/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": Garibaldi: L'eroe dei due mondi

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giovedì 18 agosto 2011

Garibaldi: L'eroe dei due mondi


Quando si desidera approfondire una figura assurta a mito, come lo è quella di Garibaldi, non è cosa semplice. La Storia ne ha diverse di queste figure, il cui profilo viene “mitizzato” dagli storici che, facendolo, perdono il ruolo al quale sono preposti, che è quello innanzi tutto di riportare i fatti; fornendo sì, poi, le loro interpretazioni ma permettendo nello stesso tempo al lettore, sugli stessi fatti, di elaborarne di proprie.

Garibaldi, dicevamo, è una di queste figure che la Storia ha innalzato ai massimi vertici, ma di cui si conosce ben poco.
Chi non conosce l’epiteto “L’eroe dei due mondi” a lui riconosciuto? Ma quanti, in realtà, conoscono il perché? Per le sue azioni in Italia qualcosa noi italiani sappiamo, ma … a molti manca almeno uno dei due mondi. Prima di approfondire quello italico, sarebbe interessante iniziare a comprendere questa figura storica anche per le sue azioni nell’altro, così da poter meglio comprendere ciò che nella sua “eroica” esistenza egli abbia fatto.
Personalmente ritengo sia molto difficile giudicare un personaggio storico come eroe. O ,meglio, è opinabile: la valutazione cambia a seconda dell’angolo visuale da cui ci si pone. Per molti musulmani Osama Bin Laden è un eroe, per il mondo occidentale un terrorista ed un criminale. E’ quindi giusto e doveroso, per meglio comprendere un personaggio storico, capire le sue azioni che scopo avevano, che costo hanno comportato, con quali mezzi e con chi al fianco.
Quest’uomo (sembra già offensivo chiamarlo semplicemente così, tanto è radicata la convinzione impostaci del suo essere “eroe” dall’attuale storiografia) nasce a Nizza il 4 luglio 1807 e muore a Caprera il 2 giugno del 1882. Ripercorriamo insieme le tappe della sua vita.
1807-1835
Figlio di Domenico, capitano di cabotaggio, e Rosa Raimondi. I genitori avrebbero voluto far studiare il figlio per avviarlo a diversa carriera da quella di marinaio, ma Giuseppe mostrò fin da subito la sua vocazione marinara riuscendo a convincere la famiglia a farlo iscrivere nel registro dei mozzi nel 1821, all’età di 14 anni. Nel 1824 si imbarcò, per il suo primo viaggio, sulla nave “Costanza” spingendosi fino ad Odessa. Intraprese così, sempre come marinaio, diversi viaggi nel Mediterraneo. Ebbe allora modo di incontrare rivoluzionari e cospiratori che spesso, per sfuggire alle pene per loro previste dai governi europei, si imbarcavano su navi mercantili, e ne rimase fortemente influenzato. La storia dice che incontrò Mazzini nel 1833 a Londra (dove quest’ultimo era in esilio protetto dalla massoneria inglese) ed affascinato dalle sue idee, si affiliò alla setta segreta “Giovine Italia” fondata dallo stesso Mazzini. La setta aveva come scopo di trasformare l’Italia in una repubblica democratica unitaria.
Primo punto da approfondire: come operavano le sette segrete? Esse avevano come tattica principale l’attivazione di episodi di rivolta, sempre o quasi velleitarie ed irrealizzabili, per provocare la reazione dei governi e convincere, in tal modo, la popolazione che questo avveniva a causa dell’oppressione dei sovrani. Questo era il “modus operandi” delle sette: in Italia o in qualunque altro Stato che non si uniformasse alle loro mire.
Garibaldi si arruolò perciò nella marina piemontese, per sobillare e per propagandare la setta tra i marinai savoiardi.
Si era stabilito che l’11 febbraio 1834 ci sarebbe stata un’insurrezione popolare in Piemonte, favorita da un intervento militare esterno con un centinaio di rivoltosi, mentre a Genova Garibaldi aveva avuto il compito di far insorgere la città ed occuparne il porto. Era azione velleitaria ed inconsistente: fallita la sommossa, Garibaldi fuggì alla cattura in Francia, venendo condannato a morte in contumacia come: “bandito di primo catalogo” dai Savoia.
Arrivato in Francia, Garibaldi s’imbarcò sul brigantino mercantile Union, diretto prima verso Odessa poi verso Tunisi. Qui si imbarcò come marinaio nella flotta piratesca di Hussein Bey, signore di Tunisi.
A quel tempo, nel 1834, nella reggenza di Tunisi vivevano circa 8000 europei, di cui un terzo di loro italiani. La gran parte di loro erano sfuggiti a pene per reati di vario tipo, e tra queste la cospirazione sovversiva. La Carboneria, altra setta segreta, stava perdendo terreno ovunque (così anche a Tunisi) a favore della “Giovane Italia”.
1835-1851
A settembre del 1835, all’età di 28 anni, Garibaldi, tornato a Marsiglia, si imbarcò verso Rio de Janeiro.
Bisogna dire che il Brasile era allora considerato una specie di Eldorado dagli emigranti piemontesi e delle altre province del Nord (eh sì, all’epoca era dal Nord Italia che si emigrava) che in patria non trovavano lavoro. Basti pensare che ogni anno un milione di emigranti raggiungevano le terre sudamericane.
Garibaldi, iscrittosi alla sezione locale della “Giovane Italia” di Rio, trovò un lavoro interessante: fare il corsaro imitando i grandi pirati del passato, assaltando navi e saccheggiando. E qui c’è il grande intuito di Garibaldi: capì che per vincere doveva allearsi con il più forte; ed in quell’area l’Inghilterra era il migliore alleato potesse trovare.
