/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": LE DONNE DEL RISORGIMENTO ITALIANO

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sabato 16 luglio 2011

LE DONNE DEL RISORGIMENTO ITALIANO

Quando si pensa alle donne combattenti del Risorgimento, la prima immagine che affiora alla mente è quella di Anita, vera eroina guerriera, compagna valorosa dell’eroe Piccola Italia, non avevi corone turrite


né matronali gramaglie.

Eri una ragazza scalza,

coi capelli sul viso

e piangevi

e speravi.

Elena Bono, una delle più alte voci poetiche del ‘900
Il contributo che le donne diedero al processo che trasformò un’idea nella realtà dell’Italia unita dalla Lombardia alla Sicilia, si espresse in forme di partecipazione diverse, che lo resero meno eroico e dunque più oscuro, tanto che i loro nomi risultano oggi sconosciuti ai più e neanche citati nei libri di storia.
Vogliamo qui, per quanto è possibile, rompere uno schema consolidato, quello della “donna risorgimentale” come figura polarizzata tra l’eroismo estremo di Anita Garibaldi così come è effigiata nel monumento al Gianicolo, a cavallo con i capelli al vento e la pistola in mano, e il sostegno costante e silenzioso offerto dalle madri, le spose, le figlie.
L’apporto femminile fu non marginale e non limitato alla partecipazione più o meno attiva alla fase di unificazione dello Stato italiano, ma proseguì nel tempo, concretizzandosi in iniziative di alto valore civile e sociale.
Quindi senza dimenticare o sminuire l’operato di tante sostenitrici della causa che hanno assicurato il loro appoggio agli uomini nelle rivolte, nella clandestinità, nella prigionia, si tenterà di mettere in luce figure di donne che da vere protagoniste hanno segnato una decisa maturazione culturale e civile.
DONNE COMBATTENTI
dei due mondi. Ma molte donne del popolo scesero in battaglia, magari per un giorno, spesso trovando la morte, così come molte furono le donne trucidate, offese, violate. Ricordiamo le donne siciliane nei moti del gennaio 1848 a Palermo, che combatterono a fianco degli uomini, vestite da uomo, come Rosa Donato che poi, dopo la restaurazione fu imprigionata per 15 mesi e torturata per ottenere informazioni sui cospiratori. Ma anche le donne che scesero in strada nelle “Cinque giornate di Milano” da 18 al 22 marzo dello stesso anno, combattenti eccezionali che spararono dalle barricate o lanciarono sassi, tegole ed altri oggetti dalle finestre. Molte morirono, anche giovanissime, e quando, la mattina del 6 aprile si celebrarono solenni esequie in onore dei caduti delle cinque giornate, fra le varie iscrizioni poste attorno al catafalco se ne leggeva una interamente dedicata alle donne:
“Animose donne, nel vostro cuore di madri, nell’esempio delle vostre sorelle che posero per la patria la vita, voi troverete il coraggio delle forti virtù cittadine, emulatrici delle siciliane voi cancellerete tre secoli di codarda mollezza e, ritemprate a severi dolori a gioie severe, vi farete degne compagne d’uomini liberi”.
Protagonista della rivolta napoletana fu Marianna De Crescenzo, detta “la Sangiovannara”, un personaggio discusso che fu addirittura beneficiata da Garibaldi di una pensione per il ruolo avuto nella liberazione di Napoli. Era una donna del popolo che possedeva un’osteria, dotata di un grande ascendente sulla gente del suo quartiere, il famoso quartiere di Pignasecca, tanto che fu grazie alle sue doti di grande trascinatrice che la popolazione aderì numerosa alle rivolte, persuasa dalla Sangiovannara che bisognava abbandonare i Borboni e seguire o rre galantuomo e Garibaldi.
