sabato 30 luglio 2011

La dolorosa storia del sovversivo e della carbonara

Della sofferta storia del Risorgimento italiano esiste anche una “versione femminile” poco trattata dai libri di storia. Eppure furono molte le donne che militarono nelle associazioni carbonare e parteciparono alle insurrezioni. Si tratta soprattutto di aristocratiche, come del resto, almeno all’inizio, lo furono in gran parte anche gli uomini. Per focalizzare la figura di Teresa Casati Confalonieri è necessario inquadrare il contesto storico della sua breve vita. Nata il 7 settembre 1787 nella Milano austriaca Teresa crebbe con il governo napoleonico. La sua istruzione si svolse nel convento di S. Agostino dove erano educate le fanciulle della nobiltà milanese. Aveva quindici anni quando un ufficiale francese, il duca de Pasquier, la chiese in moglie precisando che intendeva allontanarla da quei libri di letteratura e di storia che tanto contribuivano alla sua mestizia. Teresa rifiutò e questo aneddoto è abbastanza indicativo della sua personalità sensibile alla cultura.

Federico Confalonieri e Teresa Casati Confalonieri
La ragazza rimase in convento fino a diciannove anni e poco dopo incontrò Federico Confalonieri, di due anni più grande di lei. Siamo nel 1806: il potere napoleonico sembrava invincibile e il vicerè Eugenio Beauharnais teneva a Milano una corte spensierata e brillante. Poco dopo il matrimonio Teresa vi fu ammessa come dama di compagnia della viceregina Maria Amalia di Sassonia. La situazione tuttavia non era delle più facili, dato che il vicerè le prodigava eccessive attenzioni causando una marea di pettegolezzi sul conto suo e, ovviamente, del marito che rifiutò più volte l’elargizione di prestigiosi incarichi da parte di Beauharnais. Ma questa fu solo la prima di una serie di maldicenze. La morte dell’unico figlio ancora bambino le verrà infatti imputata dalla vox populi che la accuserà di averlo perso di mano mentre lei e Federico giocavano a lanciarselo. Altri insinueranno invece un trattamento violento da parte di Federico che in qualche modo intendeva “temprarlo”. Nell’una e nell’altra versione si nota un accanimento malevolo nei confronti dei due sposi, fattore che riemergerà clamorosamente nel corso delle vicende politiche.
Nel 1814, alla sconfitta di Napoleone, il popolo di Milano insorse contro l’amministrazione francese. Particolarmente crudele fu l’episodio di linciaggio del ministro delle finanze Prina letteralmente fatto a pezzi dalla folla. Nonostante le testimonianze che lo dichiaravano responsabile solo di aver rotto il ritratto di Napoleone e di averlo buttato dalla finestra, Confalonieri fu accusato di avere addirittura capeggiato il linciaggio. Come esponente dell’aristocrazia antinapoleonica ebbe in quello stesso anno un incarico ufficiale: seguire il congresso di Parigi che avrebbe deciso la sorte della Lombardia. Il giovane si batté perché se ne facesse uno stato autonomo, ma gli accordi internazionali ne decretarono l’annessione all’impero asburgico. Di quei giorni esistono le lettere che i due Confalonieri si inviavano reciprocamente, lui da Parigi, lei da Milano. Teresa era infatti confidente e portavoce del marito, oltre che coordinatrice delle sue attività. Le scrive Federico: “L’Austria è l’arbitra, la padrona assoluta dei nostri destini…si potrà solo implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare”. E ancora: “Venimmo a domandare l’esistenza e l’indipendenza di un paese dopo che esso era già stato venduto”. Intanto il generale austriaco Niepperg era entrato con le truppe a Milano, ma vi rimaneva il generale Mac Farlane quale emissario degli Inglesi. Gli umori della città si manifestavano apertamente alla Scala ed è Teresa a darne fedele resoconto al marito: “A teatro domina il partito degli Inglesi e quando arrivano…tutta la platea fa loro grandissimi applausi e quando arrivano gli altri nei palchettini di corte si fanno applausi, ma minori”. Un partito “inglese” infatti si affacciò presto nella vita milanese, di fronte a un governo che con il decreto del 12 giugno 1814 aveva unito la Lombardia e il Veneto in un’unica provincia dell’impero priva di rappresentanti degni di questo nome. I deputati eletti (18 in Lombardia, 16 in Veneto) avevano infatti solo potere consultivo e si limitavano a “inviare petizioni al sovrano”. Andava anche facendosi strada, in mezzo alle tante richieste di autonomia locale, l’idea dell’unità d’Italia. A sostenerla era solo un ristretto gruppo – Confalonieri, Di Breme, Porro – ma i propositi erano già chiari: “Stiano gli Italiani uniti, non presentino che un sol voto, si dimentichino quel fatale e malinteso patriottismo di città per non servire che al patriottismo di Nazione” (lettera di Federico a Teresa del 13 maggio 1814). L’anglofilia si rivolgeva verso il sistema liberale che ne faceva “nazione maestra” e lì Federico si diresse dopo il fallimento degli accordi di Parigi tornando a Milano solo un anno dopo.
I due coniugi decisero di partire insieme per un lungo viaggio culturale e politico che li vide a Parma, Bologna, Roma, Napoli e in Sicilia. Strinsero in tal modo legami con personalità del tempo, come Guglielmo e Florestano Pepe a Napoli, ma anche con militanti delle sette carbonare diffusissime nell’Italia meridionale. Teresa in particolare si dedicò alla divulgazione di un progetto a lei caro: la fondazione di scuole ispirate ai nuovi metodi pedagogici lancasteriani (ispirate cioè ai metodi del quacchero Joseph Lancaster e seguite anche dal pedagogo svizzero Johan Heinrich Pestalozzi), chiamati anche “insegnamento mutuo”. Ritenendo infatti che la coscienza di cittadini si formasse nella scuola, Teresa e Federico intendevano opporre alle scuole asburgiche, strutturate in modo da inculcare devozione nell’imperatore e nella religione, le moderne scuole che andavano affermandosi in Francia e Gran Bretagna. Questo tipo di insegnamento si basava sui gruppi di studio simultanei tra scolari, nei quali i migliori fornivano ripetizioni ai compagni meno brillanti agevolando il lavoro dei maestri, spesso obbligati a tenere classi molto numerose. Il sistema era rivolto soprattutto all’istruzione delle classi povere. Durante questo lungo tour italiano Teresa entrò in una loggia carbonara, più esattamente in quei gruppi femminili chiamati “la società delle giardiniere” e, forse non a caso, dopo quel viaggio l’associazione cominciò a essere presente anche in Lombardia. A Roma Federico e Teresa erano stati segnalati anche da Monsignor Pacca, pro-segretario di Stato, che aveva inviato alla polizia di Milano un dettagliato rapporto sulle loro frequentazioni concludendo: “la loro parola, si può dire di passo, è che questa epoca si deve chiamare quella della schiavitù”. Appena tornati a Milano Federico ripartì da solo per l’Inghilterra, dove il 3 settembre 1818 fu iniziato alla massoneria inglese grazie al duca di Sussex fratello del re.
Al suo ritorno si aprì l’entusiasmante stagione de Il Conciliatore, il noto periodico di cultura eclettica e di tradizione illuminista da lui fondato insieme al conte Porro Lambertenghi e nel quale illustrò le sue idee sulla navigazione del Po e l’illuminazione pubblica. Ma il giornale fu soppresso nel 1819.
Il Conciliatore
Cominciò a questo punto l’attività segreta di Federico Confalonieri che divenne in breve il referente dei liberali piemontesi sviluppando un progetto di governo lombardo-veneto federato al Regno di Sardegna. Probabilmente il partito dei “federati” era una società carbonara di ambito buonarrotiano, scaturito da una delle varie sette ispirate dal pensiero di Filippo Buonarroti, in particolare dalla cerchia più alta, quella dei “Sublimi Maestri Perfetti” di cui era esponente lo svizzero Alessandro Andryane. L’attività cospiratoria del gruppo, che si riuniva in casa Confalonieri, aveva lo scopo di cacciare il governo austriaco e annettere la Lombardia al Piemonte sabaudo, istituendo un regime federale e costituzionale al quale si sarebbero poi unite anche le altre regioni. Teresa collaborava alle scuole di insegnamento mutuo, fondate in gran numero in quel periodo anche in Lombardia, fino alla loro chiusura avvenuta nel 1820 – proprio quando se ne stava per fondare una femminile – con il pretesto che “erano affidate a persone pericolose”. Scoppiò nel frattempo la rivolta del marzo 1821 quando il giovane reggente Carlo Alberto giurò fedeltà alla costituzione. La rivoluzione piemontese si esaurì presto e Carlo Felice riprese presto i suoi poteri, mentre a Napoli la rivolta capeggiata da Guglielmo Pepe era stata già soffocata da un intervento armato austriaco e i cospiratori arrestati.
Carlo Alberto di Savoia Carlo Felice di Savoia Guglielmo Pepe
In Lombardia il complotto era stato fiutato dal giudice inquirente Antonio Salvotti che operò una serie di arresti. Pur avvertito dall’amico austriaco Bubna, Federico non si mise in salvo e fu catturato in casa il 13 dicembre 1821. Il processo, che seguiva di poco quello di Pellico, fu celebrato nel biennio successivo. La sentenza, emessa il 19 dicembre 1821, condannava a morte tutti i maggiori responsabili: Confalonieri, Pallavicino, Andryane e a pene detentive gli altri. Teresa allora decise di recarsi a Vienna a chiedere la grazia all’imperatore accompagnata dal suocero, dal cognato e dal fratello. Francesco I si rifiutò di riceverla ma concesse udienza ai tre uomini, ai quali comunicò di avere già firmato la sentenza. Teresa invece riuscì a parlare con l’imperatrice Carolina Augusta, la quale si intenerì e convinse l’imperatore a concedere la grazia sulla base di irregolarità processuali. Il decreto fu letto in piazza il 21 gennaio 1824 e stabiliva la pena dell’ergastolo per Confalonieri e Andryane, 20 anni per Borsieri, Pallavicino e Castillia, 10 anni per Tonelli, 3 per Arese, tutti da scontarsi nella fortezza dello Spielberg in Moravia con il regime del carcere duro. I testimoni dell’epoca fornirono illuminanti dettagli sull’atmosfera del momento. Il consigliere Rosmini scriveva: “La sentenza fece grande impressione, ma sia dai buoni che dai cattivi fu censurata la clemenza di Sua Maestà usata a Confalonieri. La nobiltà quasi tutta l’approvò, come è ben naturale. Non però così la classe dei cittadini e del basso popolo che, avendo saputo che Sua Maestà aveva già firmato la sentenza di morte, accettò malvolentieri la grazia dell’imperatore attribuendola ai maneggi della famiglia del condannato”. Ancora una volta quindi, e nell’occasione più tragica, riemergeva la scarsa simpatia da cui erano circondati i due Confalonieri, fatto -questo- completamente rimosso dalla storiografia successiva tesa più che altro a esaltare l’amore coniugale e a trasformare l’impegno di lei in una languorosa storia romantica.
Benché considerate non perseguibili le “giardiniere” rimasero a lungo controllate dalla polizia come raccomandato nel 1823 dallo stesso imperatore Francesco I che scriveva di: “sorvegliare attentissimamente e di tenere d’occhio con cura le loro azioni”. Al governatore della Lombardia, conte di Strassoldo, era stato passato l’elenco dei loro nomi: “Camilla Fè, Matilde Dombowski, Bianca Milesi, le contesse Fracavalli e Confalonieri, Teresa Agazzini nata Cobianchi e Amalia Tirelli pure nata Cobianchi”. Teresa rivide il marito per l’ultima volta il 4 febbraio 1824 prima che i detenuti partissero per lo Spielberg. Pochi mesi dopo, con un altro viaggio a Vienna, chiese in un’udienza all’imperatore il permesso di andare a vivere a Brno nei cui pressi si trovava la fortezza, ma Francesco I rifiutò. Nel 1826 Teresa organizzò un tentativo di fuga grazie alla comprensione di un carceriere dello Spielberg. Ma Federico non volle evadere, temendo rappresaglie ai danni degli amici con lui detenuti, specialmente nei confronti del suo compagno di cella Alessandro Andryane. Teresa perse in poco tempo anche le amiche più care, già partecipi del complotto carbonaro. Nel 1825 morì Matilde Viscontini e due anni dopo Erminia Frecavalli; ormai la società delle giardiniere era decimata. Nel 1830, già ammalata, scrisse ancora all’imperatore: “Alla misericordia di Vostra maestà io porgo una preghiera: che mi sia concesso di terminare i miei giorni accanto a quello che la Provvidenza mi ha dato per compagno”. Ma ancora una volta il sovrano rimase impassibile. Il 26 settembre 1830, ad appena 43 anni, Teresa cessava di vivere.
Le Giardiniere
La società delle giardiniere si configurava come una vera e propria carboneria femminile con proprie riunioni tenute in quelli che si definivano “giardini”, equivalenti alle riunioni maschili chiamate “vendite”. Ogni giardino era composto da nove donne che vagliavano attentamente ogni nuova candidata. Come la carboneria anche la società delle giardiniere aveva i gradi: apprendista e maestra. L’apprendista aveva per motto “Costanza a Perseveranza” e doveva apprendere i programmi operativi. La maestra aveva come motto “Onore e Virtù” e poteva portare un’arma. La società fu in origine attiva a Napoli e successivamente si estese nel Lombardo-Veneto dove già nel 1819 ne scriveva allarmato il cardinale Consalvi. Ma, almeno all’inizio, la loro attività non fu presa molto sul serio. Le giardiniere agirono durante le insurrezioni e i complotti del 1820-21, quando sia il re Ferdinando di Borbone a Napoli che il reggente Carlo Alberto a Torino giurarono sulla costituzione spagnola del 1812 ritrattando poco dopo. Nel Lombardo-Veneto furono arrestate e interrogate, ma per la maggior parte considerate non perseguibili. Fu il caso di Maria Erminia Gambarana Frecavalli che funse da coordinatrice tra la Lombardia e il Piemonte portando messaggi allo scopo di preparare l’arrivo delle truppe sabaude. Arrestata nel 1821 insieme ai fautori del complotto antiaustriaco ebbe gli arresti domiciliari. Analoga sorte per Matilde Viscontini, che aveva sposato il generale polacco Dembowki e ispirato un grande amore allo scrittore francese Stendhal. Arrestata nel 1822 fu pesantemente interrogata da Antonio Salvotti che, vista la sua resistenza a non confessare, fu costretto a rimetterla in libertà vigilata. Preferì invece fuggire all’estero la pittrice Bianca Milesi allieva di Hayez la quale alla fine si stabilì con il marito a Parigi. Molto diversa fu la sorte delle giardiniere a Napoli, incarcerate, processate e condannate nell’ambito della repressione anticarbonara che si svolse nel Regno delle Due Sicilie nel decennio successivo all’intervento austriaco.

