Della sofferta storia del Risorgimento italiano esiste anche una “versione femminile” poco trattata dai libri di storia. Eppure furono molte le donne che militarono nelle associazioni carbonare e parteciparono alle insurrezioni. Si tratta soprattutto di aristocratiche, come del resto, almeno all’inizio, lo furono in gran parte anche gli uomini. Per focalizzare la figura di Teresa Casati Confalonieri è necessario inquadrare il contesto storico della sua breve vita. Nata il 7 settembre 1787 nella Milano austriaca Teresa crebbe con il governo napoleonico. La sua istruzione si svolse nel convento di S. Agostino dove erano educate le fanciulle della nobiltà milanese. Aveva quindici anni quando un ufficiale francese, il duca de Pasquier, la chiese in moglie precisando che intendeva allontanarla da quei libri di letteratura e di storia che tanto contribuivano alla sua mestizia. Teresa rifiutò e questo aneddoto è abbastanza indicativo della sua personalità sensibile alla cultura.
Federico Confalonieri e Teresa Casati Confalonieri
La ragazza rimase in convento fino a diciannove anni e poco dopo incontrò Federico Confalonieri, di due anni più grande di lei. Siamo nel 1806: il potere napoleonico sembrava invincibile e il vicerè Eugenio Beauharnais teneva a Milano una corte spensierata e brillante. Poco dopo il matrimonio Teresa vi fu ammessa come dama di compagnia della viceregina Maria Amalia di Sassonia. La situazione tuttavia non era delle più facili, dato che il vicerè le prodigava eccessive attenzioni causando una marea di pettegolezzi sul conto suo e, ovviamente, del marito che rifiutò più volte l’elargizione di prestigiosi incarichi da parte di Beauharnais. Ma questa fu solo la prima di una serie di maldicenze. La morte dell’unico figlio ancora bambino le verrà infatti imputata dalla vox populi che la accuserà di averlo perso di mano mentre lei e Federico giocavano a lanciarselo. Altri insinueranno invece un trattamento violento da parte di Federico che in qualche modo intendeva “temprarlo”. Nell’una e nell’altra versione si nota un accanimento malevolo nei confronti dei due sposi, fattore che riemergerà clamorosamente nel corso delle vicende politiche.
Nel 1814, alla sconfitta di Napoleone, il popolo di Milano insorse contro l’amministrazione francese. Particolarmente crudele fu l’episodio di linciaggio del ministro delle finanze Prina letteralmente fatto a pezzi dalla folla. Nonostante le testimonianze che lo dichiaravano responsabile solo di aver rotto il ritratto di Napoleone e di averlo buttato dalla finestra, Confalonieri fu accusato di avere addirittura capeggiato il linciaggio. Come esponente dell’aristocrazia antinapoleonica ebbe in quello stesso anno un incarico ufficiale: seguire il congresso di Parigi che avrebbe deciso la sorte della Lombardia. Il giovane si batté perché se ne facesse uno stato autonomo, ma gli accordi internazionali ne decretarono l’annessione all’impero asburgico. Di quei giorni esistono le lettere che i due Confalonieri si inviavano reciprocamente, lui da Parigi, lei da Milano. Teresa era infatti confidente e portavoce del marito, oltre che coordinatrice delle sue attività. Le scrive Federico: “L’Austria è l’arbitra, la padrona assoluta dei nostri destini…si potrà solo implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare”. E ancora: “Venimmo a domandare l’esistenza e l’indipendenza di un paese dopo che esso era già stato venduto”. Intanto il generale austriaco Niepperg era entrato con le truppe a Milano, ma vi rimaneva il generale Mac Farlane quale emissario degli Inglesi. Gli umori della città si manifestavano apertamente alla Scala ed è Teresa a darne fedele resoconto al marito: “A teatro domina il partito degli Inglesi e quando arrivano…tutta la platea fa loro grandissimi applausi e quando arrivano gli altri nei palchettini di corte si fanno applausi, ma minori”. Un partito “inglese” infatti si affacciò presto nella vita milanese, di fronte a un governo che con il decreto del 12 giugno 1814 aveva unito la Lombardia e il Veneto in un’unica provincia dell’impero priva di rappresentanti degni di questo nome. I deputati eletti (18 in Lombardia, 16 in Veneto) avevano infatti solo potere consultivo e si limitavano a “inviare petizioni al sovrano”. Andava anche facendosi strada, in mezzo alle tante richieste di autonomia locale, l’idea dell’unità d’Italia. A sostenerla era solo un ristretto gruppo – Confalonieri, Di Breme, Porro – ma i propositi erano già chiari: “Stiano gli Italiani uniti, non presentino che un sol voto, si dimentichino quel fatale e malinteso patriottismo di città per non servire che al patriottismo di Nazione” (lettera di Federico a Teresa del 13 maggio 1814). L’anglofilia si rivolgeva verso il sistema liberale che ne faceva “nazione maestra” e lì Federico si diresse dopo il fallimento degli accordi di Parigi tornando a Milano solo un anno dopo.