Agli inizi dell’estate del 1836, Garibaldi, accusato dalle autorità di Rio de Janeiro di loschi traffici, ricevette l’ordine di espulsione dal Brasile. Rubò una barca dal porto, e con altri suoi complici si diede apertamente alla pirateria. Braccato dalla Marina brasiliana, si rifugiò nella provincia di Rio Grande presso Bento Gonçalves, capo della rivolta contro la monarchia del Brasile.
Decise così di dare il suo sostegno alla nascente Repubblica di Rio grande del sud, ribellatasi all’imperatore del Brasile, che gli conferì brevetto di corso, e di “pirateggiare” legalmente.
Nel 1837, Garibaldi mise in mare un peschereccio da 20 tonnellate (lo chiamò Mazzini) e successivamente, con altre navi cattoliche-ispaniche catturate , si diede a scorrerie e saccheggi sul Rio Grande e nei villaggi rivieraschi, protetto dagli inglesi i quali ottenevano il loro scopo di assicurarsi il monopolio commerciale nell’area. Nell’agosto, Garibaldi, sfuggito alla cattura riparò in Argentina.
Nel 1838 si diresse prima a Montevideo e poi di nuovo nel Rio Grande, dove i ribelli di Bento gli affidarono due navi. Assoldati delinquenti prezzolati, nei pressi della laguna di Dos Patos, assaliva navi mercantili isolate, uccidendo gli inermi marinai delle navi catturate. Molte volte, con i suoi uomini, assaliva anche villaggi costieri, razziando, depredando, e violentando le donne.
Nel 1839, avvenne il salto di qualità per Garibaldi. Quell’anno la Cina decretò il divieto d’importazione dell’oppio da parte della compagnia inglese delle Indie Orientali, dato lo stato miserevole della popolazione cinese indotta all’uso dell’oppio dagli inglesi, che avevano lo scopo di ricavarne ricchezza e potere. Un funzionario cinese requisì e fece distruggere oltre 2000 casse di droga appartenente ai mercanti britannici.
Lord Palmerston, Gran Maestro della Massoneria e ministro degli esteri inglese , poiché il commercio della droga, per i suoi enormi profitti, era di fondamentale importanza per l’imperialismo inglese, ordinò di far sbarcare dei marinai inglesi dalla flotta che era nei pressi di Honk Kong, con il compito di provocare una rissa. Fingendosi ubriachi uccisero un cinese, ed il capitano inglese Elliot, alla richiesta delle autorità di consegnare il colpevole, si rifiutò e con ciò ricevendo l’intimazione di abbandonare con la sua flotta le coste cinesi. Ovviamente era una strategia ben studiata: la flotta inglese si rifiutò di lasciare le coste, attendendo l’arrivo delle modeste navi cinesi per affondarle. Gli inglesi avevano raggiunto il loro scopo: minacciarono la Cina e la costrinsero ad accettare la libera importazione dell’oppio nonché di pagare all’Inghilterra un’enorme indennità di guerra.
Hong Kong fu occupata dalle truppe inglesi, ed in seguito fu ceduta in “affitto” alla corona inglese col trattato di Nanchino del 1842, divenendo la capitale mondiale della droga sotto la protezione del governo inglese.Questo paese e questo governo era alleato di Garibaldi che, come vedremo in seguito, andrà in Cina per i suoi traffici.Garibaldi grazie ai suoi trascorsi – come marinaio della marina sarda prima, poi di marina mercantile a Marsiglia, in Tunisia come mercenario, come corsaro in Brasile dalla parte del movimento insurrezionale della provincia di Rio Grande – si vide riconosciuto il grado di colonnello dell’esercito uruguaiano e di capo della seconda divisione delle squadra Orientale.
L’armata argentina, guidata dall’ammiraglio Guillermo Brown, nella famosa battaglia della Costa Brava del 15 e 16 agosto 1842, distrusse quella uruguaiana costringendo Garibaldi alla fuga.
Questi, alla fine di agosto di quell’anno, conobbe in Uruguay Anita, che lo seguirà nelle sue “avventure” fino alla sua morte.
Alla fine dell’anno, una squadra navale brasiliana riuscì ad intercettare e distruggere le navi corsare di Garibaldi, che assieme ad Anita ed a pochi altri, si rifugiò ancora presso Bento. Insieme a lui, che nel 1840 aveva costituito un folto gruppo di banditi, si diede ancora a compiere rapine e razzie di ogni genere. Il 16 novembre Anita partorì da lui Menotti.
Dopo l’estate del 1841 si separò da Bento con 900 bovini razziati nelle campagne, e si diresse verso l’Uruguay. Arrivò lì con solo 300 pelli. Senza denaro ed inadatto a lavorare, fu aiutato da Anita che per l’occasione fu costretta a fare la lavandaia.
Intanto, era scoppiata la guerra tra Argentina ed Uruguay. Nel gennaio del 1842 gli fu affidato dal diplomatico inglese William Gore Ouseley, il comando di alcune navi, con le quali costituì una grossa banda, quasi tutt’italiana. Come uniforme scelse una camicia rossa, il cui tessuto – inizialmente destinato agli operai argentini addetti alla macellazione delle carni, e di colore rosso per mascherare le macchie di sangue della macellazione – fu acquistato in saldi, in quanto rimasto invenduto p sopravvenuta guerra tra Argentina ed Uruguay . La banda era per lo più dedita alle rapine e ad atti di violenza, a cui spesso partecipava lo stesso Garibaldi; tanto che dopo l’ennesima rapina in casa di un brasiliano, venne destituito ed imprigionato.