venerdì 29 luglio 2011

L'età della Restaurazione


L’età della restaurazione, dal 1814 al 1848,fu contrassegnata anche in Italia da un clima generale di repressione di ogni dissenso politico. Attività cospirative clandestine portarono tuttavia ai moti rivoluzionari liberali nel 1820-21 di Napoli e del Piemonte e nel 1830 di Modena. Successivamente, iniziative rivoluzionarie mazziniane furono organizzate in Piemonte nel 1833 e 34, e nel Regno di Napoli nel 1844. Nessuna ebbe esito felice.
L'Europa nel 1814
La situazione politica generale, dopo il 1814, era molto difficile. Il Regno lombardo-veneto fu annesso all’impero asburgico, e gli Austriaci imposero un ferreo controllo poliziesco, teso ad impedire ogni forma di dissenso politico. Nel Regno di Sardegna, Vittorio Emanuele I abolì il codice napoleonico, ripristinò il foro ecclesiastico, riammise l’Ordine dei Gesuiti e restituì al clero il monopolio dell’istruzione. Nel Granducato di Toscana Ferdinando III di Lorena tornò alla tradizione dell’assolutismo illuminato della sua famiglia. Nello Stato pontificio Pio VII tornò subito all’ordine antico. Nel Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, pur mantenendo il codice napoleonico restituì tutti i poteri al clero, arrivando a ripristinare il foro ecclesiastico. Nel Ducato di Parma e Piacenza, Maria Luisa d’Austria governò con moderazione, evitando le persecuzioni e le censure tipiche di questa età. Nel Ducato di Modena e Reggio, Francesco IV fu un intransigente e fanatico reazionario, che si accostò alla Carboneria sfruttandola, senza però ottenere risultati positivi.
In questo quadro, lo spirito patriottico che si era manifestato durante il periodo napoleonico fualimentato dalle società segrete come quelle dei Filadelfi, degli Adelfi, della Carboneria, della Società dei Centri. I primi risultati di questa attività cospirativa, si ebbero in Italia nel luglio del 1820, nel Regno di Napoli, quando, sollecitati dai moti spagnoli, i generali Florestano e Gugliemo Pepe, su ispirazione carbonara, si ribellarono con una guarnigione al re per chiedere la Costituzione, che fu concessa. La ribellione fu repressa nel marzo dell’anno dopo grazie all’intervento degli eserciti della Santa Alleanza. In quello stesso mese, approfittando degli impegni militari austriaci nel Regno delle Due Sicilie fu organizzata una sollevazione anche nel Regno di Sardegna, per opera di Santorre di Santarosa, che fece ribellare alcuni reparti dell’esercito ad Alessandria, Vercelli e Torino. All’inizio Carlo Alberto, che regnava in assenza del legittimo sovrano Carlo Felice temporaneamente assente da Torino, concesse la Costituzione chiesta dai rivoltosi. Ritornato sul trono, Carlo Felice sconfessò l’azione del Principe e chiese l’intervento degli Austriaci, che repressero i moti.
Altri moti di matrice carbonara furono quelli del 1830 a Modena. Qui la carboneria locale aveva intrecciato rapporti amichevoli con il duca Francesco IV, che sembrava ambiziosamente interessato ad espandere il suo piccolo ducato in un regno italico. Fiduciosi dell'appoggio del duca, i congiurati diedero inizio alla rivolta, ma il duca tradì le aspettative e fece arrestare e giustiziare molti dei capi della rivolta, tra cui Ciro Menotti.
Dalla critica al fallimento dei moti ispirati dalla Carboneria, trasse ispirazione Mazzini per varare la nuova organizzazione della Giovine Italia, basata ssu precisi obiettivi politici: indipendenza, unità, libertà. Entusiastiche adesioni al programma della Giovane Italia si ebbero soprattutto tra i giovani in Liguria, in Piemonte, in Emilia e in Toscana che si misero subito alla prova organizzando nei primi anni Trenta una serie di insurrezioni che si conclusero tutte con arresti, carcere e condanne a morte.

sabato 23 luglio 2011

Peppa a Cannunera

L'8 aprile scoppiano in città gravi tumulti: fanno eco alle rivolte di Palermo e di Messina. Oltre tremila catanesi scendono armati nelle strade adunandosi nel piano del Duomo al grido di "Viva Palermo", "Viva l'unità d'Italia", "Viva Vittorio Emanuele II".