Anche l’audace e drammatica impresa del napoletano Carlo Pisacane porta l’impronta di una donna coraggiosa, Enrichetta Di Lorenzo che, se pur già sposata, amò e seguì Carlo sfidando la mentalità del tempo. La loro situazione irregolare comportò gravi disagi e sacrifici: fuggirono da Napoli e, in seguito alla denuncia del marito di lei furono arrestati. La loro prima figlia morì poco dopo la nascita. Nel 1848, con le notizie dei moti insurrezionali contro i Borbone a Palermo e delle giornate milanesi, Carlo si impegnò nella lotta prima nel Lombardo-Veneto, poi a Roma nel 1849 dove Enrichetta prestò la sua opera per curare i feriti e i moribondi combattenti della Repubblica, al fianco di altre donne celebri, come Cristina di Belgioioso. Quando Carlo fu arrestato e rinchiuso a Castel Sant’Angelo, fu lei a prodigarsi disperata per ottenerne la liberazione. La loro avventura personale e politica ebbe tuttavia fine con l’impresa di Sapri, che Enrichetta aveva avversato da subito, inutilmente. La spedizione fu organizzata in seguito ai contatti con il Comitato Insurrezionale Repubblicano del meridione e aveva lo scopo di sollevare le popolazioni del sud contemporaneamente alla spedizione mazziniana al nord. Frattanto, a causa delle attività sovversive del compagno, Enrichetta fu cacciata da Genova, dove si trovava con la figlia Silvia, e trovò rifugio a Torino. Come lei temeva la spedizione di Sapri ebbe un esito drammatico: “Eran trecento eran giovani e forti e sono morti”, raccontò Luigi Mercantini, commemorando così la scomparsa di un audace eroe. Solo dopo l’impresa garibaldina dei Mille, finì l’esilio di Enrichetta da Napoli, dove potè rientrare senza rischio di essere nuovamente arrestata. Collaborerà in seguito al “Comitato di donne per Roma capitale”, fondato nel 1862 a sostegno delle imprese garibaldine.
Senza dubbio la donna che più di altre rappresenta l’eroismo guerriero femminile è Anita Garibaldi, la ragazza brasiliana che, a soli 18 anni, si innamorò dell’eroe dei due mondi e partì con lui, condividendo con coraggio il suo destino, fina alla morte che la colse nelle valli di Comacchio dieci anni dopo, incinta del quinto figlio, dopo una fuga durata 33 giorni. Al fianco del suo uomo in ogni circostanza, dando un contributo fattivo, sempre dimentica dei pericoli che correva, come lo stesso Garibaldi scrive nelle sue Memorie: “La mia Anita era il mio tesoro, non men fervida di me per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa”. Celebre l’episodio avvenuto solo dieci giorni dopo la nascita del primo figlio Menotti quando, assente Garibaldi, le truppe imperiali circondarono la casa dove si trovava Anita con il neonato, inducendola a fuggire. E’ immortalata nel quadro a olio che la raffigura a cavallo di notte, coperta solo dalla camicia con in braccio il bambino di pochi giorni, che fu esposto a Roma in occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia, ora al Museo del Risorgimento, a Roma. Sempre presente a incoraggiare, a sostenere e ad incitare, Anita fu un esempio costante per i soldati che ne ammiravano la tenacia e la resistenza fisica. L’epilogo della storia di Anita, coraggiosa amazzone sudamericana e moglie carismatica del personaggio più eclatante della storia italiana dell’800, inizia con lo sfortunato sbarco dei volontari garibaldini presso Comacchio, quando lei era già moribonda per gli stenti sofferti in stato di avanzata gravidanza. Garibaldi la portò a braccia in una casupola dove spirò senza riprendere conoscenza. Purtroppo non ebbe pace neanche nella morte, poiché Garibaldi dovette immediatamente fuggire e il suo corpo fu sepolto frettolosamente, poi scoperto dalle autorità, portato via e di nuovo sepolto da amici, ma anche stavolta non accuratamente tanto da essere rosicchiato dagli animali. Solo nel 1859 Garibaldi riuscì a far rientrare le sue spoglie a Nizza, dove furono accanto a quelle della madre di lui.