I due coniugi decisero di partire insieme per un lungo viaggio culturale e politico che li vide a Parma, Bologna, Roma, Napoli e in Sicilia. Strinsero in tal modo legami con personalità del tempo, come Guglielmo e Florestano Pepe a Napoli, ma anche con militanti delle sette carbonare diffusissime nell’Italia meridionale. Teresa in particolare si dedicò alla divulgazione di un progetto a lei caro: la fondazione di scuole ispirate ai nuovi metodi pedagogici lancasteriani (ispirate cioè ai metodi del quacchero Joseph Lancaster e seguite anche dal pedagogo svizzero Johan Heinrich Pestalozzi), chiamati anche “insegnamento mutuo”. Ritenendo infatti che la coscienza di cittadini si formasse nella scuola, Teresa e Federico intendevano opporre alle scuole asburgiche, strutturate in modo da inculcare devozione nell’imperatore e nella religione, le moderne scuole che andavano affermandosi in Francia e Gran Bretagna. Questo tipo di insegnamento si basava sui gruppi di studio simultanei tra scolari, nei quali i migliori fornivano ripetizioni ai compagni meno brillanti agevolando il lavoro dei maestri, spesso obbligati a tenere classi molto numerose. Il sistema era rivolto soprattutto all’istruzione delle classi povere. Durante questo lungo tour italiano Teresa entrò in una loggia carbonara, più esattamente in quei gruppi femminili chiamati “la società delle giardiniere” e, forse non a caso, dopo quel viaggio l’associazione cominciò a essere presente anche in Lombardia. A Roma Federico e Teresa erano stati segnalati anche da Monsignor Pacca, pro-segretario di Stato, che aveva inviato alla polizia di Milano un dettagliato rapporto sulle loro frequentazioni concludendo: “la loro parola, si può dire di passo, è che questa epoca si deve chiamare quella della schiavitù”. Appena tornati a Milano Federico ripartì da solo per l’Inghilterra, dove il 3 settembre 1818 fu iniziato alla massoneria inglese grazie al duca di Sussex fratello del re.
Al suo ritorno si aprì l’entusiasmante stagione de Il Conciliatore, il noto periodico di cultura eclettica e di tradizione illuminista da lui fondato insieme al conte Porro Lambertenghi e nel quale illustrò le sue idee sulla navigazione del Po e l’illuminazione pubblica. Ma il giornale fu soppresso nel 1819.
Il Conciliatore
Cominciò a questo punto l’attività segreta di Federico Confalonieri che divenne in breve il referente dei liberali piemontesi sviluppando un progetto di governo lombardo-veneto federato al Regno di Sardegna. Probabilmente il partito dei “federati” era una società carbonara di ambito buonarrotiano, scaturito da una delle varie sette ispirate dal pensiero di Filippo Buonarroti, in particolare dalla cerchia più alta, quella dei “Sublimi Maestri Perfetti” di cui era esponente lo svizzero Alessandro Andryane. L’attività cospiratoria del gruppo, che si riuniva in casa Confalonieri, aveva lo scopo di cacciare il governo austriaco e annettere la Lombardia al Piemonte sabaudo, istituendo un regime federale e costituzionale al quale si sarebbero poi unite anche le altre regioni. Teresa collaborava alle scuole di insegnamento mutuo, fondate in gran numero in quel periodo anche in Lombardia, fino alla loro chiusura avvenuta nel 1820 – proprio quando se ne stava per fondare una femminile – con il pretesto che “erano affidate a persone pericolose”. Scoppiò nel frattempo la rivolta del marzo 1821 quando il giovane reggente Carlo Alberto giurò fedeltà alla costituzione. La rivoluzione piemontese si esaurì presto e Carlo Felice riprese presto i suoi poteri, mentre a Napoli la rivolta capeggiata da Guglielmo Pepe era stata già soffocata da un intervento armato austriaco e i cospiratori arrestati.
Carlo Alberto di Savoia Carlo Felice di Savoia Guglielmo Pepe
In Lombardia il complotto era stato fiutato dal giudice inquirente Antonio Salvotti che operò una serie di arresti. Pur avvertito dall’amico austriaco Bubna, Federico non si mise in salvo e fu catturato in casa il 13 dicembre 1821. Il processo, che seguiva di poco quello di Pellico, fu celebrato nel biennio successivo. La sentenza, emessa il 19 dicembre 1821, condannava a morte tutti i maggiori responsabili: Confalonieri, Pallavicino, Andryane e a pene detentive gli altri. Teresa allora decise di recarsi a Vienna a chiedere la grazia all’imperatore accompagnata dal suocero, dal cognato e dal fratello. Francesco I si rifiutò di riceverla ma concesse udienza ai tre uomini, ai quali comunicò di avere già firmato la sentenza. Teresa invece riuscì a parlare con l’imperatrice Carolina Augusta, la quale si intenerì e convinse l’imperatore a concedere la grazia sulla base di irregolarità processuali. Il decreto fu letto in piazza il 21 gennaio 1824 e stabiliva la pena dell’ergastolo per Confalonieri e Andryane, 20 anni per Borsieri, Pallavicino e Castillia, 10 anni per Tonelli, 3 per Arese, tutti da scontarsi nella fortezza dello Spielberg in Moravia con il regime del carcere duro. I testimoni dell’epoca fornirono illuminanti dettagli sull’atmosfera del momento. Il consigliere Rosmini scriveva: “La sentenza fece grande impressione, ma sia dai buoni che dai cattivi fu censurata la clemenza di Sua Maestà usata a Confalonieri. La nobiltà quasi tutta l’approvò, come è ben naturale. Non però così la classe dei cittadini e del basso popolo che, avendo saputo che Sua Maestà aveva già firmato la sentenza di morte, accettò malvolentieri la grazia dell’imperatore attribuendola ai maneggi della famiglia del condannato”. Ancora una volta quindi, e nell’occasione più tragica, riemergeva la scarsa simpatia da cui erano circondati i due Confalonieri, fatto -questo- completamente rimosso dalla storiografia successiva tesa più che altro a esaltare l’amore coniugale e a trasformare l’impegno di lei in una languorosa storia romantica.
