzini dove dal 1873 al 1882, la domenica, si tenevano conferenze per spiegare “I doveri dell’uomo” scritti da Mazzini; inaugurò a Trastevere una scuola femminile, gratuita, finanziò la stampa mazziniana, ecc.. Sara morì a Londra il 19 febbraio 1882, sola, non informando nessuno della sua imminente scomparsa.Il figlio Ernesto Nathan, quale sindaco di Roma, moltiplicò il numero delle scuole, dei giardini d’infanzia, municipalizzò le linee tranviarie, costruì case popolari, tassò le aree fabbricabili, varò un piano regolatore.Giuseppe Mazzini morì a Pisa in casa della figlia di Sarina che l’accudì fino all’ultimo respiro, come aveva fatto tre anni prima con Carlo Cattaneo che morì a Lugano in casa Nathan.
On. Giuseppe Righetti