DONNE INTELLETTUALI
Un articolo apparso sul Secolo XIX nell’aprile del 2003 titolava: “I salotti in cui si fece l’Italia”, con un chiaro riferimento all’importanza dei salotti ottocenteschi nella costruzione del Risorgimento italiano e al ruolo sostenuto dalle salonnières del tempo, nella diffusione degli ideali risorgimentali. Milano, Firenze, Torino, Genova, Venezia e Roma furono le sedi dei salotti più importanti, ed ognuno era in genere conosciuto con il nome della padrona di casa. Nei salotti le donne avevano completa libertà di azione e di gestione anzi, possiamo dire che proprio attraverso i salotti le donne riuscirono a creare uno spazio di aggregazione e di espressione all’interno del quale avevano piena legittimità, che veniva loro riconosciuta anche dai numerosi e eccellenti ospiti maschili che venivano invitati. Una sorta di “zona franca” dove certamente vigevano regole ferree riguardo al censo e al “bon ton”, ma che garantiva la libertà di pensiero e di opinione, tanto da diventare spesso vere e proprie fucine di patriottismo, nelle quali esuli e politici potevano ritrovarsi per discutere e, a volte anche progettare azioni sovversive. L’età d’oro dei salotti si può collocare tra gli anni ’20 e ’30 del secolo fino a circa vent’anni dopo l’unità d’Italia, anche se il periodo di maggiore fioritura dei salotti patriottici si concentra nel cosiddetto biennio riformatore, quello tra il 1846 e il 1848 e nel decennio successivo che va dal 1850 al 1860, il famoso decennio di preparazione. Ovviamente la politica non è l’unico argomento di discussione, molta parte dell’attività era dedicata alla lettura e al commento di testi letterari o poetici, alle discussioni sul costume ed anche alla cronaca locale e al pettegolezzo. Tuttavia di politica si parla molto, e di politica di opposizione, tanto che i salotti attirano l’attenzione e la diffidenza della polizia segreta asburgica. Molto ricercati erano gli improvvisatori, poeti capaci di improvvisare versi partendo da una suggestione offerta al momento e, tra questi brillò nei salotti di tutta la penisola una giovane teramana, Giannina Milli che, per i temi fortemente patriottici delle sue composizioni, ricevette, come si legge in una sua biografia, “ammonizioni, richiami e severe censure dalla polizia, che avrebbe voluto legare con un laccio invisibile le sue caviglie, per impedirle di innalzarsi e volare spiritualmente imbracciando la bandiera tricolore”. La Milli fece dell’improvvisazione un elemento attraente e trascinante della poesia patriottica, qualificandola dal punto di vista artistico e facendone anche un rilevante mezzo di diffusione e di propaganda degli ideali risorgimentali, grazie al suo continuo peregrinare per le città italiane, richiestissima nei salotti come nei teatri. I suoi versi, che cantavano “Dio, la famiglia e la Patria, le grandezze, i dolori e le speranze d’Italia”, ne fecero un vero e proprio fenomeno nazionale, nel periodo cruciale della costruzione del Regno d’Italia. L’opera di Giannina Milli proseguì dopo il 1864 con un impegno diverso, volto alla costruzione vera e propria del tessuto sociale e civile unitario. Istituì una fondazione culturale, la Fondazione Giannina Milli, che assegnava premi in denaro a fanciulle meritevoli, tra le quali troviamo Ada Negri e, soprattutto, si dedicò alla formazione e all’istruzione in particolare femminile, dirigendo e istituendo Scuole e Istituti per conto del Ministero della Pubblica Istruzione, diretto dal ministro Scialoja.
Grande ammiratrice e protettrice della Milli, fu Clara Maffei che a Milano aveva il salotto più frequentato e famoso dell’epoca. La lapide posta sulla sua casa la ricorda infatti così: “In questa casa dimorò trentasei anni e morì il 13 luglio 1886 la contessa Clara Maffei, il cui salotto, abituale ritrovo di insigni personalità dell’arte, della letteratura e della musica fu pure, tra il 1850 e il 1859 cenacolo di ardenti patrioti tenaci assertori dell’indipendenza e dell’Unità d’Italia”. Il salotto della Maffei nasce intorno al 1834 e all’inizio fu soprattutto un ritrovo letterario ed artistico, molto raffinato ed elegante frequentato da Manzoni, Verdi, Rossini, Balzac. Nel 1846 però, assunse un carattere spiccatamente politico e liberale, diventando un focolaio di agitazioni a favore dell’indipendenza d’Italia, accogliendo ministri, diplomatici ed alti ufficiali che progettavano di influenzare il corso degli eventi per liberare il Lombardo Veneto dagli austriaci.