Gli insorti e le truppe borboniche entra in contatto: violentissimi i primi scontri. Il comandante della piazza, generale Tommaso Clary, ordina alle truppe di ritirarsi nelle caserme e nel castello Ursino. Per evitare un ulteriore spargimento di sangue, il generale borbonico e le autorità civili concludono una tregua. Ma il giorno 10, a sera, la rivolta divampa nuovamente, anche se per poche ore. L'11 maggio Giuseppe Garibaldi con le sue "camicie rosse" sbarca a Marsala. La Sicilia si infiamma. Catania segue con entusiasmo le notizie dell'avanzata delle truppe garibaldine, che premono su Palermo.
La città è fortemente presidiata dai riparti del generale Clary. E i patrioti? Si annidano in tutte le case. Le squadre organizzate convergono alla spicciolata a Mascalucia, Acireale e Lentini. Le comanda il colonnello Giuseppe Poulet, ministro della Guerra nel 1848-49. Nella notte fra il 30 e 31 maggio una drammatica riunione si svolge a Mascalucia. Numerosi ufficiali accusano il colonnello di indecisione e di vigliaccheria: "voi non volete attaccare perché non avete coraggio". E Poulet, rinunziando al piando di far convergere contemporaneamente le tre squadre sulla città, non potendo avvertire subito le colonne attestate ad Acireale e Lentini, rompe gli indugi: "Si marci su Catania". Le squadre di Mascalucia contano poco meno di mille uomini e dispongono di tre cannoni. A queste esigue forze male armate si contrappongono i tremila soldati di Clary, affiancati da forti squadroni di cavalleria. Ma gli insorti non si curano di questa sproporzione di forze. Ormai la decisione è presa.
All'alba del 31 maggio, le campane delle chiese del Borgo suonano a distesa: la rivolta comincia. Altri rintocchi fanno eco dalla chiesa del Carmine. I borbonici sono all'erta: Clary li ha dislocati nel cuore della città facendo innalzare barricate sulla via del Corso, dalla piazza San Francesco alla piazza San Placido, e nelle piazze del Duomo e dell'Università. I soldati sono in allarme.
I mille insorti adunati a Mascalucia scendono in città: al Borgo il primo contatto con i cavalleggeri borbonici. Partono le prime fucilate mentre bandiere tricolori spuntano sui balconi. La cavalleria indietreggia precipitosamente fino a piazza Università e salda dietro e barricate attorno alle quali presto si accende una lotta accanita.
Ecco, ora, inserirsi nella lotta l'intrepida popolana Peppa (Giuseppa) Bolognara, nata a Barcellona Pozzo di Gotto. Si combatte aspramente attorno alle barricate, in via Stesicorea, ai Quattro Cantoni, nella via Mancini e nella strada degli Schioppettieri: un gruppo di insorti, guidati dall'eroica donna, riesce a trascinare un cannone alle spalle delle truppe e a piazzarlo nell'atrio del palazzo Tornabene, nel piano dell'Ogninella. A un ordine secco di Peppa, gli insorti spalancano il portone e la popolana, accesa la miccia, scarica una cannonata contro i borbonici, i quali, colti di sorpresa, si riparano in piazza degli Studi e nel palazzo degli Elefanti, abbandonando sulla via un cannone. "Prendiamolo", grida Peppa e, lanciata una robusta fune, riesce a ghermire quel pesante pezzo e a trascinarlo dalla sua parte. Il combattimento, a mezzogiorno, ancora infuria nel cuore della città.
"Gl'insorti avevan quasi esaurito le munizioni, sicchè il loro attacco incominciò ad infiacchire. Di ciò si accorse il generale Clary che cercò con una carica di cavalleria per alla via del Corso di aggirare la destra dei suoi avversari. Giusto in quel punto un gruppo di insorti, con la testo Giuseppa Bolognara, sboccava in piazza San Placido dalla cantonata di casa Mazza, trascinando il cannone guadagnato ai borbonici per cercare di condurlo nel parterre di casa Biscari e lanciare qualche palla contro la nave da guerra che già bombardava la città, coadiuvata dal fuoco dei due mortai posti sui torrioni del castello Ursino. Appena però quei popolani sboccarono sulla via del corso videro, in fondo a piazza Duomo, due squadroni di lancieri che si apparecchiavano alla carica. Temendo di essere presi, scaricarono all'improvviso i loro fucili abbandonando il cannone già carico. Ma Giuseppa Bolognara restò impavida al suo posto e con grande sangue freddo improvvisò uno stratagemma, dando nuova prova del suo meraviglioso coraggio. Sparse della polvere sulla volata del cannone e attese tranquilla che la cavalleria caricasse. Appena gli squadroni si mossero, essa diede fuoco alla polvere e i cavalieri borbonici credettero che il colpo avesse fatto cilecca prendendo fuoco soltanto la polvere del focone. Si slanciarono perciò alla carica sicuri di riguadagnare il pezzo perduto; ma appena avvicinatisi di pochi passi, la coraggiosa donna li attendeva a pie' fermo, diede fuoco alla carica con grave danno degli assalitori e riuscì a mettersi in salvo".
L'esito della gloriosa giornata non è tuttavia quello sperato. Poco dopo mezzogiorno i patrioti non hanno più una cartuccia. Giuseppe Poulet, in redingote, cilindro e guanti bianchi, si porta allo scoperto nella piazza Università, balza sulle brigate e grida, animato da indomita fede: "Arrendetevi, siete nostri fratelli".Clary reprime la rivolta: dalle porte della città entrano le colonne napoletane scacciate dagli altri centri dell'isola dai reparti garibaldini. Entrano a Catania e sulla città di Sant'Agata scaricano il loro livore e la loro ira.Ma ecco, improvviso, l'ordine di sgombrare: i borbonici si allontanano il 3 giugno. Su tutte le torri, dal castello Ursino al castello di Aci, dal campanile del Duomo ai balconi del palazzo di città garriscono al vento le bandiere tricolori.
Vien costituita immediatamente la guardia nazionale: suo comandante è l'intrepido marchese di Casalotto, Domenico Bonaccorsi. Dieci giorni dopo la città ha un nuovo patrizio, il barone Francesco Pucci.

Colomba Antonietti

Giuseppe Garibaldi nelle sue Memorie così racconta la morte di Colomba Antonietti, caduta durante la difesa di Roma dove la Repubblica Romana, il 26 aprile 1849, aveva dichiarato la resistenza a oltranza contro i francesi del generale Oudinot. Della brigata agli ordini di Garibaldi facevano parte, fra gli altri, quattrocento studenti universitari, trecento doganieri, trecento emigrati, fino a formare un tutto di duemilacinquecento uomini, tra i quali c’erano (nonostante l’apparente contraddizione del genere grammaticale) molte donne, che la numerazione ufficiale non rileva.

“La palla di cannone era andata a battere contro il muro e ricacciata indietro aveva spezzato le reni di un giovane soldato. Il giovane soldato posto nella barella aveva incrociato le mani, alzato gli occhi al cielo e reso l’ultimo respiro. Stavano per recarlo all’ambulanza quando un ufficiale si era gettato sul cadavere e l’aveva coperto di baci. Quell’ufficiale era Porzi. Il giovane soldato era Colomba Antonietti, sua moglie, che lo aveva seguito a Velletri e combattuto al suo fianco.”
Nata a Bastia in provincia di Perugia nell’ottobre del 1826, Colomba visse gli anni della sua “prima” giovinezza a Foligno, insieme alla sua numerosa famiglia occupata presso il forno municipale nella panificazione e nella produzione dolciaria. Accanto al forno era stanziato il Corpo di Guardia della guarnigione pontificia (all’epoca l’Umbria apparteneva allo Stato Pontificio), dove prestava servizio il cadetto conte Luigi Porzi di Imola. I due giovani ebbero così modo di incontrarsi e innamorarsi. Lei appena diciottenne (alta, snella, occhi e capelli nerissimi, ce la descrivono le cronache), lui di poco più grande, dovettero affrontare le resistenze di entrambe le famiglie che, per motivi al tempo stesso simili e opposti, non vedevano di buon occhio la relazione tra due giovani di classi sociali così distanti.
I due però non si diedero per vinti e riuscirono a sposarsi con un matrimonio che doveva rimanere segreto. Per questo Porzi non aveva chiesto l’autorizzazione a contrarlo alle superiori autorità militari, come da regolamento, sperando che la notizia non trapelasse, ma invece venne presto arrestato e recluso a Roma in Castel Sant’Angelo, a scontare un periodo di carcere. Fortunatamente ai due sposi non fu impedito di vedersi, anzi fu loro concesso di stare insieme dall’alba al tramonto e questo rese meno dura la punizione. La prigionia sviluppò nel giovane ufficiale e in Colomba l’odio per l’oppressione e sentimenti che li avvicinarono poco alla volta alla causa dell’indipendenza nazionale, di cui danno testimonianza le lettere scritte dalla giovane alla famiglia. Allo scoppio della prima guerra d’indipendenza, Porzi corse volontario al Nord con le truppe guidate dal generale Durando, e la moglie, tagliati i bellissimi capelli neri, si vestì da soldato per combattere in Lombardia e in Veneto a fianco del marito. Per gli esiti infausti della guerra nel 1849 la Legione Lombarda in cui militavano il tenente Porzi e Colomba Antonietti, dopo l’armistizio Salasco, divenne una formazione regolare dell’esercito Sardo-Piemontese, assumendo la numerazione di VI battaglione Bersaglieri che fu lasciato partire alla volta di Roma, dalla Liguria dove si trovava, al comando di Luciano Manara, per contribuire alla sua difesa. Il 19 di maggio Luigi e la sua Colomba parteciparono con Garibaldi alla battaglia di Velletri, per fermare l’esercito borbonico guidato da Ferdinando II.
Nell’Assedio di Roma Francesco Domenico Guerrazzi rievoca quest’evento, con parole che ci restituiscono tutta intera la breve vita di Colomba che seppe scegliere in libertà, sia per la sua vita personale che per i destini d’Italia:
Aperte le brecce ferve l’opera per metterci riparo; un vero turbine di ferro e di fuoco mulinava su l’area avversa alle brecce francesi, ed una moltitudine di cannonate la solcava per seminarvi pur troppo la morte; tu vedevi i Romani brulicare come formiche portando sacca, sassi, e trainando carretti di terra, né i romani soli, bensì ancora le Romane, e fra queste Colomba Antonietti, che non potendo lasciare solo il marito esposto al pericolo volle ad ogni costo parteciparlo ed in cotesta vita ella aveva durato due anni, che lo sposo suo accompagnò in tutte le guerre d’Italia, e a Velletri fu vista, precorrendo, incorare i soldati: in quel giorno la supplicarono di là si rimovesse, ed ella sorridendo, “Ma se ci lascio il marito morirei di affanno”.
Poi, il 13 giugno, alla disperata difesa del quartiere Porta S. Pancrazio di Roma, dove i francesi avevano aperto una breccia, avvenne ciò che Garibaldi ci racconta. Colomba morì compianta nei giornali dell’epoca e dalle parole di storici e politici, ma la manifestazione più alta l’ebbe dal popolo romano, che accompagnò il feretro coprendolo di rose bianche e seguendolo lungo le vie di Roma fino alla cappella di Santa Cecilia dell’Accademia Musicale, dove la salma fu tumulata. Il suo nome risulta accanto a quello del marito scolpito in molte lapidi che ricordano i caduti delle guerre risorgimentali e naturalmente due epigrafi la ricordano a Bastia e Foligno.

martedì 19 luglio 2011

La battaglia di San Pancrazio

Il primo contatto di Garibaldi con le Marche si ebbe quando il Generale, accompagnato dal fido Angelo Masina, capitano dei lancieri, si precipitò a Roma. I rivoluzionati romani lo avevano invitato nella città eterna per sostenere la causa libertaria, una volta che il Papa Pio IX il senigalliese Mastai Ferretti, si era rifugiato nella fortezza di Gaeta. L’eroe dei due mondi si trovava a Ravenna, pronto a marciare su Venezia per difendere la Repubblica di Manin; alla chiamata del Governo provvisorio Garibaldi non seppe resistere e, a bordo della diligenza di linea Ferrara-Roma, volle raggiungere la capitale prima della sua legione che lo avrebbe seguito di lì a poco.