Benché considerate non perseguibili le “giardiniere” rimasero a lungo controllate dalla polizia come raccomandato nel 1823 dallo stesso imperatore Francesco I che scriveva di: “sorvegliare attentissimamente e di tenere d’occhio con cura le loro azioni”. Al governatore della Lombardia, conte di Strassoldo, era stato passato l’elenco dei loro nomi: “Camilla Fè, Matilde Dombowski, Bianca Milesi, le contesse Fracavalli e Confalonieri, Teresa Agazzini nata Cobianchi e Amalia Tirelli pure nata Cobianchi”. Teresa rivide il marito per l’ultima volta il 4 febbraio 1824 prima che i detenuti partissero per lo Spielberg. Pochi mesi dopo, con un altro viaggio a Vienna, chiese in un’udienza all’imperatore il permesso di andare a vivere a Brno nei cui pressi si trovava la fortezza, ma Francesco I rifiutò. Nel 1826 Teresa organizzò un tentativo di fuga grazie alla comprensione di un carceriere dello Spielberg. Ma Federico non volle evadere, temendo rappresaglie ai danni degli amici con lui detenuti, specialmente nei confronti del suo compagno di cella Alessandro Andryane. Teresa perse in poco tempo anche le amiche più care, già partecipi del complotto carbonaro. Nel 1825 morì Matilde Viscontini e due anni dopo Erminia Frecavalli; ormai la società delle giardiniere era decimata. Nel 1830, già ammalata, scrisse ancora all’imperatore: “Alla misericordia di Vostra maestà io porgo una preghiera: che mi sia concesso di terminare i miei giorni accanto a quello che la Provvidenza mi ha dato per compagno”. Ma ancora una volta il sovrano rimase impassibile. Il 26 settembre 1830, ad appena 43 anni, Teresa cessava di vivere.
Le Giardiniere
La società delle giardiniere si configurava come una vera e propria carboneria femminile con proprie riunioni tenute in quelli che si definivano “giardini”, equivalenti alle riunioni maschili chiamate “vendite”. Ogni giardino era composto da nove donne che vagliavano attentamente ogni nuova candidata. Come la carboneria anche la società delle giardiniere aveva i gradi: apprendista e maestra. L’apprendista aveva per motto “Costanza a Perseveranza” e doveva apprendere i programmi operativi. La maestra aveva come motto “Onore e Virtù” e poteva portare un’arma. La società fu in origine attiva a Napoli e successivamente si estese nel Lombardo-Veneto dove già nel 1819 ne scriveva allarmato il cardinale Consalvi. Ma, almeno all’inizio, la loro attività non fu presa molto sul serio. Le giardiniere agirono durante le insurrezioni e i complotti del 1820-21, quando sia il re Ferdinando di Borbone a Napoli che il reggente Carlo Alberto a Torino giurarono sulla costituzione spagnola del 1812 ritrattando poco dopo. Nel Lombardo-Veneto furono arrestate e interrogate, ma per la maggior parte considerate non perseguibili. Fu il caso di Maria Erminia Gambarana Frecavalli che funse da coordinatrice tra la Lombardia e il Piemonte portando messaggi allo scopo di preparare l’arrivo delle truppe sabaude. Arrestata nel 1821 insieme ai fautori del complotto antiaustriaco ebbe gli arresti domiciliari. Analoga sorte per Matilde Viscontini, che aveva sposato il generale polacco Dembowki e ispirato un grande amore allo scrittore francese Stendhal. Arrestata nel 1822 fu pesantemente interrogata da Antonio Salvotti che, vista la sua resistenza a non confessare, fu costretto a rimetterla in libertà vigilata. Preferì invece fuggire all’estero la pittrice Bianca Milesi allieva di Hayez la quale alla fine si stabilì con il marito a Parigi. Molto diversa fu la sorte delle giardiniere a Napoli, incarcerate, processate e condannate nell’ambito della repressione anticarbonara che si svolse nel Regno delle Due Sicilie nel decennio successivo all’intervento austriaco.
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