Ma l’anno cruciale che diede una svolta operativa alla vita del salotto milanese fu il 1848, con la partecipazione ai moti insurrezionali. Molti nobili patrioti, frequentatori della casa di Clara Maffei, salirono sulle barricate al fianco di popolani e intellettuali ed anche Clara fece la sua parte, sostenendo moralmente ed economicamente gli insorti, aiutando ed assistendo i combattenti. Ospita in casa sua, con grande rischio, la principessa Cristina di Belgioioso, che era giunta a Milano con un gruppo di volontari napoletani.
Clara si compromise così apertamente da dover fuggire a Locarno quando, repressa la rivolta, la reazione austriaca colpì duramente istituendo processi sommari. A poco a poco, con il consolidarsi di una concreta politica liberale e riformista nel vicino Piemonte, Clara Maffei abbandonò le posizioni mazziniane per sostenere la linea di Camillo Cavour. Sostenne fortemente, e finanziò, l’azione dei volontari lombardi di fronte alla prospettiva di una seconda guerra di indipendenza che, come in effetti avvenne, avrebbe potuto vedere il Piemonte alleato con la Francia. Dopo le prime vittorie, l’8 giugno del 1859, Vittorio Emanuele II e Napoleone III entrarono trionfalmente a Milano. Napoleone fece dono alla Maffei di un suo ritratto autografato che fu posto nella parete centrale del salotto. Dopo il 1860, con la liberazione di Milano e della Lombardia, il salotto della Maffei cessò di essere un “covo di congiurati per la libertà” e tornò alla sua connotazione prevalentemente culturale ed artistica, pur mantenendo il patriottismo e il liberalismo come ideali ispiratori e continuando quindi a rappresentare un imprescindibile punto di riferimento per intellettuali e politici.

Un racconto pressoché completo della storia unitaria, narrata dal punto di vista dei protagonisti, è quello che ci è stato lasciato da Costanza D’Azeglio, moglie di Roberto e cognata di Massimo D’Azeglio, nella forma di una raccolta di lettere inviate al figlio Emanuele dal 1835 al 1861, dal titolo Il giornale dei giorni memorabili. Torinese, nobile di nascita, abituata a muoversi fra la gente che faceva la storia, fu una fervente patriota e una attenta osservatrice dei fatti, capace anche di raccontarli in una forma inconsapevolmente giornalistica. Nelle sue lettere al figlio, che erano nell’intenzione originaria lettere riservate, destinate a restare private, riporta i passaggi cruciali della lotta per l’indipendenza, i nomi di coloro che ne furono protagonisti, i dubbi e le incertezze, la gioia dei piemontesi alla notizia della concessione dello Statuto carloalbertino e, contemporaneamente, il timore per le ripercussioni sugli stati vicini. Riusciamo, attraverso la sua narrazione, a cogliere pienamente la prospettiva piemontese nel percorso verso l’unità nazionale, con l’alternarsi di speranze e delusioni, delle paure e delle illusioni che l’hanno accompagnato, dal ruolo di guida contro il nemico austriaco nella vicina Lombardia a quello di protagonista nel processo di unificazione. Costanza, la marchesa D’Azeglio, rivela anche i sui timori ed il suo smarrimento nell’avventurarsi verso la costruzione di un mondo totalmente nuovo, che avrebbe sovvertito l’ordine preesistente, nel quale lei e coloro che appartenevano alla sua classe sociale, avevano un posto ed un ruolo precisi. Cavour, chiamato nelle lettere confidenzialmente Camillo, è percepito come un geniale stratega, audace e lucido al tempo stesso, ma proprio la sua audacia a tratti la spaventa. “Camillo è pazzo?” si chiede Costanza. Lei scorge nella guerra progettata da Cavour qualcosa di più grave della sconfitta e del naufragio del sogno risorgimentale, scorge la fine del Piemonte e della sua società civile ed ordinata, che aveva già realizzato delle