Giuseppe Garibaldi arrivò a Macerata, il 10 dicembre 1848. Sostò alla locanda della Pace, vicino alla chiesa di San Giorgio. Ripartiti per Roma, Garibaldi e Masina si fermarono a Tolentino; diversi abitanti del luogo li accompagnarono per un lungo tratto di strada. A Roma Garibaldi subì il degrado da generale a colonnello; quindi fece rotta, con 400 seguaci, a Macerata. Ufficialmente Garibaldi e la sua legione erano destinati al porto di Fermo (l’attuale Porto San Giorgio). A Macerata si era già diffusa la voce della venuta della legione; la municipalità che temeva di doversi sobbarcare il mantenimento dei 400uomini,invio’ una commissione guidata dal gonfaloniere Ricci, per accertarsi della realtà dei fatti e soprattutto valutare il comportamento dei soldati. La commissione ebbe un’impressione positiva; Garibaldi e i suoi compagni attraversarono il passo di Colfiorito, dormirono sulla paglia a Serravalle del Chienti; a Tolentino furono ospitati in diversi edifici, tra cui la casa del conte Silveri Gentiloni , dove passarono la notte di Capodanno.
Verso mezzogiorno del primo dell’anno, Garibaldi giunse a Macerata, dove si incontrò qui in questo luogo di Porta Romana, con le bande maceratesi Hercolani e Gianfelici. Garibaldi assicurò subito i presenti che le sue truppe erano composte da fratelli italiani e non da assassini o ladri e che la legione era al servizio,in maniera ufficiale, della Repubblica. La legione, che doveva ripartire l’indomani mattina per il porto di Fermo, ottenuto l’assenso da Roma, si fermò a Macerata qualche giorno di più. La legione era accasermata nell’ex convento di San Domenico, ora sede del Convitto Nazionale. Appena ricevuto il placet da Roma, Garibaldi spedì subito il sottotenente Zannucchi al porto di Fermo, per ritirare gli effetti del casermaggio, che il Governo di Roma aveva promesso al generale. Il commissario all’approvvigionamento della legione garibaldina, Mantegazza, trovò difficoltà nelle forniture; Garibaldi, probabilmente una volta giunto a Rieti, si lamentò delle calzature fornite alla legione, perché “la marcia le aveva ridotte tutte a niente, ancorché furono pagate molto care, cioè 11 paoli . Sotto accusa anche la qualità del pane, che era stato somministrato da un subappaltatore della fornitura generale militare. I legionari respinsero il pane come nocivo alla salute.
Ma se il soggiorno a Macerata permetteva alla truppa di equipaggiarsi, dall’altra parte allontanava sempre di più Garibaldi da Roma, dal suo sogno di una capitale libera dal papa e alla guida dello Stato unitario italiano. Si faceva quindi strada il progetto propugnato da Garibaldi, di far stanziare le legioni a Rieti, una città più vicina alla capitale. Il 13 gennaio il ministro delle armi della Repubblica romana, dopo essersi assicurato, con un trattato, l’aiuto di Carlo Alberto di Savoia, ordinò il trasferimento della legione da Macerata a Rieti. Il circolo popolare chiese però di far rimanere ancora la legione a Macerata come corpo di polizia, in vista delle elezioni dei rappresentanti alla Costituente, l’assise che avrebbe dovuto varare la Costituzione.
Il governo di Roma avvertì il Comune di Rieti di aver accordato ai maceratesi il favore che la legione partisse subito dopo le elezioni, fissate per il 21 gennaio 1849. Il generale si trattiene a Macerata fino al 23 gennaio; alle elezioni risultò tredicesimo su sedici eletti (in pratica fu votato solo dai suoi legionari: il risultato lo raggiunse poi a Rieti. La notte delle elezioni, 22 gennaio 1849 un gruppo di trenta-quaranta persone a Borgo San Giovanni battista, (oggi corso Cairoli) lanciò grida di “Viva pio IX, morte al generale Garibaldi e ai suoi legionari”. L’ordine e la calma furono ripristinati Garibaldi, avvertito della sommossa, riuscì a placare gli animi dei soldati, che volevano passare alle vie di fatto. Insieme a Garibaldi, all’alba del 23 gennaio partirono anche i legionari, diretti alla volta di Rieti. Affettuoso fu il saluto del circolo Popolare; in cambio il generale promise di dedicare a Macerata “il primo fatto d’armi della legione costituitasi nella città marchigiana, in cui potrà dirsi che ha ben meritato della patria”. La lettera di saluto di Garibaldi, oggi la troviamo scolpita in una lapide sotto i portici del Comune di Macerata. Nella fase conclusiva dell’esperienza della Repubblica romana, nel 1848-49, un certo numero di volontari, specialmente da Macerata e Camerino, accorsero alla difesa di Roma; ben diciotto maceratesi morirono e i loro resti oggi sono conservati nel sacrario del Gianicolo a Roma. E la promessa venne mantenuta il 30 aprile 1849, quando la legione garibaldina respinse vittoriosamente a Porta San Pancrazio le truppe francesi guidate dal generale Oudinot. Nella battaglia Garibaldi fu ferito all’addome, ma pregò il medico Pietro Ripari, che lo stava curando, di non rivelare la ferita per non intaccare la leggenda della sua invulnerabilità.
Fu un fatto d’arme che se sfruttato poteva cambiare le sorti della Repubblica romana, ma Mazzini non concesse a Garibaldi la possibilità di caricare a fondo i nemici francesi. Lo stesso generale scriveva al Ministro della Guerra Avezzana: “Inviatemi truppe fresche, e come io aveva promesso di battere i francesi, parola che ho mantenuta, io vi prometto d’impedire che un solo raggiunga i suoi vascelli. Il veto del triumvirato fu un errore fatale che tolse a Garibaldi l’onore d’una vittoria alla Napoleone.

sabato 16 luglio 2011

LE DONNE DEL RISORGIMENTO ITALIANO

Quando si pensa alle donne combattenti del Risorgimento, la prima immagine che affiora alla mente è quella di Anita, vera eroina guerriera, compagna valorosa dell’eroe Piccola Italia, non avevi corone turrite


né matronali gramaglie.

Eri una ragazza scalza,

coi capelli sul viso

e piangevi

e speravi.

