/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": La battaglia di San Pancrazio

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martedì 19 luglio 2011

La battaglia di San Pancrazio

Il primo contatto di Garibaldi con le Marche si ebbe quando il Generale, accompagnato dal fido Angelo Masina, capitano dei lancieri, si precipitò a Roma. I rivoluzionati romani lo avevano invitato nella città eterna per sostenere la causa libertaria, una volta che il Papa Pio IX il senigalliese Mastai Ferretti, si era rifugiato nella fortezza di Gaeta. L’eroe dei due mondi si trovava a Ravenna, pronto a marciare su Venezia per difendere la Repubblica di Manin; alla chiamata del Governo provvisorio Garibaldi non seppe resistere e, a bordo della diligenza di linea Ferrara-Roma, volle raggiungere la capitale prima della sua legione che lo avrebbe seguito di lì a poco.

Giuseppe Garibaldi arrivò a Macerata, il 10 dicembre 1848. Sostò alla locanda della Pace, vicino alla chiesa di San Giorgio. Ripartiti per Roma, Garibaldi e Masina si fermarono a Tolentino; diversi abitanti del luogo li accompagnarono per un lungo tratto di strada. A Roma Garibaldi subì il degrado da generale a colonnello; quindi fece rotta, con 400 seguaci, a Macerata. Ufficialmente Garibaldi e la sua legione erano destinati al porto di Fermo (l’attuale Porto San Giorgio). A Macerata si era già diffusa la voce della venuta della legione; la municipalità che temeva di doversi sobbarcare il mantenimento dei 400uomini,invio’ una commissione guidata dal gonfaloniere Ricci, per accertarsi della realtà dei fatti e soprattutto valutare il comportamento dei soldati. La commissione ebbe un’impressione positiva; Garibaldi e i suoi compagni attraversarono il passo di Colfiorito, dormirono sulla paglia a Serravalle del Chienti; a Tolentino furono ospitati in diversi edifici, tra cui la casa del conte Silveri Gentiloni , dove passarono la notte di Capodanno.
Verso mezzogiorno del primo dell’anno, Garibaldi giunse a Macerata, dove si incontrò qui in questo luogo di Porta Romana, con le bande maceratesi Hercolani e Gianfelici. Garibaldi assicurò subito i presenti che le sue truppe erano composte da fratelli italiani e non da assassini o ladri e che la legione era al servizio,in maniera ufficiale, della Repubblica. La legione, che doveva ripartire l’indomani mattina per il porto di Fermo, ottenuto l’assenso da Roma, si fermò a Macerata qualche giorno di più. La legione era accasermata nell’ex convento di San Domenico, ora sede del Convitto Nazionale. Appena ricevuto il placet da Roma, Garibaldi spedì subito il sottotenente Zannucchi al porto di Fermo, per ritirare gli effetti del casermaggio, che il Governo di Roma aveva promesso al generale. Il commissario all’approvvigionamento della legione garibaldina, Mantegazza, trovò difficoltà nelle forniture; Garibaldi, probabilmente una volta giunto a Rieti, si lamentò delle calzature fornite alla legione, perché “la marcia le aveva ridotte tutte a niente, ancorché furono pagate molto care, cioè 11 paoli . Sotto accusa anche la qualità del pane, che era stato somministrato da un subappaltatore della fornitura generale militare. I legionari respinsero il pane come nocivo alla salute.
Ma se il soggiorno a Macerata permetteva alla truppa di equipaggiarsi, dall’altra parte allontanava sempre di più Garibaldi da Roma, dal suo sogno di una capitale libera dal papa e alla guida dello Stato unitario italiano. Si faceva quindi strada il progetto propugnato da Garibaldi, di far stanziare le legioni a Rieti, una città più vicina alla capitale. Il 13 gennaio il ministro delle armi della Repubblica romana, dopo essersi assicurato, con un trattato, l’aiuto di Carlo Alberto di Savoia, ordinò il trasferimento della legione da Macerata a Rieti. Il circolo popolare chiese però di far rimanere ancora la legione a Macerata come corpo di polizia, in vista delle elezioni dei rappresentanti alla Costituente, l’assise che avrebbe dovuto varare la Costituzione.
Il governo di Roma avvertì il Comune di Rieti di aver accordato ai maceratesi il favore che la legione partisse subito dopo le elezioni, fissate per il 21 gennaio 1849. Il generale si trattiene a Macerata fino al 23 gennaio; alle elezioni risultò tredicesimo su sedici eletti (in pratica fu votato solo dai suoi legionari: il risultato lo raggiunse poi a Rieti. La notte delle elezioni, 22 gennaio 1849 un gruppo di trenta-quaranta persone a Borgo San Giovanni battista, (oggi corso Cairoli) lanciò grida di “Viva pio IX, morte al generale Garibaldi e ai suoi legionari”. L’ordine e la calma furono ripristinati Garibaldi, avvertito della sommossa, riuscì a placare gli animi dei soldati, che volevano passare alle vie di fatto. Insieme a Garibaldi, all’alba del 23 gennaio partirono anche i legionari, diretti alla volta di Rieti. Affettuoso fu il saluto del circolo Popolare; in cambio il generale promise di dedicare a Macerata “il primo fatto d’armi della legione costituitasi nella città marchigiana, in cui potrà dirsi che ha ben meritato della patria”. La lettera di saluto di Garibaldi, oggi la troviamo scolpita in una lapide sotto i portici del Comune di Macerata. Nella fase conclusiva dell’esperienza della Repubblica romana, nel 1848-49, un certo numero di volontari, specialmente da Macerata e Camerino, accorsero alla difesa di Roma; ben diciotto maceratesi morirono e i loro resti oggi sono conservati nel sacrario del Gianicolo a Roma. E la promessa venne mantenuta il 30 aprile 1849, quando la legione garibaldina respinse vittoriosamente a Porta San Pancrazio le truppe francesi guidate dal generale Oudinot. Nella battaglia Garibaldi fu ferito all’addome, ma pregò il medico Pietro Ripari, che lo stava curando, di non rivelare la ferita per non intaccare la leggenda della sua invulnerabilità.
Fu un fatto d’arme che se sfruttato poteva cambiare le sorti della Repubblica romana, ma Mazzini non concesse a Garibaldi la possibilità di caricare a fondo i nemici francesi. Lo stesso generale scriveva al Ministro della Guerra Avezzana: “Inviatemi truppe fresche, e come io aveva promesso di battere i francesi, parola che ho mantenuta, io vi prometto d’impedire che un solo raggiunga i suoi vascelli. Il veto del triumvirato fu un errore fatale che tolse a Garibaldi l’onore d’una vittoria alla Napoleone.

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