conquiste e segnato un progresso civile. In ogni momento fedele “al suo re”, Carlo Alberto prima e Vittorio Emanuele II poi. Le lettere iniziano nel 1835 quando nel Regno di Sardegna imperversa il colera e continuano toccando fatti salienti come l’amnistia concessa da Carlo Alberto ai cosiddetti “ventunisti”, ovvero coloro che avevano partecipato ai moti insurrezionali del 1821 e che, tra l’altro avevano indotto proprio la sua famiglia ad allontanarsi da Torino. Ma l’evento più importante, che trova ampio risalto nelle lettere di Costanza è, ovviamente, la firma dello Statuto da parte del re, nel marzo del 1848. Una “concessione dall’alto” che giunge dopo vari ripensamenti, che valgono a Carlo Alberto l’appellativo di Re Tentenna, influenzata dagli eventi rivoluzionari che stavano agitando l’intera penisola, ma che sarà l’unica Carta Costituzionale a resistere dopo il reflusso reazionario che seguirà ai moti del ’48. La portata di questo evento è enorme e Costanza lo percepisce pienamente, poiché lo Statuto Albertino, con gli 84 articoli che lo costituiscono, pone fine al potere assoluto nel Regno di Sardegna e verrà poi esteso al Regno d’Italia, restando in vigore se pur formalmente nel periodo fascista fino alla Costituzione repubblicana. Ma le lettere di Costanza riportano in modo efficace anche episodi altamente drammatici, come le violenze della polizia austriaca e gli scontri durante le Cinque giornate di Milano, sottolineando proprio l’intervento delle donne che non esitano a lanciarsi nel combattimento: “Le donne – racconta – gettavano dalle finestre olio bollente e vetriolo sui nemici, sparavano con le pistole e, in mancanza di fucili, usavano i recipienti di argilla come bombe”. Dalle Cinque giornate di Milano alla prima guerra di indipendenza, per la quale Costanza nutre grandi speranze, legate soprattutto al coinvolgimento non solo del Lombardo-Veneto, ma anche di Modena, Piacenza e della stessa Sicilia, fino alla amara disillusione con la sconfitta di Novara e la “ritirata del Piemonte, che si era consacrato alla guerra con tutte le sue forze”, come scrive in una lettera, seguita dall’abdicazione di Carlo Alberto, che morirà di lì a poco, in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Costanza mostra grande acume nel giudizio politico su alcuni tra gli uomini più importanti del tempo come Gioberti, che per lei “vive nelle nuvole, si è fatto un mondo immaginario a sua misura e ignora la realtà”, concludendo perentoriamente “ Non è un uomo di Stato”. O lo stesso Carlo Alberto, che assolve dalle sue responsabilità ed errori riconoscendo che “la nostra causa non sarebbe ora perduta se tutti vi si fossero votati come lui”. Mazzini invece viene giudicato negativamente, insieme ai suoi “fanatici”, anche per il chiaro attaccamento alla monarchia da parte di Costanza, che dice di non temere “le loro fanfaronate”, ma ammonisce a non sottovalutarli in quanto “il partito di Mazzini è numeroso e radicato”. Il nuovo re, Vittorio Emanuele II, che ammira e che descrive dal “volto ardito e deciso, che non si lascia mettere in soggezione dal maresciallo Radetzky”, diede nel 1849 pieno appoggio ai liberali, chiamando alla guida del governo proprio Massimo D’Azeglio, il cognato di Costanza, e lei stessa partecipò all’apertura della Legislatura. L’anno seguente entra a far parte del governo Camillo Cavour, e sarà proprio lui a succedere a Massimo D’Azeglio nella carica di Presidente del Consiglio. Da questo momento, con mente lucida ed equilibrata, sarà Cavour a guidare la politica piemontese e a proiettare il piccolo stato sulla scena internazionale, fino a stringere con Napoleone III l’alleanza che vedrà l’ingresso della Francia nella causa italiana. L’ultimatum del 23 aprile 1859 dell’Austria, ovviamente