Elena Bono, una delle più alte voci poetiche del ‘900
Il contributo che le donne diedero al processo che trasformò un’idea nella realtà dell’Italia unita dalla Lombardia alla Sicilia, si espresse in forme di partecipazione diverse, che lo resero meno eroico e dunque più oscuro, tanto che i loro nomi risultano oggi sconosciuti ai più e neanche citati nei libri di storia.
Vogliamo qui, per quanto è possibile, rompere uno schema consolidato, quello della “donna risorgimentale” come figura polarizzata tra l’eroismo estremo di Anita Garibaldi così come è effigiata nel monumento al Gianicolo, a cavallo con i capelli al vento e la pistola in mano, e il sostegno costante e silenzioso offerto dalle madri, le spose, le figlie.
L’apporto femminile fu non marginale e non limitato alla partecipazione più o meno attiva alla fase di unificazione dello Stato italiano, ma proseguì nel tempo, concretizzandosi in iniziative di alto valore civile e sociale.
Quindi senza dimenticare o sminuire l’operato di tante sostenitrici della causa che hanno assicurato il loro appoggio agli uomini nelle rivolte, nella clandestinità, nella prigionia, si tenterà di mettere in luce figure di donne che da vere protagoniste hanno segnato una decisa maturazione culturale e civile.
DONNE COMBATTENTI
dei due mondi. Ma molte donne del popolo scesero in battaglia, magari per un giorno, spesso trovando la morte, così come molte furono le donne trucidate, offese, violate. Ricordiamo le donne siciliane nei moti del gennaio 1848 a Palermo, che combatterono a fianco degli uomini, vestite da uomo, come Rosa Donato che poi, dopo la restaurazione fu imprigionata per 15 mesi e torturata per ottenere informazioni sui cospiratori. Ma anche le donne che scesero in strada nelle “Cinque giornate di Milano” da 18 al 22 marzo dello stesso anno, combattenti eccezionali che spararono dalle barricate o lanciarono sassi, tegole ed altri oggetti dalle finestre. Molte morirono, anche giovanissime, e quando, la mattina del 6 aprile si celebrarono solenni esequie in onore dei caduti delle cinque giornate, fra le varie iscrizioni poste attorno al catafalco se ne leggeva una interamente dedicata alle donne:
“Animose donne, nel vostro cuore di madri, nell’esempio delle vostre sorelle che posero per la patria la vita, voi troverete il coraggio delle forti virtù cittadine, emulatrici delle siciliane voi cancellerete tre secoli di codarda mollezza e, ritemprate a severi dolori a gioie severe, vi farete degne compagne d’uomini liberi”.
Protagonista della rivolta napoletana fu Marianna De Crescenzo, detta “la Sangiovannara”, un personaggio discusso che fu addirittura beneficiata da Garibaldi di una pensione per il ruolo avuto nella liberazione di Napoli. Era una donna del popolo che possedeva un’osteria, dotata di un grande ascendente sulla gente del suo quartiere, il famoso quartiere di Pignasecca, tanto che fu grazie alle sue doti di grande trascinatrice che la popolazione aderì numerosa alle rivolte, persuasa dalla Sangiovannara che bisognava abbandonare i Borboni e seguire o rre galantuomo e Garibaldi.
Anche l’audace e drammatica impresa del napoletano Carlo Pisacane porta l’impronta di una donna coraggiosa, Enrichetta Di Lorenzo che, se pur già sposata, amò e seguì Carlo sfidando la mentalità del tempo. La loro situazione irregolare comportò gravi disagi e sacrifici: fuggirono da Napoli e, in seguito alla denuncia del marito di lei furono arrestati. La loro prima figlia morì poco dopo la nascita. Nel 1848, con le notizie dei moti insurrezionali contro i Borbone a Palermo e delle giornate milanesi, Carlo si impegnò nella lotta prima nel Lombardo-Veneto, poi a Roma nel 1849 dove Enrichetta prestò la sua opera per curare i feriti e i moribondi combattenti della Repubblica, al fianco di altre donne celebri, come Cristina di Belgioioso. Quando Carlo fu arrestato e rinchiuso a Castel Sant’Angelo, fu lei a prodigarsi disperata per ottenerne la liberazione. La loro avventura personale e politica ebbe tuttavia fine con l’impresa di Sapri, che Enrichetta aveva avversato da subito, inutilmente. La spedizione fu organizzata in seguito ai contatti con il Comitato Insurrezionale Repubblicano del meridione e aveva lo scopo di sollevare le popolazioni del sud contemporaneamente alla spedizione mazziniana al nord. Frattanto, a causa delle attività sovversive del compagno, Enrichetta fu cacciata da Genova, dove si trovava con la figlia Silvia, e trovò rifugio a Torino. Come lei temeva la spedizione di Sapri ebbe un esito drammatico: “Eran trecento eran giovani e forti e sono morti”, raccontò Luigi Mercantini, commemorando così la scomparsa di un audace eroe. Solo dopo l’impresa garibaldina dei Mille, finì l’esilio di Enrichetta da Napoli, dove potè rientrare senza rischio di essere nuovamente arrestata. Collaborerà in seguito al “Comitato di donne per Roma capitale”, fondato nel 1862 a sostegno delle imprese garibaldine.
Senza dubbio la donna che più di altre rappresenta l’eroismo guerriero femminile è Anita Garibaldi, la ragazza brasiliana che, a soli 18 anni, si innamorò dell’eroe dei due mondi e partì con lui, condividendo con coraggio il suo destino, fina alla morte che la colse nelle valli di Comacchio dieci anni dopo, incinta del quinto figlio, dopo una fuga durata 33 giorni. Al fianco del suo uomo in ogni circostanza, dando un contributo fattivo, sempre dimentica dei pericoli che correva, come lo stesso Garibaldi scrive nelle sue Memorie: “La mia Anita era il mio tesoro, non men fervida di me per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa”. Celebre l’episodio avvenuto solo dieci giorni dopo la nascita del primo figlio Menotti quando, assente Garibaldi, le truppe imperiali circondarono la casa dove si trovava Anita con il neonato, inducendola a fuggire. E’ immortalata nel quadro a olio che la raffigura a cavallo di notte, coperta solo dalla camicia con in braccio il bambino di pochi giorni, che fu esposto a Roma in occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia, ora al Museo del Risorgimento, a Roma. Sempre presente a incoraggiare, a sostenere e ad incitare, Anita fu un esempio costante per i soldati che ne ammiravano la tenacia e la resistenza fisica. L’epilogo della storia di Anita, coraggiosa amazzone sudamericana e moglie carismatica del personaggio più eclatante della storia italiana dell’800, inizia con lo sfortunato sbarco dei volontari garibaldini presso Comacchio, quando lei era già moribonda per gli stenti sofferti in stato di avanzata gravidanza. Garibaldi la portò a braccia in una casupola dove spirò senza riprendere conoscenza. Purtroppo non ebbe pace neanche nella morte, poiché Garibaldi dovette immediatamente fuggire e il suo corpo fu sepolto frettolosamente, poi scoperto dalle autorità, portato via e di nuovo sepolto da amici, ma anche stavolta non accuratamente tanto da essere rosicchiato dagli animali. Solo nel 1859 Garibaldi riuscì a far rientrare le sue spoglie a Nizza, dove furono accanto a quelle della madre di lui.
DONNE INTELLETTUALI
Un articolo apparso sul Secolo XIX nell’aprile del 2003 titolava: “I salotti in cui si fece l’Italia”, con un chiaro riferimento all’importanza dei salotti ottocenteschi nella costruzione del Risorgimento italiano e al ruolo sostenuto dalle salonnières del tempo, nella diffusione degli ideali risorgimentali. Milano, Firenze, Torino, Genova, Venezia e Roma furono le sedi dei salotti più importanti, ed ognuno era in genere conosciuto con il nome della padrona di casa. Nei salotti le donne avevano completa libertà di azione e di gestione anzi, possiamo dire che proprio attraverso i salotti le donne riuscirono a creare uno spazio di aggregazione e di espressione all’interno del quale avevano piena legittimità, che veniva loro riconosciuta anche dai numerosi e eccellenti ospiti maschili che venivano invitati. Una sorta di “zona franca” dove certamente vigevano regole ferree riguardo al censo e al “bon ton”, ma che garantiva la libertà di pensiero e di opinione, tanto da diventare spesso vere e proprie fucine di patriottismo, nelle quali esuli e politici potevano ritrovarsi per discutere e, a volte anche progettare azioni sovversive. L’età d’oro dei salotti si può collocare tra gli anni ’20 e ’30 del secolo fino a circa vent’anni dopo l’unità d’Italia, anche se il periodo di maggiore fioritura dei salotti patriottici si concentra nel cosiddetto biennio riformatore, quello tra il 1846 e il 1848 e nel decennio successivo che va dal 1850 al 1860, il famoso decennio di preparazione. Ovviamente la politica non è l’unico argomento di discussione, molta parte dell’attività era dedicata alla lettura e al commento di testi letterari o poetici, alle discussioni sul costume ed anche alla cronaca locale e al pettegolezzo. Tuttavia di politica si parla molto, e di politica di opposizione, tanto che i salotti attirano l’attenzione e la diffidenza della polizia segreta asburgica. Molto ricercati erano gli improvvisatori, poeti capaci di improvvisare versi partendo da una suggestione offerta al momento e, tra questi brillò nei salotti di tutta la penisola una giovane teramana, Giannina Milli che, per i temi fortemente patriottici delle sue composizioni, ricevette, come si legge in una sua biografia, “ammonizioni, richiami e severe censure dalla polizia, che avrebbe voluto legare con un laccio invisibile le sue caviglie, per impedirle di innalzarsi e volare spiritualmente imbracciando la bandiera tricolore”. La Milli fece dell’improvvisazione un elemento attraente e trascinante della poesia patriottica, qualificandola dal punto di vista artistico e facendone anche un rilevante mezzo di diffusione e di propaganda degli ideali risorgimentali, grazie al suo continuo peregrinare per le città italiane, richiestissima nei salotti come nei teatri. I suoi versi, che cantavano “Dio, la famiglia e la Patria, le grandezze, i dolori e le speranze d’Italia”, ne fecero un vero e proprio fenomeno nazionale, nel periodo cruciale della costruzione del Regno d’Italia. L’opera di Giannina Milli proseguì dopo il 1864 con un impegno diverso, volto alla costruzione vera e propria del tessuto sociale e civile unitario. Istituì una fondazione culturale, la Fondazione Giannina Milli, che assegnava premi in denaro a fanciulle meritevoli, tra le quali troviamo Ada Negri e, soprattutto, si dedicò alla formazione e all’istruzione in particolare femminile, dirigendo e istituendo Scuole e Istituti per conto del Ministero della Pubblica Istruzione, diretto dal ministro Scialoja.
Grande ammiratrice e protettrice della Milli, fu Clara Maffei che a Milano aveva il salotto più frequentato e famoso dell’epoca. La lapide posta sulla sua casa la ricorda infatti così: “In questa casa dimorò trentasei anni e morì il 13 luglio 1886 la contessa Clara Maffei, il cui salotto, abituale ritrovo di insigni personalità dell’arte, della letteratura e della musica fu pure, tra il 1850 e il 1859 cenacolo di ardenti patrioti tenaci assertori dell’indipendenza e dell’Unità d’Italia”. Il salotto della Maffei nasce intorno al 1834 e all’inizio fu soprattutto un ritrovo letterario ed artistico, molto raffinato ed elegante frequentato da Manzoni, Verdi, Rossini, Balzac. Nel 1846 però, assunse un carattere spiccatamente politico e liberale, diventando un focolaio di agitazioni a favore dell’indipendenza d’Italia, accogliendo ministri, diplomatici ed alti ufficiali che progettavano di influenzare il corso degli eventi per liberare il Lombardo Veneto dagli austriaci.
Ma l’anno cruciale che diede una svolta operativa alla vita del salotto milanese fu il 1848, con la partecipazione ai moti insurrezionali. Molti nobili patrioti, frequentatori della casa di Clara Maffei, salirono sulle barricate al fianco di popolani e intellettuali ed anche Clara fece la sua parte, sostenendo moralmente ed economicamente gli insorti, aiutando ed assistendo i combattenti. Ospita in casa sua, con grande rischio, la principessa Cristina di Belgioioso, che era giunta a Milano con un gruppo di volontari napoletani.
Clara si compromise così apertamente da dover fuggire a Locarno quando, repressa la rivolta, la reazione austriaca colpì duramente istituendo processi sommari. A poco a poco, con il consolidarsi di una concreta politica liberale e riformista nel vicino Piemonte, Clara Maffei abbandonò le posizioni mazziniane per sostenere la linea di Camillo Cavour. Sostenne fortemente, e finanziò, l’azione dei volontari lombardi di fronte alla prospettiva di una seconda guerra di indipendenza che, come in effetti avvenne, avrebbe potuto vedere il Piemonte alleato con la Francia. Dopo le prime vittorie, l’8 giugno del 1859, Vittorio Emanuele II e Napoleone III entrarono trionfalmente a Milano. Napoleone fece dono alla Maffei di un suo ritratto autografato che fu posto nella parete centrale del salotto. Dopo il 1860, con la liberazione di Milano e della Lombardia, il salotto della Maffei cessò di essere un “covo di congiurati per la libertà” e tornò alla sua connotazione prevalentemente culturale ed artistica, pur mantenendo il patriottismo e il liberalismo come ideali ispiratori e continuando quindi a rappresentare un imprescindibile punto di riferimento per intellettuali e politici.