Questa gente veniva assoldata come mercenaria nella guerra che allora vedeva l’impero inglese, oltre a quello francese e degli Stati Uniti, uniti all’Uruguay a sostegno della “libera navigazione dei fiumi”, eufemismo utilizzato per sottoporre il commercio argentino agli interessi degli imperialisti. L’Argentina aveva un governo proprio dal 25 maggio 1810 a seguito dell’indipendenza dalla Spagna.
Tra gli italiani con lui vi erano anche dei tipografi settari che pensarono di stampare un giornale: “Il legionario italiano”, sul quale si inventarono di sana pianta episodi di eroismo sul comportamento degli italiani in quella guerra, in maniera da attenuare la forte ostilità dei cittadini uruguayani verso le camicie rosse. Quel giornale fu fatto uscire dai confini dell’Uruguay e, con la complicità dei settari, tradotto in molte lingue; tanto che, riportata da altri giornali, nacque la leggenda degli “eroici” legionari italiani. In Uruguay, Garibaldi si batteva per assicurare ancora una volta il monopolio commerciale britannico. Nel 1844, dopo la già detta iscrizione alla Giovine Italia, inizia la sua vera carriera di massone, iscrivendosi prima alla massoneria universale nella loggia irregolare “L’asilo della virtù”. Si regolarizzò poi, iscrivendosi a Montevideo alla loggia regolare “Gli amici della Patria”, loggia dipendente dal Grande Oriente di Francia.
Garibaldi, nelle sue memorie autografe , certamente non si fa scrupolo nel descrivere come criminali gli uomini che compongono il suo “esercito”. Egli stesso scrive nelle sue “Memorie”:
“marinai avventurieri conosciuti sulle coste americane dell’Atlantico e del Pacifico sotto il nome di “Frères de la cote”, classe che aveva fornito certamente gli equipaggi dei filibustieri, dei bucanieri, e che oggi ancora dava il suo contingente alla tratta dei neri”
oppure
” quasi tutti disertori da bastimenti di guerra. E questi, devo confessarlo, erano i meno discoli. Circa gli americani tutti quanti, quasi, erano stati cacciati dall’esercito di terra per misfatti e massime per omicidio. Dimodochè essi erano veri cavalli sfrenati.”
In Italia, nel frattempo, si osannavano le imprese banditesche del pirata nizzardo offendendo la storia e la dignità delle nazioni sudamericane.
Il Pais, giornale che vende 300.000 copie giornaliere si è così espresso nel numero del 27 luglio 1995, in occasione di una visita di Scalfaro, allora Presidente della Repubblica italiana:
“Il presidente d’Italia è stato nostro illustre visitante … disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di voler riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota (Garibaldi) non ha lottato per la libertà di queste nazioni come (Scalfaro) afferma. Piuttosto il contrario.”
Il 24 ottobre la Francia costrinse il governo cinese ad un nuovo trattato commerciale con cui anche i francesi potevano vendere oppio ai cinesi. Eliminata la sovranità cinese, Inghilterra, Stati Uniti e Francia poterono così vendere liberamente ogni prodotto in quel mercato.
Il 20 novembre 1847 la flotta anglo-francese sconfisse quella argentina, ponendo fine alla guerra tra Uruguay ed Argentina.
Intanto la leggenda di Garibaldi gonfiata oltre misura, convinse Mazzini ad invitarlo in Italia dove riteneva che “i tempi dell’azione erano ormai maturi”.
La mossa dei massoni in Italia fu quella di spingere alcuni affiliati duosiciliani, La Farina e La Masa, a sbarcare a Palermo il 3 gennaio 1848, dove era stato loro detto essersi costituito un inesistente comitato rivoluzionario. Lì operavano altri massoni, tra questi Rosolino Pilo e Francesco Bagnasco, che al loro arrivo mobilitarono i seguaci per iniziare la rivolta. Per avere l’appoggio delle popolazioni convinsero il principe Ruggero Settimo a porsi a capo della rivolta per l’indipendenza della Sicilia. L’indecisione del principe fu conquistata grazie all’appoggio della flotta inglese nel porto di Palermo. I rivoltosi, certi che il comandante borbonico, il massone De Majo, avrebbe opposto una resistenza simbolica, insorsero il 12 gennaio.
Intanto, Lord Palmerston, capo del governo inglese, suggeriva al governo napoletano di riconoscere l’indipendenza della Sicilia. Gli inglesi, infatti, ambivano da tempo di appropriarsi della Sicilia sia per contrastare la Francia nel Mediterraneo (dopo l’occupazione francese di Algeri) sia per le immense miniere di zolfo presenti sull’isola.
Il 15 marzo 1848 Garibaldi, chiamato da Mazzini, partì da Montevideo con 150 uomini sulla nave Speranza, ed il 24 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria dando inizio alla Prima guerra d’indipendenza. Nonostante il volere contrario di Carlo Alberto, alle varie battaglie avevano tentato di partecipare anche i volontari di Garibaldi; ma i più, vista la cattiva parata della guerra, incominciarono a disertare, mentre quelli rimasti, insieme a Garibaldi, travestito da contadino, riuscirono a giungere in Svizzera dove il sempre prudente Mazzini si era rifugiato.