rifiutato da Cavour, segna l’inizio della seconda guerra d’indipendenza e Costanza vive con eccitazione e timore questo momento: “Siamo alla mobilitazione. Sono state richiamate molte classi. Dio voglia che Camillo non sia così imprudente da spingerci ad una fatalità. (…) In questa incertezza io mi sentivo scuotere dal nervosismo, la pelle mi si accapponava dai brividi, ma la paura non era per l’Italia. Ci vedevamo distrutto il Piemonte. Esisteremo ancora o non esisteremo più? Ecco il problema. Ed è tutto nelle mani di Camillo. Ma per parlare più chiaramente, Camillo ne uscirà o è un pazzo?”. Delle seconda guerra d’indipendenza racconta le gesta eroiche così come la dura realtà di battaglie sanguinose, come Solferino, San Martino, dove “quei disgraziati dei nostri soldati – dice – sono rimasti a combattere dalle quattro del mattino alle nove di sera senza bere né toccare cibo: sempre impegnati, spesso in azioni condotte di corsa e spesso costretti ad arrampicarsi lungo i fianchi della collina”. Ma i tono più toccanti e drammatici li troviamo nella descrizione degli ospedali sorti in tutto il Piemonte per accogliere i feriti. dei quali dice: “L’assistenza ai malati e ai feriti è tutta ricaduta sulle mie spalle”. Analizzando la diversa organizzazione degli ospedali francesi e di quelli piemontesi Costanza dice: “I nostri ospedali, diretti con ordine ed economia dalle suore, hanno tutti le loro risorse a servizio e a disposizione dei malati, ma che inferno sono gli ospedali amministrati dai francesi: i sani rubano, e gli ammalati, trattati come cani dagli infermieri, mancano di tutto. (…) Non avendo scodelle sono ridotti a mangiare nei vasi da notte, che è l’unico vasellame di cui dispongono. (…) Il cibo: la carne, le uova fritte, venivano gettate sui letti”. Al termine del conflitto la marchesa ricevette una medaglia d’oro per l’assistenza fornita ai feriti, tuttavia questa gioia fu notevolmente offuscata dalla delusione dovuta all’armistizio firmato ds Napoleone III a Villafranca con gli austriaci. Una delusione che aveva i connotati del tradimento. Cavour si dimise e Vittorio Emanuele II dovette accettare l’armistizio. Il 14 giugno 1860, nei giorni successivi all’impresa dei mille, Costanza esprime il suo parere su Garibaldi che dice essere, “come Mazzini, dominato da una sola idea: l’unificazione del Paese, e vi tende come una freccia che soltanto il bersaglio potrà fermare. E la freccia è ormai scoccata. Ma c’è una differenza con Mazzini; Garibaldi paga di persona, Mazzini si agita ma si tiene al riparo”. Gli eventi poi, si sa, si susseguirono velocemente: la sconfitta dei borbonici, l’incontro a Teano e la simbolica consegna dell’Italia meridionale al Re e l’implicita sottomissione dell’impresa garibaldina alla monarchia sabauda, l’annessione del Regno delle due Sicilie – con un plebiscito – all’Italia di Vittorio Emanuele III e la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte del potere borbonico. “Siamo trascinati da un fulmine – scrive Costanza l’11 settembre 1860 – ti confesso che resto senza fiato. Sembra un sogno la realtà che ci trascina. Siamo come travolti”. Nell’ultima lettera inviata al figlio, l’emozione per la drammatica ed improvvisa morte di Cavour, il 6 giugno 1861 all’età di 51 anni, pochi mesi dopo l’apertura a Torino del primo parlamento italiano, avvenuta il 18 febbraio: “Tutte le classi, le persone di tutte le età ne sono rimaste colpite. La gente nelle strade appariva costernata. Piangevano dappertutto. Questo non è un modo di dire. Le lacrime erano vere. Piangevano al Senato, alla Camera, ai Ministeri”. Ma anche la vita di Costanza stava giungendo al termine. Sia lei che il marito scomparvero l’anno successivo tra lo sconforto dei tanti che avevano aiutato.