Un racconto pressoché completo della storia unitaria, narrata dal punto di vista dei protagonisti, è quello che ci è stato lasciato da Costanza D’Azeglio, moglie di Roberto e cognata di Massimo D’Azeglio, nella forma di una raccolta di lettere inviate al figlio Emanuele dal 1835 al 1861, dal titolo Il giornale dei giorni memorabili. Torinese, nobile di nascita, abituata a muoversi fra la gente che faceva la storia, fu una fervente patriota e una attenta osservatrice dei fatti, capace anche di raccontarli in una forma inconsapevolmente giornalistica. Nelle sue lettere al figlio, che erano nell’intenzione originaria lettere riservate, destinate a restare private, riporta i passaggi cruciali della lotta per l’indipendenza, i nomi di coloro che ne furono protagonisti, i dubbi e le incertezze, la gioia dei piemontesi alla notizia della concessione dello Statuto carloalbertino e, contemporaneamente, il timore per le ripercussioni sugli stati vicini. Riusciamo, attraverso la sua narrazione, a cogliere pienamente la prospettiva piemontese nel percorso verso l’unità nazionale, con l’alternarsi di speranze e delusioni, delle paure e delle illusioni che l’hanno accompagnato, dal ruolo di guida contro il nemico austriaco nella vicina Lombardia a quello di protagonista nel processo di unificazione. Costanza, la marchesa D’Azeglio, rivela anche i sui timori ed il suo smarrimento nell’avventurarsi verso la costruzione di un mondo totalmente nuovo, che avrebbe sovvertito l’ordine preesistente, nel quale lei e coloro che appartenevano alla sua classe sociale, avevano un posto ed un ruolo precisi. Cavour, chiamato nelle lettere confidenzialmente Camillo, è percepito come un geniale stratega, audace e lucido al tempo stesso, ma proprio la sua audacia a tratti la spaventa. “Camillo è pazzo?” si chiede Costanza. Lei scorge nella guerra progettata da Cavour qualcosa di più grave della sconfitta e del naufragio del sogno risorgimentale, scorge la fine del Piemonte e della sua società civile ed ordinata, che aveva già realizzato delle conquiste e segnato un progresso civile. In ogni momento fedele “al suo re”, Carlo Alberto prima e Vittorio Emanuele II poi. Le lettere iniziano nel 1835 quando nel Regno di Sardegna imperversa il colera e continuano toccando fatti salienti come l’amnistia concessa da Carlo Alberto ai cosiddetti “ventunisti”, ovvero coloro che avevano partecipato ai moti insurrezionali del 1821 e che, tra l’altro avevano indotto proprio la sua famiglia ad allontanarsi da Torino. Ma l’evento più importante, che trova ampio risalto nelle lettere di Costanza è, ovviamente, la firma dello Statuto da parte del re, nel marzo del 1848. Una “concessione dall’alto” che giunge dopo vari ripensamenti, che valgono a Carlo Alberto l’appellativo di Re Tentenna, influenzata dagli eventi rivoluzionari che stavano agitando l’intera penisola, ma che sarà l’unica Carta Costituzionale a resistere dopo il reflusso reazionario che seguirà ai moti del ’48. La portata di questo evento è enorme e Costanza lo percepisce pienamente, poiché lo Statuto Albertino, con gli 84 articoli che lo costituiscono, pone fine al potere assoluto nel Regno di Sardegna e verrà poi esteso al Regno d’Italia, restando in vigore se pur formalmente nel periodo fascista fino alla Costituzione repubblicana. Ma le lettere di Costanza riportano in modo efficace anche episodi altamente drammatici, come le violenze della polizia austriaca e gli scontri durante le Cinque giornate di Milano, sottolineando proprio l’intervento delle donne che non esitano a lanciarsi nel combattimento: “Le donne – racconta – gettavano dalle finestre olio bollente e vetriolo sui nemici, sparavano con le pistole e, in mancanza di fucili, usavano i recipienti di argilla come bombe”. Dalle Cinque giornate di Milano alla prima guerra di indipendenza, per la quale Costanza nutre grandi speranze, legate soprattutto al coinvolgimento non solo del Lombardo-Veneto, ma anche di Modena, Piacenza e della stessa Sicilia, fino alla amara disillusione con la sconfitta di Novara e la “ritirata del Piemonte, che si era consacrato alla guerra con tutte le sue forze”, come scrive in una lettera, seguita dall’abdicazione di Carlo Alberto, che morirà di lì a poco, in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Costanza mostra grande acume nel giudizio politico su alcuni tra gli uomini più importanti del tempo come Gioberti, che per lei “vive nelle nuvole, si è fatto un mondo immaginario a sua misura e ignora la realtà”, concludendo perentoriamente “ Non è un uomo di Stato”. O lo stesso Carlo Alberto, che assolve dalle sue responsabilità ed errori riconoscendo che “la nostra causa non sarebbe ora perduta se tutti vi si fossero votati come lui”. Mazzini invece viene giudicato negativamente, insieme ai suoi “fanatici”, anche per il chiaro attaccamento alla monarchia da parte di Costanza, che dice di non temere “le loro fanfaronate”, ma ammonisce a non sottovalutarli in quanto “il partito di Mazzini è numeroso e radicato”. Il nuovo re, Vittorio Emanuele II, che ammira e che descrive dal “volto ardito e deciso, che non si lascia mettere in soggezione dal maresciallo Radetzky”, diede nel 1849 pieno appoggio ai liberali, chiamando alla guida del governo proprio Massimo D’Azeglio, il cognato di Costanza, e lei stessa partecipò all’apertura della Legislatura. L’anno seguente entra a far parte del governo Camillo Cavour, e sarà proprio lui a succedere a Massimo D’Azeglio nella carica di Presidente del Consiglio. Da questo momento, con mente lucida ed equilibrata, sarà Cavour a guidare la politica piemontese e a proiettare il piccolo stato sulla scena internazionale, fino a stringere con Napoleone III l’alleanza che vedrà l’ingresso della Francia nella causa italiana. L’ultimatum del 23 aprile 1859 dell’Austria, ovviamente rifiutato da Cavour, segna l’inizio della seconda guerra d’indipendenza e Costanza vive con eccitazione e timore questo momento: “Siamo alla mobilitazione. Sono state richiamate molte classi. Dio voglia che Camillo non sia così imprudente da spingerci ad una fatalità. (…) In questa incertezza io mi sentivo scuotere dal nervosismo, la pelle mi si accapponava dai brividi, ma la paura non era per l’Italia. Ci vedevamo distrutto il Piemonte. Esisteremo ancora o non esisteremo più? Ecco il problema. Ed è tutto nelle mani di Camillo. Ma per parlare più chiaramente, Camillo ne uscirà o è un pazzo?”. Delle seconda guerra d’indipendenza racconta le gesta eroiche così come la dura realtà di battaglie sanguinose, come Solferino, San Martino, dove “quei disgraziati dei nostri soldati – dice – sono rimasti a combattere dalle quattro del mattino alle nove di sera senza bere né toccare cibo: sempre impegnati, spesso in azioni condotte di corsa e spesso costretti ad arrampicarsi lungo i fianchi della collina”. Ma i tono più toccanti e drammatici li troviamo nella descrizione degli ospedali sorti in tutto il Piemonte per accogliere i feriti. dei quali dice: “L’assistenza ai malati e ai feriti è tutta ricaduta sulle mie spalle”. Analizzando la diversa organizzazione degli ospedali francesi e di quelli piemontesi Costanza dice: “I nostri ospedali, diretti con ordine ed economia dalle suore, hanno tutti le loro risorse a servizio e a disposizione dei malati, ma che inferno sono gli ospedali amministrati dai francesi: i sani rubano, e gli ammalati, trattati come cani dagli infermieri, mancano di tutto. (…) Non avendo scodelle sono ridotti a mangiare nei vasi da notte, che è l’unico vasellame di cui dispongono. (…) Il cibo: la carne, le uova fritte, venivano gettate sui letti”. Al termine del conflitto la marchesa ricevette una medaglia d’oro per l’assistenza fornita ai feriti, tuttavia questa gioia fu notevolmente offuscata dalla delusione dovuta all’armistizio firmato ds Napoleone III a Villafranca con gli austriaci. Una delusione che aveva i connotati del tradimento. Cavour si dimise e Vittorio Emanuele II dovette accettare l’armistizio. Il 14 giugno 1860, nei giorni successivi all’impresa dei mille, Costanza esprime il suo parere su Garibaldi che dice essere, “come Mazzini, dominato da una sola idea: l’unificazione del Paese, e vi tende come una freccia che soltanto il bersaglio potrà fermare. E la freccia è ormai scoccata. Ma c’è una differenza con Mazzini; Garibaldi paga di persona, Mazzini si agita ma si tiene al riparo”. Gli eventi poi, si sa, si susseguirono velocemente: la sconfitta dei borbonici, l’incontro a Teano e la simbolica consegna dell’Italia meridionale al Re e l’implicita sottomissione dell’impresa garibaldina alla monarchia sabauda, l’annessione del Regno delle due Sicilie – con un plebiscito – all’Italia di Vittorio Emanuele III e la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte del potere borbonico. “Siamo trascinati da un fulmine – scrive Costanza l’11 settembre 1860 – ti confesso che resto senza fiato. Sembra un sogno la realtà che ci trascina. Siamo come travolti”. Nell’ultima lettera inviata al figlio, l’emozione per la drammatica ed improvvisa morte di Cavour, il 6 giugno 1861 all’età di 51 anni, pochi mesi dopo l’apertura a Torino del primo parlamento italiano, avvenuta il 18 febbraio: “Tutte le classi, le persone di tutte le età ne sono rimaste colpite. La gente nelle strade appariva costernata. Piangevano dappertutto. Questo non è un modo di dire. Le lacrime erano vere. Piangevano al Senato, alla Camera, ai Ministeri”. Ma anche la vita di Costanza stava giungendo al termine. Sia lei che il marito scomparvero l’anno successivo tra lo sconforto dei tanti che avevano aiutato.
UNA PROTAGONISTA DISCUSSA: LA CONTESSA DI CASTIGLIONE
Considerata una delle donne più belle dell’800, Virginia Oldoini, contessa di Castiglione ebbe una parte rilevante nella rete di trame che Camillo Cavour seppe organizzare per la causa italiana.
Fiorentina di nascita, orfana prestissimo di madre e trascurata dal padre ambasciatore, si sposa ancora molto giovane con un cugino di Cavour, Nicchia, questo era il suo soprannome, divenne presto una celebrità proprio grazie alla sua straordinaria bellezza. Il matrimonio le permise di trasferirsi a Torino, di accedere alla corte di Vittorio Emanuele III e di essere presente e ricercatissima in tutte le feste e i ricevimenti più importanti. Il rapporto con il marito inevitabilmente si incrina, e neanche la nascita del figlio Giorgio, restituisce alla coppia la serenità. Virginia è lanciatissima sulla scena mondiale, e la sua ambizione la spinge sempre oltre. Cavour comprende che la bella contessa avrebbe potuto essere un’alleata presso la corte a Parigi, dove lei era giunta con il marito nel Natale del 1855 e dove lui stesso si reca nel febbraio dell’anno seguente. Proprio in quello stesso mese Cavour avrebbe messo a punto il suo piano famoso, secondo il quale la contessa avrebbe dovuto sedurre Napoleone III per ottenere informazioni riservate ed anche per renderlo maggiormente disponibile verso la causa italiana. Esiste una lettera nella quale Cavour dice al ministro Cibrario di aver “arruolato nelle fila della diplomazia la bellissima contessa di Castiglione, invitandola a sedurre l’Imperatore”. In effetti la promessa di assegnare un posto nella delegazione di san Pietroburgo al padre di Virginia fu mantenuta, e così questo padre che viene raffigurato freddo, mediocre, disinteressato da sempre alla sorte della figlia, ottiene per sé dei benefici nella carriera diplomatica. Napoleone III, se pur sposato con una donna di grande bellezza, Eugenia, la “bionda andalusa” era molto sensibile al fascino femminile e rimase colpito dall’avvenenza della contessa al suo primo apparire a corte.
La storia che ebbero, iniziata nel castello di Compiègne dove Napoleone concludeva le vacanze estive, durò pochi mesi ma fu intensa, e servì senza dubbio ad accrescere la popolarità di Virginia, ma non si può stabilire quanto “Minette”, come la chiamava l’Imperatore, sia stata determinante nel favorire i piani di Cavour. Magari riuscì a rinfocolare le antiche simpatie di Napoleone III per l’Italia, e forse gli strappò qualche modesta informazione. Di certo lui era molto astuto e guardingo e non si fidò mai del tutto della contessa. La relazione fra i due durò solo una stagione, il che rende improbabile un condizionamento vero e proprio delle scelte politiche, anche se lei, anni dopo , giunse a dire di “aver fatto l’Italia” e a chiedere di essere sepolta con la camicia da notte che aveva indossato nel suo primo incontro. Come era prevedibile, il resto della vita della donna più ammirata del suo tempo, fu segnato da un inarrestabile declino. Separata dal marito, non ebbe mai un buon rapporto con il figlio che morì giovanissimo per un attacco di vaiolo. Lo storico Andrea Maria Visalberghi scrisse di lei: “per l’amor di Dio e della verità, non trasformiamo Nicchia in uno dei protagonisti del Risorgimento e non facciamo della camicia di finissimo lino indossata nella notte di Compiègne, e che ella avrebbe voluto, e non ottenne, avere addosso anche nella bara, una bandiera nazionale”.