A queste vicende non vi fu alcuna partecipazione popolare, anzi le masse erano per lo più favorevoli agli Austriaci. Garibaldi descrive così gli uomini che gli erano stati affidati, sempre nelle sue Memorie:
“ … gente che aveva disertato od era stata fisicamente inabile al servizio militare presso gli eserciti sardo o lombardo; e per quanto non fossero veri e propri criminali, come i marinai montevideani, al fuoco si mostrarono meno coraggiosi e meno fidati di questi”.
Intanto, il 5 febbraio 1849 fu proclamata a Roma, dove erano affluiti i più importanti capi massoni tra cui Garibaldi e Mazzini, la repubblica romana. L’assassinio fu l’ordinario espediente della setta per contenere la popolazione col terrore. A questo governo il primo ministro inglese, lord Palmerston, dichiarò di essere pronto a portare qualsiasi aiuto.
Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto attaccò nuovamente gli austriaci che, in soli 3 giorni, sconfissero i piemontesi a Novara. Gli inglesi premettero sull’Austria affinché non invadesse il Piemonte, facendola accontentare di un’indennità di guerra considerevole. Carlo Alberto fu costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che a sua volta fu spinto a nominare Presidente dei ministri il massone Massimo d’Azeglio. Vittorio Emanuele, “il re galantuomo”, iniziò la sua carriera reprimendo nel sangue la ribellione di Genova all’opprimente dominazione piemontese, bombardando per 3 giorni la città e provocando la morte di 500 genovesi.
A quel tempo, a Roma, il papa aveva lanciato un appello a tutte le nazioni cattoliche, tranne al Piemonte, affinché fosse restaurato sul trono. Raccolsero l’appello la Francia prima, poi l’Austria, la Spagna ed il Regno delle due Sicilie.
Il generale Oudinot, a capo delle truppe francesi, ricevette l’ordine di non operare con le truppe napoletane ed austriache perché i loro governi erano considerati reazionari. Poiché Oudinot aveva deciso da solo un armistizio con la repubblica romana, tutto l’esercito repubblicano assalì quello napoletano schierato a sud, ma fu sconfitto e lo stesso Garibaldi si salvò a stento.
Il 27 maggio sbarcò a Gaeta il contingente spagnolo unendosi ad altre brigate napoletane liberatesi dopo la riconquista della Sicilia. Mentre napoletani e spagnoli liberavano i territori a sud di Roma, Oudinot entrò nella città il 3 luglio ristabilendo il potere del papa. Garibaldi così commenta, sempre nelle sue Memorie, gli uomini che lui comandava:
“gruppi di disertori scioglievansi sfrenati per le campagne e commettevano violenze d’ogni specie. … codardi nell’abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti”
Mazzini scappò a Londra, mentre Garibaldi prima a San Marino, poi Venezia e Genova. In questa fuga morì Anita.
Garibaldi riparò a Tangeri, poi in Marocco, e fu per sei mesi ospite lì dell’ambasciatore piemontese. Infine, raggiunse New York nell’agosto del 1850 dove lavorò nella fabbrica di candele di Antonio Meucci.
Si imbarcò poi per il Perù, cercando un ingaggio di capitano di mare.
1852-1854
E qui inizia la parte più ambigua e misteriosa della vita di Garibaldi. Come capitano di navi mercantili trasportava merce di vario tipo da un luogo all’altro. Nelle sue memorie ci descrive le varie operazioni, la merce trasportata, i porti toccati. Ma c’è qualche punto oscuro che merita di essere chiarito.Il 10 gennaio 1852 Garibaldi era partito con un carico di guano (sterco di uccelli utilizzato come fertilizzante) dal porto peruviano di Callao quale comandante della Carmen (il cui armatore era un ricchissimo e noto negriero, un certo Pietro Denegri, genovese che aveva lì trovato fortuna) e con destinazione la Cina.
Leggiamo insieme Garibaldi, cosa scrive sempre nelle sue Memorie:
“Il sig. Pietro Denegri mi diede il comando della Carmen, barca di 400 tonnellate, e mi preparai per un viaggio in Cina … veleggiai verso le isole di Cincia (isolotti a 100 km. A sud di Lima) ove si caricò guano, destinato per la Cina; e tornai a Callao per le ultime disposizioni del lungo viaggio. Il 10 gennaio 1852 salpai da Callao per Canton. … Giunto a Canton, il mio consegnatario mi mandò ad Amoy, non trovandosi a vendere il carico di guano nella prima piazza. Da Amoy tornai a Canton; e non essendo pronto il carico di ritorno caricai per Manilla differenti generi. Da Manilla tornai a Canton, ove si cambiarono gli alberi della Carmen, trovati guasti … Pronto il carico, lasciammo Canton per Lima.”
Garibaldi scrive: nel viaggio di andata “veleggiai verso le isole di Cincia”; e a proposito di quello di ritorno da Canton “Pronto il carico, lasciammo Canton per Lima.”
Ebbene, cosa trasportò? Non lo dice.
Il viaggio non programmato 1) da Canton ad Amoy e ritorno e 2) da Canton a Manilla e ritorno, qualche problema lo creò tra Garibaldi e l’armatore genovese. Sempre nelle sue memorie, dopo il ritorno ed in prosieguo per Boston:
“ … ricevetti una lettera, con alcuni rimproveri dal proprietario della Carmen, che mi sembrò di non meritare; e per cui lasciai il comando di detto legno …”.
Garibaldi arrivò a Genova il 10 maggio 1854 e fino a febbraio 1859 stette a Caprera “parte navigando, e parte coltivando un piccolo possesso da me acquistato”.