UNA PROTAGONISTA DISCUSSA: LA CONTESSA DI CASTIGLIONE
Considerata una delle donne più belle dell’800, Virginia Oldoini, contessa di Castiglione ebbe una parte rilevante nella rete di trame che Camillo Cavour seppe organizzare per la causa italiana.
Fiorentina di nascita, orfana prestissimo di madre e trascurata dal padre ambasciatore, si sposa ancora molto giovane con un cugino di Cavour, Nicchia, questo era il suo soprannome, divenne presto una celebrità proprio grazie alla sua straordinaria bellezza. Il matrimonio le permise di trasferirsi a Torino, di accedere alla corte di Vittorio Emanuele III e di essere presente e ricercatissima in tutte le feste e i ricevimenti più importanti. Il rapporto con il marito inevitabilmente si incrina, e neanche la nascita del figlio Giorgio, restituisce alla coppia la serenità. Virginia è lanciatissima sulla scena mondiale, e la sua ambizione la spinge sempre oltre. Cavour comprende che la bella contessa avrebbe potuto essere un’alleata presso la corte a Parigi, dove lei era giunta con il marito nel Natale del 1855 e dove lui stesso si reca nel febbraio dell’anno seguente. Proprio in quello stesso mese Cavour avrebbe messo a punto il suo piano famoso, secondo il quale la contessa avrebbe dovuto sedurre Napoleone III per ottenere informazioni riservate ed anche per renderlo maggiormente disponibile verso la causa italiana. Esiste una lettera nella quale Cavour dice al ministro Cibrario di aver “arruolato nelle fila della diplomazia la bellissima contessa di Castiglione, invitandola a sedurre l’Imperatore”. In effetti la promessa di assegnare un posto nella delegazione di san Pietroburgo al padre di Virginia fu mantenuta, e così questo padre che viene raffigurato freddo, mediocre, disinteressato da sempre alla sorte della figlia, ottiene per sé dei benefici nella carriera diplomatica. Napoleone III, se pur sposato con una donna di grande bellezza, Eugenia, la “bionda andalusa” era molto sensibile al fascino femminile e rimase colpito dall’avvenenza della contessa al suo primo apparire a corte.
La storia che ebbero, iniziata nel castello di Compiègne dove Napoleone concludeva le vacanze estive, durò pochi mesi ma fu intensa, e servì senza dubbio ad accrescere la popolarità di Virginia, ma non si può stabilire quanto “Minette”, come la chiamava l’Imperatore, sia stata determinante nel favorire i piani di Cavour. Magari riuscì a rinfocolare le antiche simpatie di Napoleone III per l’Italia, e forse gli strappò qualche modesta informazione. Di certo lui era molto astuto e guardingo e non si fidò mai del tutto della contessa. La relazione fra i due durò solo una stagione, il che rende improbabile un condizionamento vero e proprio delle scelte politiche, anche se lei, anni dopo , giunse a dire di “aver fatto l’Italia” e a chiedere di essere sepolta con la camicia da notte che aveva indossato nel suo primo incontro. Come era prevedibile, il resto della vita della donna più ammirata del suo tempo, fu segnato da un inarrestabile declino. Separata dal marito, non ebbe mai un buon rapporto con il figlio che morì giovanissimo per un attacco di vaiolo. Lo storico Andrea Maria Visalberghi scrisse di lei: “per l’amor di Dio e della verità, non trasformiamo Nicchia in uno dei protagonisti del Risorgimento e non facciamo della camicia di finissimo lino indossata nella notte di Compiègne, e che ella avrebbe voluto, e non ottenne, avere addosso anche nella bara, una bandiera nazionale”.

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