mercoledì 13 luglio 2011

Porta Pia: una porta nella storia di Roma e d'Italia

Porta Pia – Cenni storici

Porta Pia è l’ultima opera architettonica costruita da Michelangelo, e segna la transizione fra il Rinascimento ed il Barocco: edificata tra il 1561 ed il 1564 per volontà di Pio IV Medici di Milano, sostituì la Porta Nomentana, che si trovava a meno di cento metri da essa, e si rese necessario per il cambiamento dell’assetto urbanistico dell’area.
Tre secoli dopo, il 20 settembre 1870, Porta Pia entrò nella storia italiana poiché la breccia che venne aperta dall’artiglieria del Regno d’Italia nelle sue vicinanze permise ai bersaglieri italiani di entrare nella città.
Porta Pia – Descrizione
Michelangelo propose a Pio IV tre progetti differenti di edificazione di Porta Pia: di certo l’aspetto attuale ha subito diversi cambiamenti, poiché molti documenti e medaglie dell’epoca riportano una Porta Pia piuttosto differente da quella che appare ora. Una seconda arcata venne aperta intorno al 1575 per agevolare il transito del traffico, come riportato con un’incisione sull’arcata centrale.
E’ divertente l’interpretazione della decorazione presente sul lato della porta all’interno della città, che ricorda una bacinella con un asciugamano e un sapone al centro. Si dice che si sia trattato di uno scherzo di Michelangelo, che in questa maniera voleva ricordare l’origine del pontefice Pio IV - che pare discendesse da una famiglia di barbieri. La facciata esterna fu terminata solo nel 1869, ad opera di Virginio Vespignani, che sembra si fosse ispirato ad un’incisione del 1568 che doveva essere abbastanza vicina al progetto originario di Michelangelo.
In memoria della breccia di Porta Pia, nel 1932 è stato aggiunto, nel Piazzale antistante la Porta, il monumento al Bersagliere: una scultura bronzea su di un alto piedistallo, voluta da Mussolini ed eseguita dall’architetto Italo Mancini e dallo scultore Publio Morbiducci. Dietro alla Porta, si trova il Museo Storico dei Bersaglieri, con la tomba monumentale di Enrico Toti.

domenica 10 luglio 2011

Il regno delle Due Sicilie

Nel 1713, con la firma della pace di Utrecht, la Sicilia spagnola fu ceduta, con titolo di regno, a Vittorio Amedeo II di Savoia. Dopo un primo momento di soddisfazione per questa investitura da parte dei siciliani, speranzosi di vedere trasformato il regno in punto di riferimento politico per l'unificazione italiana, la nomina andò via via risvegliando l'ostilità dei baroni a causa di una sgradita imparzialità nell'applicazione delle leggi.

Si tornò così a guardare nostalgicamente al governo spagnolo al punto che quando, nel 1718, la Spagna attaccò nuovamente l'isola, trovò ampio consenso tra i nobili; in quella occasione due ingenti eserciti si scontrarono per un anno intero in quella che passò alla storia come la più grande battaglia combattuta nell'isola dai tempi dei romani: la battaglia di Francavilla.
Il sogno di un ritorno spagnolo venne però infranto dall'intervento della Quadruplice Alleanza (Inghilterra, Austria, Province Unite e Francia) che decise la cessione dell'isola all'Impero asburgico.
Dopo sedici anni di dipendenza austriaca, acute tensioni internazionali portarono alla Guerra di Successione polacca: don Carlos (Carlo di Borbone, duca di Parma) vinse sugli austriaci nella battaglia di Bitonto del 1734, riunendo così le sorti della Sicilia a quelle di Napoli.
Divenuto re con il titolo di Carlo III, don Carlos fu salutato con grandi onori; riaprì il palazzo reale di Palermo e introdusse nel regno segni della cultura spagnola, come le corride che si svolsero per tutto il '700 e parte dell'800.
Sotto il figlio di Carlo, Ferdinando, salito al trono di Sicilia nel 1759 con il titolo di Ferdinando III e a quello di Napoli con il titolo di Ferdinando IV, la Sicilia si legò sempre più all'Italia.
Per tutto il secolo XVIII i baroni continuarono a mantenere una forte influenza sul potere politico. La maggior parte dei siciliani viveva sotto la loro diretta giurisdizione; circa una ventina di famiglie possedeva un potere economico
schiacciante e quelle più importanti vivevano in palazzi principeschi.
Tuttavia l'amministrazione generale era condotta all'insegna dell'inettitudine, con alcune importanti eccezioni: il principe di Niscemi fu un attivo uomo d'affari; il principe Biscari di Catania si guadagnò la reputazione di uomo benevolo e dinamico, disponibile ai contatti con il mondo dell'arte, facendo costruire bellissimi musei e lanciando l'industria del lino e del rum.
Molti dei casati nobiliari, pur essendo spesso pieni di debiti, usavano investire ingenti somme negli agi e nella costruzione di auliche residenze: si dice ad esempio che i principi di Valguarnera e di Palagonia avessero pagato rispettivamente 180.000 e 200.000 scudi per le loro ville a Bagheria.
Un secolo di riforme
Il '700 fu il secolo in cui ogni cambiamento nel campo dell'arte e della politica era destinato ad abortire a causa degli schemi conservativi che governavano nella società siciliana. Il genio delle menti più originali era soffocato e spingeva gli artisti a cercare lavoro all'estero; questo fu il destino di artisti illustri quali l'architetto Filippo Juvara, il compositore Alessandro Scarlatti e Cagliostro. Molti erano quelli che si facevano aiutare dai baroni piegandosi così all'ordine costituito.
La speranza di una riforma in campo sociale venne concretizzata nel mondo ecclesiastico: nel 1767 l'ordine dei gesuiti fu espulso e i possedimenti terrieri confiscati, con il pretesto di corruzione, per essere distribuiti ai contadini; anche se alla fine questi latifondi andarono ad ingrandire i possedimenti laici già esistenti. Alcune residenze gesuite furono trasformate in scuole tecniche per i ragazzi più poveri.
Tuttavia le riforme ci furono, anche se piuttosto isolate; una di queste interessò il mondo dell'arte: il fascino che l'isola riscosse attraverso le pagine letterarie di scrittori illuminati, dissolveva lentamente l'isolamento in cui il paese era piombato. Fu soprattutto grazie alle avventure di viaggio raccontate nelle pagine di Patrick Brydone (1773), che la Sicilia venne fissata nell'immaginario collettivo come una terra da esplorare.
Il fascino dell'Illuminismo europero cominciava ad essere evocato dalle letture proibite degli enciclopedisti e dalle traduzioni di opere a carattere filosofico e scientifico, come quelle di Hume e Locke.
Il regno delle Due Sicilie
Fin dall'inizio il dominio dei Borboni eclissò l'antica dignità di regno che la Sicilia aveva saputo conquistare nel tempo, riducendo l'isola ad anonimo territorio di conquista. In questo contesto dilagò un vivo risentimento popolare nei confronti dei viceré, anche quando uno di loro, Domenico Caracciolo, (1781-1786) operò riforme importanti come l'abolizione dell'Inquisizione e la riduzione dei poteri baronali.Soltanto sotto Ferdinando IV i nobili siciliani riuscirono ad ottenere, nel 1812, anche per le pressioni della Gran Bretagna, sotto la cui protezione si era posto il re, una costituzione che rafforzava il loro potere ampliando alcuni privilegi; quando però a Ferdinando IV fu concesso di rientrare a Napoli con la Restaurazione, questa costituzione fu annullata e il re fondò il regno delle Due Sicilie (1816) con il titolo di Ferdinando I.
Questa fusione tolse ai siciliani i pochi privilegi di cui ancora godevano e ogni prerogativa isolana; ne derivò un malcontento generale che si espresse nelle lotte popolari del Risorgimento italiano: Palermo, Catania e Siracusa furono teatro di insurrezioni sanguinose negli anni dal 1831 al 1837.
Esasperati dall'assolutismo borbonico, i siciliani conquistarono la libertà nel 1848 quando Ruggero Settimo, capo della rivoluzione, offrì il regno a Ferdinando Maria Alberto, duca di Genova e figlio di Carlo Alberto, che però non accettò.
Un anno dopo il sogno della Sicilia indipendente venne nuovamente infranto per riaccendersi nel 1860 quando le "giubbe rosse" di Garibaldi, che governava la Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, secondo il proclama di Salemi, contribuì in modo determinante alla liberazione del Mezzogiorno e all'unità d'Italia.