Lui scrive un piccolo possesso, ma in realtà acquistò mezza isola. Da dove gli provenivano tanti soldi, visto che poco prima per sopravvivere aveva lavorato nella fabbrica di candele per pochi dollari, e che il comando di due navi poteva avergli fatto guadagnare poche centinaia di dollari insufficienti per l’acquisto di mezza isola? I suoi agiografi scrivono di una misteriosa eredità, ma non forniscono nessuna prova e sorvolano sui dettagli.
Circa il carico di ritorno della Carmen da Canton, visto che Garibaldi non dice cosa fosse, ci sono varie interpretazioni.
Giorgio Candeloro, storico del risorgimento, intervistato dal giornale “La Repubblica” , dichiarò in un’intervista:
” Comunque Garibaldi, un po’ avventuriero, un po’ uomo d’azione, non era tipo da lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perù; e, come capitano di mare, prende un comando per dei viaggi in Cina. All’andata trasportava guano, al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma un lavoretto un po’ da negriero. Era un avventuriero, un uomo contraddittorio fantasioso, un personaggio da romanzo”.
Bisogna ricordare che all’epoca era fiorente la tratta di schiavi (chiamati coolies) tra la Cina e l’America meridionale.
“Ufficialmente liberi emigranti, in realtà semi-schiavi costretti ad imbarcarsi con violenze e minacce, forza-lavoro venduta e commerciata come bestiame” da piegare, con la sferza e sotto buona scorta armata, nelle miniere e nei campi di ricchi fazenderos sudamericani (Guido Rampoldi, giornalista di Repubblica).
Erano venduti come “cani e maiali” sui mercati di carne umana di Cuba, Stati Uniti e Perù. Proprio in questi ultimi paesi venivano portati nelle guaneras (dove si produceva il guano) di proprietà del ricchissimo armatore genovese don Pedro Denegri, armatore della Carmen affidata a Garibaldi.
In sostanza, Candeloro dava per scontato che Garibaldi trasportasse coolies.
Il già citato Rampoldi riporta una frase pronunciata dall’armatore Denegri e ripetuta in una biografia apologetica di Garibaldi scritta nel 1882 dal suo amico fraterno A.V. Vecchj, definendola: ”La sua voleva essere una lode. Ma una di quelle lodi che affossano un uomo.”
Leggiamola insieme:
“Garibaldi m’ha sempre portato i “chinesi” nel numero imbarcati e tutti grassi ed in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie”.
Questa frase è citata dal Vecchj in esaltazione di Garibaldi, e bisogna anche aver presente che il Vecchj era un suo fraterno compagno.
Si schiera contro questa tesi di Garibaldi negriero un certo Phillip K. Cowie. Egli, vorrebbe smontare questa teoria non dimostrando l’inconsistenza dell’eventuale calunnia, ma opponendo un banale malinteso linguistico. Infatti Cowie sostiene che “chinese” nello spagnolo ufficiale significa cinese, mentre in Perù significherebbe meticcio in quanto figlio di nero e di donna indiana, i quali meticci all’epoca erano per lo più coloni. Perciò, si tratterebbe di un errore di traduzione, e “chinesi” non sta per schiavi bensì per coloni.
Il Vecchj, conobbe il Denegri in Perù presentandosi con una raccomandazione dello stesso Garibaldi . E fu durante una tavolata amichevole che ricevette quella confidenza dal Denegri, il già detto armatore fazenderos negriero e genovese. Il Vecchj non conosceva il castigliano eppure, secondo quella teoria del Cowie, il genovese Denegri avrebbe dovuto parlare con lui in dialetto peruviano. Bisogna ancora sottolineare che il Vecchj mai smentì quella frase di Denegri.
Ebbene in dialetto peruviano “chinese” significa altrettanto cinese, mentre per definire un meticcio si usava, allora come oggi, il termine zambo.
Cowie afferma ancora che Garibaldi non avrebbe precisato il carico trasportato nel viaggio di ritorno da Canton perché “era stato un cargo come tutti gli altri; niente di particolare”.
Strano, perché Garibaldi era stato precisissimo nel descrivere gli altri viaggi, tappa per tappa. Ed è altrettanto preciso per il viaggio dalle isole di Cincia a Canton, laddove precisa che ha trasportato guano. E’ solo per l’andata alle Cincia e per il ritorno da Canton a Lima che non ne parla.
Garibaldi ottenne il comando della Carmen il 15 ottobre, ma la partenza ci fu il 10 di gennaio. In questi tre mesi cosa fece? La distanza dalle Cincia a Callao è di circa 100 km. A meno che non si pensi che si pagassero i marinai per prendersi la tintarella al sole, c’è da pensare che Garibaldi abbia fatto la spola tra Callao e le isole Cincia. E cosa avrebbe trasportato se non i coolies, los chinos, cioè i poveri disgraziati che venivano rapiti e deportati dalle coste della Cina?
Come è stato detto a quei disgraziati schiavi gialli fu dato il nome di coolies. La tratta iniziò circa nel 1847, prima dal porto di Macao e poi anche da quello di Canton. Venivano portati a Cuba o a Callao in Perù, dove la maggior parte di loro era poi trasferita nelle Islas de Chincha.
In Cina c’erano sensali o pirati che provvedevano ad accatastarli in misere baracche o scambiati direttamente in mare dai pirati. I tentativi di fuga venivano domati con la frusta, le torture o con la morte. Molti morivano per epidemie o suicidi.