giovedì 7 luglio 2011

Il Risorgimento in Sicilia

Il periodo precedente l’unità italiana viene spesso indicato come “Risorgimento in Sicilia”, ed è ritenuto un periodo di transizione e preparatorio che portò all’annessione del 1860. Ma in realtà, se vogliamo fare una corretta, ma pur sempre soggettiva, revisione della storia si può arrivare a sostenere che per la Sicilia l’unità italiana ebbe come risultato la disgregazione di un processo di sviluppo economico e sociale, già pervenuto a buoni risultati. Quella della Sicilia preunitaria non è soltanto la storia di una dinastia ma è soprattutto la storia di una società, una società non inerte, statica come ci è stata rappresentata, anche da illustri scrittori come Tomasi di Lampedusa o Leonardo Sciascia, ma di una società in movimento, partecipe né più e né meno come le altre regioni d’Italia e d’Europa delle trasformazioni avvenute nel corso del XVIII e XIX secolo, che portarono alla transizione dalla feudalità al mondo borghese. Per semplicità stabiliamo due date tra le quali questo processo può essere analizzato: il trattato di Utrecht del 1713 e lo sbarco di Garibaldi a Marsala nel 1860.

Un ruolo importante in questo periodo lo ha svolto la dinastia borbonica di ramo napoletano ed il regime da essa instaurato, che abbraccia ben 125 anni, e la coincidenza del regno meridionale borbonico con l’età delle rivoluzioni borghesi in Occidente.
La monarchia meridionale di Carlo Borbone sorse nel 1734 quando in seguito ad una guerra il Napoletano e la Sicilia furono strappati all’Austria. Questo fu sicuramente un fatto positivo e forse il più importante di tutto il settecento in quanto dava al Mezzogiorno della penisola italiana ed alla Sicilia lo “status” di paese indipendente.
I Borbone di Napoli erano principi italiani, eccezion fatta per Carlo italiano solo per metà.
Il loro governo fu per lungo tempo inspirato al principio della nazionalità italiana e impegnato a darsi una struttura giuridica e statuale moderna in grado di affrontare e gestire i cambiamenti sociali dell’epoca. I Borbone determinarono l’abbattimento del feudalesimo, grazie al loro assolutismo; introdussero un sistema d’amministrazione civile e giudiziario moderno; avviarono uno sviluppo industriale notevole, in relazione ai tempi. Fu grazie alla politica borbonica che Napoli divenne una capitale di prestigio a livello europeo. Personaggi come Gaetano Filangieri, Bernardo Tanucci, Antonio Genovesi, Domenico Caracciolo a Napoli o come Agostino De Cosmi, Tommaso Natale, Paolo Balsamo, Rosario Gregorio in Sicilia possono far emergere il loro talento e svolgere la loro opera sia culturale che politica. Dopo la rivoluzione francese, purtroppo, il sistema borbonico dimostrò la sua incapacità di accogliere le nuove istanze costituzionali e borghesi e soprattutto, e questo fu un grande errore, non fu capace di accogliere le istanze di autonomia della Sicilia che da regno indipendente si trovò, di colpo, regno gregario di Napoli. Ripetutamente concessero e ritirarono la costituzione e ciò non li rese simpatici ai siciliani.
A questo punto per capire come si è verificata la dissoluzione dello stato borbonico e l’affermazione dello stato sabaudo dovremmo fare, brevemente, qualche considerazione. I due stati erano contemporanei ed anche territorialmente erano simili avendo entrambi domini in terra ferma e domini insulari. Le differenze tra i due stati non sono tanto da ricercare nell’economia, nella politica o nella cultura, ché lo stato meridionale non era certo da meno, anzi! Ma nella capacità che il regno settentrionale ebbe nell’affermare l’egemonia peninsulare sulla Sardegna e nella lacerazione interna tra Napoli e Sicilia: la società sarda accettava supinamente la supremazia piemontese, la Sicilia no, a torto o a ragione rifiutava l’egemonia partenopea. Se appena ci pensiamo, questo diverso atteggiamento se non giustificabile è comprensibile. La Sardegna non aveva alle spalle una storia ed un regno importanti, non poteva rivendicare né un Ruggero né un Federico, la Sicilia sì. La Sicilia aveva avuto o creduto di avere un ruolo storico e politico influente, nel bene o nel male, in tutta Europa, la Sardegna no.
Il risultato di tale situazione è che l’atteggiamento del “baronaggio” siciliano è uno se non il principale artefice della dissoluzione della monarchia borbonica. La Sicilia non si identifica nei Borbone e nel processo di consolidamento e sviluppo da essi avviato ed è sempre protagonista di tutte le rotture rivoluzionarie a partire da quella del 1812, a quella del 1820, del 1837, del 1848 ed infine del 1860.
Proprio per l’importanza geopolitica dell’Isola la questione siciliana non è purtroppo solo un problema interno ma assume caratteristiche internazionali. Lord Bentinck, fu inviato in Sicilia non per sostenere il re ma i suoi oppositori e la Sicilia era ben cosciente di essere una pedina importante della politica internazionale; ha cercato di usare a proprio vantaggio questo stato di cose ma i Borbone di Napoli, nell’ultimo periodo del loro regno, non l’hanno capito. Diversamente da quanto succedeva ai tempi di Carlo III e della reggenza dell’illuminato Tanucci, dopo l’accorpamento nel regno Due Sicilie nessuno è stato capace di sanare i dissidi interni.
Sul piano diplomatico internazionale erano state proposte diverse soluzioni per la “questione italiana” le più importanti delle quali prevedevano una federazione con a capo il Papa o la formazione di due Stati italiani (settentrionale e meridionale) distinti ma in collaborazione fra loro. Quest’ultima ipotesi rimase in piedi fino alla vigilia dello sbarco a Marsala, quando la Sicilia, spiazzando tutti sposò, pentendosene poi amaramente, la causa sabauda.
A questo periodo che all’inizio abbiamo chiamato “Risorgimento siciliano” va fatta risalire la nascita del separatismo e dell’indipedentismo sfociato poi nell'autonomia.

sabato 2 luglio 2011

Donne e unità d’Italia: Anita Garibaldi

La vita in Brasile

Una delle madri dell’Italia Unita è brasiliana, lo sapevate? Ana Maria Ribeiro Da Silva meglio conosciuta come Anita Garibaldi, è nata in Brasile nei pressi di Laguna nel 1821. Si sposa in giovane età con un calzolaio Manuel Duarte de Aguiar.
Già dalla giovane età si dimostra di temperamento focoso se è vero ciò che si racconta che abbia spento sulla faccia un sigaro a un carrettiere che aveva fatto apprezzamenti un po’ troppo espliciti alla futura eroina dei due mondi, dopo averglielo sfilato di bocca.
A diciotto anni si unisce alla lotta rivoluzionaria e fugge con Garibaldi lasciando, presumibilmente, solo il marito da cui non aveva avuto figli. Durante la guerra in Brasile sfugge più volte alle armate imperiali brasiliane. In uno di questi frangenti, dopo la battaglia di Curitibanos, Anita viene fatta prigioniera ma fugge in modo rocambolesco dopo aver chiesto di ritrovare il cadavere del marito sul campo di battaglia. Alla prima distrazione dei soldati che la scortano, ruba loro un cavallo e si ricongiunge a Garibaldi.
Partecipa attivamente alle battaglie e viene chiamata a difendere spesso la polveriera. In un’altra fuga famosa, dopo aver dato alla luce Menotti, Anita fugge col bimbo al seno e rimane nascosta nella foresta per quattro giorni quando Garibaldi la ritrova.
Nel 1841 Anita e Garibaldi riparano a Montevideo in Uruguay essendo divenuta, la situazione brasiliana, insostenibile. In quell’occasione i due si uniscono in matrimonio e poco dopo nascono Rosita, Teresita e Riciotti.
La vita in Italia e Europa
Nel 1848 alle notizie dei moti risorgimentali in Europa Anita si reca con i figli in Francia. Pochi mesi più tardi la raggiungerà anche il suo sposo Giuseppe. Da allora i due parteciperanno attivamente ai movimenti di liberazione in Italia ed Europa.
Nel 1849 Anita combatterà per l’instaurazione della brevissima Repubblica Romana. Negli anni successivi assieme ai garibaldini farà parte della “Trafila”, la lenta fuga dei patrioti per fuggire alle grinfie della polizia papalina e dei soldati austriaci. Durante la marcia forzata attraverso l’Italia, a fianco di Garibaldi e del Capitano Leggero, rimane incinta. Al quinto mese di gravidanza, dopo la lunga marcia per tutto il territorio italiano, le condizioni di Anita, che ha solo ventotto anni, peggiorano.
Sviene improvvisamente quando si trova col marito e il capitano Leggero nelle valli di Comacchio braccati dagli austriaci. Riescono a giungere alla fattoria del patriota Guicciolini dalle parti di Ravenna. Tuttavia Anita è già morta quando giunge il medico.
Si conclude così la vita di una delle più energiche patriote che la storia dell’Italia unita ricordi. Un vero simbolo di forza. Una donna che, nonostante gli svantaggi e la giovane età, seppe dare un fondamentale contributo alla battaglia per l’unità senza nascondere la sua femminilità e combattendo con coraggio a fianco degli uomini.