Riporto Pino Fortini, uno storico che fece uno studio molto accurato sull’argomento nel suo libro “Audacie sui mari. Ardimenti di navigatori, avventure di pirati e di trafficanti di carne umana” (anno 1940):“Gradatamente, all’arrivo delle navi-trasporto, la massa dei coolies era avviata verso i luoghi di destinazione fra cui tetramente famose le Chinchas, tre isolotti a sud di Callao fra il 14° e 13° grado lat. Sud … Fu in quel torno di tempo (1850) che nelle Chinchas cominciarono a penare i cinesi; senza pausa, senza sosta, nudi sino alla cintola nella tormenta del polverone. E la pena veniva resa ancor piú grave dall’ingordigia degli imprenditori. Don Domingo Elias, difatti, appaltatore del governo peruviano, riceveva quattro scellini e mezzo per tonnellata di guano, ma egli subappaltava il suo contratto a capiciurma senza scrupoli, che comprimevano le spese vive sino a ridurle sui tre scellini a tonnellata. Questo margine era raggiunto forzando senza pietà i cinesi a dare il massimo rendimento fino ai limiti estremi delle forze; costringendoli con la frusta a zappare un quantitativo non minore di sei-otto tonnellate per ciascuno al giorno. In compenso i viveri erano insufficienti e spesso avariati; gli alloggi sordidi, mentre l’alcole correva a fiumi. E quasi ciò non bastasse, la disciplina era affidata ad un ufficiale peruviano di severità proverbiale. Il pontone ove egli alloggiava portava, di consueto, alle gru o ai pennoni, dall’alba al tramonto un grappolo di otto o dieci coolies, sospesi per la cintola, lasciati sotto il sole tropicale privi di acqua e di cibo. Ma non mancavano torture anche piú sadiche; una di esse, ad esempio, era costituita da una vecchia chiatta che faceva acqua, e nella quale il punito, incatenato, doveva disperatamente aggottare (cioè rigettare l’acqua in mare con la gottazza, una specie di cucchiaia di legno di circa 30 cm, con manico corto, ndr) per non farsi trascinare al fondo. Un altro supplizio era quello di mettere il colpevole su di una boa spazzata continuamente dal mare; si esauriva naturalmente il disgraziato nel tentativo di mantenervisi aggrappato”.
Uno studioso americano, Basil Lubbock, nel suo libro “Coolies ships and oil sailors”, Boston, 1935, citato da P. Fortini, ibidem, pag. 120, ecco che cosa riferisce circa l’inferno delle Chinchas: “Le crudeltà delle Chinchas sono appena credibili e pochissimi cinesi riuscivano a sopravvivere piú di qualche mese …; chi non si suicidava in un modo o nell’altro, periva per il lavoro eccessivo, il polverone respirato, la deficienza di cibo adatto”.

Ancora dal dettagliato e macabro racconto di Fortini: “Ma per arrivare a questo … placido sito o nelle piantagioni, il coolie doveva passare attraverso un altro inferno, quello del trasporto marittimo… Una nave trasporto-coolies era identificata da lontano “per lo spaventoso puzzo che emanava”… Per meglio domare le possibili rivolte, l’interponte delle navi-coolies veniva di regola ripartito stabilmente in parecchi compartimenti mediante robuste sbarre metalliche … due cannoni a poppa, sempre carichi a mitraglia in posizione tale da dominare il ponte; pochi metri piú avanti un’altra barricata, alta sino a tre metri, da murata a murata, cosí spessa da arrestare una pallottola. E sulla barricata come sugli spalti delle antiche città, sentinelle armate; tutto l’equipaggio del resto era costantemente armato. I diabolici metodi dell’ufficiale peruviano alle Chinchas e dei suoi dipendenti furono ben presto noti nel mondo a mezzo delle navi che andavano a caricare guano, cosicché, nel 1858, il “reclutamento” dei cinesi per quelle isole fu impedito dall’intervento delle grandi potenze .. Non si può non ricordare che fra tutti i capitani nostri che navigarono in questo traffico, sotto bandiera italiana (??) o peruviana, uno si distinse di mille cubiti per l’umanità sua; un capitano dalla rossa cappelliera: … Giuseppe Garibaldi”.
Il quale venne, vide … chiuse gli occhi su quella terrificante tragedia umana e ci mangiò sopra, perché quelli erano tempi in cui la coscienza, la cultura bianca accettava come normale quell’ignobile rivoltante attività.Qualche dato sul losco traffico dei coolies, sempre secondo Pino Fortini che attinse a fonti americane: su mille schiavi catturati, circa 500 perivano alla cattura per maltrattamenti, torture e sevizie varie; 125 circa nel tragitto; 75 nel periodo di acclimatamento nelle nuove terre. Sin dal 1841 le grandi potenze, Inghilterra, Francia, Austria, Russia, Prussia, stipularono un trattato che, a chiacchiere, parificava la tratta degli schiavi neri alla pirateria. Da quell’epoca cominciò a scemare la tratta dei negri dal continente africano, ma iniziò quella dei gialli, con metodi non meno brutali e bestiali. Ma solo nel 1854 il Perú abolì sulla carta, come abbiamo visto, ma con scarsissimi risultati, quel flagello in danno dei Neri, ma non del popolo cinese, in notevole anticipo sugli Stati Uniti (unionisti) d’America, che a loro volta l’abolirono con legge 1° gennaio 1863, estesa, alla fine della guerra di secessione, agli Stati della ex confederazione sudista. Tuttavia ciò che diede il colpo di grazia alla tratta degli schiavi fu l’inizio dell’esportazione dei nitrati del gran deserto salato di Tarapaca: solo allora (1884) suonò a morto la campana per il guano e di conseguenza per le guaneras. Intanto, i negrieri sguazzavano già nell’oro insanguinato … e qualcuno si era comprato mezza Caprera.
Pino Fortini in suo libro del 1950 intitolato “Garibaldi marinaio (pagine di storia marinara)” affermava “che il Vecchj è l’unico biografo, mai da nessuno smentito” che coinvolgeva Garibaldi nel losco traffico un po’ negriero.Il Cowie riferisce che esiste un libro pubblicato a Londra nel 1881, autore un certo J. T. Bent, dal titolo “Life of Giuseppe Garibaldi” in cui l’eroe avrebbe detto all’armatore che gli imponeva di completare il carico con schiavi cinesi: “Never will I become a traffiker in human flesh”, cioè “non diventerò mai trafficante di carne umana”. Già, ma come era venuta in mente al Bent l’idea provocatoria e irriverente di domandargli se era mai stato trafficante di schiavi? Come è possibile che l’ eroe dei due mondi si metta al servizio di un negriero come Denegri senza diventare negriero, connivente, a sua volta? E come mai alle Chinchas non impugnò la durlindana, se ne stette inerte e non fece nulla per liberare gli schiavi?La conclusione a cui perviene il Cowie è possibilista: “Ovviamente non si può né si deve escludere alcunché circa la testimonianza del Vecchi”, ma si contraddice immediatamente in modo lapidario: “La frase del Vecchi non è altro che il frutto di un malinteso linguistico”, malinteso che abbiamo visto essere inconsistente. Due posizioni chiaramente antagoniste.
Che il romantico eroe sia stato per un certo tempo un po’ negriero era convinzione del Candeloro, che è uno storico che ha sempre soppesato le parole. Ne parlano i preti di Hong Kong, che videro e riferirono, e che chissà perché vengono definiti retrogradi. È probabile che, se avessero bruciato incenso in favore dell’eroe e cosparso il suo cammino di fiori, sarebbero stati definiti progressisti. Il Vecchj, amico di famiglia di Garibaldi, parla esplicitamente di “chinesi” senza ombra di scandalo. E ciò è comprensibile. Per la mentalità schiavistica del secolo scorso, lo schiavismo delle etnie diverse dalla bianca non costituiva elemento di scandalo. Il caso Voltaire, il gran repubblicano, il predicatore della libertà e dell’eguaglianza e … della fraternité, insegna.
1854-1859
Tornato in Italia, Garibaldi restò a Caprera per quattro anni dedicandosi alla sua proprietà. Partecipò nel 1859 (maggio-giugno) alla seconda guerra d’indipendenza, questa volta con il consenso del re Vittorio Emanuele II, guidando i “Cacciatori delle Alpi” . In seguito alla vittoria franco-piemontese fu incaricato di controllare il confine con lo Stato della Chiesa. Andò oltre i propri compiti, attaccando con i suoi uomini ripetutamente le Marche e l’Umbria, e ciò senza il preventivo necessario consenso di Napoleone III. Per cui, fu destituito dall’incarico.
Questa è la storia di Giuseppe Garibaldi fino al 1859, dove la storiografia in auge pretende abbia conquistato il titolo di eroe per il “primo” mondo, quello sudamericano. Chi ha avuto la pazienza di leggere sino a qui mi auguro che almeno qualche dubbio gli possa essere nato. Se non quello di criminale, l’appellativo di eroe è corretto?
Ora inizia la parte finale della storia di Garibaldi, l’eroe dei due mondi: la guerra per l’unità d’Italia. Per poter comprendere meglio questa seconda parte, bisogna ricostruire la storia che è dietro “la spedizione dei mille”. Come nacque quella spedizione, chi la sostenne, come fu resa possibile?
E qui vedremo insieme quanto “eroismo” ci sia stato.
1860
Il 24 gennaio 1860 Garibaldi sta per convolare a nozze con la giovane marchesina Giuseppina Raimondi. L’antipapa per eccellenza viene raggiunto all’uscita della chiesa da un militare che gli consegna un biglietto. Garibaldi lo legge, si rabbuia in viso ed esclama: “Leggete, è vero? Signora, siete una puttana!”.
La marchesina era in attesa di un figlio ma il padre era un altro uomo, il suo ex amante. Garibaldi offeso e tradito tornò nella sua Caprera.
Nel frattempo si procedeva nell’organizzazione di ciò che già dall’anno precedente era conosciuto a molti: l’invasione di uno dei regni più antichi d’Europa, quello delle Due Sicilie.
La Storia, soprattutto nei libri scolastici dove inizia l’indottrinamento degli scolaretti, per decenni ci ha raccontato la favoletta dei Mille che, senza mezzi ed all’improvvisata, guidati da Garibaldi rubano due navi dell’armatore Rubattino per partire da Quarto alla conquista del Regno delle due Sicilie.
Nulla di più falso. Quella guerra fu pianificata in ogni dettaglio, con il sostegno di un governo straniero, quello inglese, che aveva il “nobile” intento di continuare a garantirsi il controllo del Mediterraneo dall’invadenza francese e per tutelare i suoi traffici con lo zolfo siciliano, ed il sostegno di un governo falsamente “patriottico” quale quello piemontese, che nell’annessione aveva da guadagnare ingenti ricchezze, nonchè dalla massoneria internazionale capeggiata da quella inglese.
Il capitalismo aveva la necessità di contrastare quei governi che adottavano politiche di chiusura doganale come i Borbone, e l’Inghilterra incarnava l’aspetto più violento dell’ideologia capitalistica, anche dal punto di vista militare.
Mazzini iniziò a reperire fondi in Inghilterra, contando su i suoi appoggi non solo tra i circoli repubblicani e le logge massoniche ma anche tra industriali facoltosi e politici.
Il deputato liberale inglese, William Gladstone, aveva artatamente preparato il terreno, presentando all’opinione pubblica denunce inventate di sana pianta sul sistema carcerario nel Regno delle due Sicilie, come lui stesso ammise 40 anni dopo.
Nel marzo del 1860 fu proposto a Garibaldi di capeggiare una spedizione militare in Sicilia, ma lui rifiutò in quanto riteneva non ci fossero ancora le opportune garanzie per una vittoria. Si decise, allora, e tramite Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, di raccogliere consensi ed uomini in Sicilia. Gli uomini dovevano essere pronti non solo con le mani, ma con le armi. In Sicilia i baroni, grandi latifondisti, possedevano ciascuno delle milizie formate da “maffiosi”, gente senza arte né parte, posta a difesa del latifondo contro i contadini. Pilo e Corrao conquistarono i baroni facendo intravedere loro la possibilità di una maggiore autonomia dell’isola dai “napoletani”.
Fu così che Garibaldi fu convinto della riuscita della spedizione, e fu utilizzato anche il suo nome per la raccolta dei fondi. Gli inglesi non solo sostenevano la raccolta dei soldi, ma promossero anche l’arruolamento dei volontari per la spedizione. L’ammontare finale dei fondi raccolti fu di oltre 600 milioni di lire, una cifra enorme. A cosa servì tanto denaro: non solo per la paga dei 1000 mercenari, non solo per l’acquisto delle armi, ma anche e soprattutto per corrompere i capi militari dell’esercito e della marina borbonica. E’ risaputo che molti di quei militari erano massoni, legati all’idea della fratellanza universale e molti di loro, finita la guerra di conquista, furono nominati con pari grado o superiore nell’esercito dei Savoia o furono gratificati da ricche rendite vitalizie.
Garibaldi ebbe ampie assicurazioni dal governo inglese ancora prima di iniziare la spedizione, come lui stesso confermò nei suoi discorsi pubblici in Inghilterra nel 1864: “Parlo di ciò che so, perché la regina e il governo inglese si sono stupendamente comportati verso la nostra natia Italia. Senza di essi noi subiremmo il giogo dei Borbone a Napoli; se non fosse stato per l’ammiraglio Mundy, non avrei mai potuto passare lo stretto di Messina.”
In quel periodo solo Massimo d’Azeglio era contrario ad un’aggressione armata senza una preventiva dichiarazione di guerra. Ma d’Azeglio era un romantico legalitario, al contrario di Garibaldi.
In cambio di promesse di pagamento e futuri contratti per i collegamenti marittimi con la Sardegna, l’amministratore della compagnia Rubattino di Genova mise a disposizione due piroscafi, il “Piemonte” e il “Lombardo”. Si organizzò una messinscena per fingere che fossero stati presi con la forza, e non contravvenire alle leggi. Il governo piemontese inviò sue navi da guerra in prossimità delle coste meridionali d’Italia, col pretesto di aver avuto notizia del maltrattamento di sudditi piemontesi. Quasi per caso anche le navi inglesi aumentarono di numero lungo le coste siciliane.
Il governo napoletano era consapevole di quanto stava avvenendo, ma le sue legittime proteste in sede diplomatica non vennero ascoltate. Formalmente non c’era nessun sostegno militare alla spedizione di Garibaldi.Alla partenza della spedizione, nella notte tra il 5 ed il 6 maggio, vi erano ben quattro navi da guerra duosiciliane a vigilare le coste; eppure, stranamente, persero tempo. Intanto Francesco II, su suggerimento del generale Filangieri, indicava a Castelcicala, suo luogotente con pieni poteri in Sicilia, dove occorreva concentrare l’esercito per aspettare e contrastare i mercenari garibaldini: Salemi. Luogo dove poi, effettivamente, Garibaldi proclamò la sua dittatura sull’isola.
Castelcicala, nonostante avesse una guarnigione solo a Palermo di 20.000 uomini a sua disposizione, non seguì le indicazioni che gli provenivano da Napoli, tergiversando su ulteriori rinforzi che riteneva gli fossero necessari. All’alba dell’11 maggio avvenne lo sbarco a Marsala, presidiato dalle navi inglesi, e gli sbarcati furono accompagnati dai “picciotti di maffia” del barone di Sant’Anna venuti ad accoglierli. I baroni siciliani si erano subito messi a disposizione di Garibaldi per liberarsi dai Borbone, che avevano nel passato provato a ridurre i loro poteri, e restare così padroni dell’isola.
Il 19 agosto 1860 l’ammiraglio Persano, a capo della Marina napoletana, così scrive nel suo Diario:
“La casa della Rue di Genova aprirà in Napoli, presso il banchiere De Gas, un credito illimitato a mia disposizione. E in una lettera a Cavour del 30 agosto: “Ho dovuto, eccellenza, somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti e quattromila al comitato: Mi toccò contrastare il Devincenzi, presente il marchese di Villamarina; egli chiedeva più di ventimila ducati; e io non volevo neanche dargliene tanti”.
Fu così che iniziò quella spedizione, altro che 1000 volontari improvvisati. E ciò che avvenne dopo ancora meglio chiarirà quanto nulla di eroico ci sia stato in Giuseppe Garibaldi.







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