Rossi nacque a Carrara, allora appartenente al Ducato di Modena, Reggio, Massa e Carrara ora alla Toscana, e fu chiamato Pellegrino in onore di San Pellegrino Laziosi. Studiò all'Università di Pisa e all'Università di Bologna, e divenne professore di legge nel 1812. Nel 1815 si unì a Gioacchino Murat e alla sua spedizione anti-austriaca per la liberazione dell'Italia: dopo la caduta di Murat, scappò in Francia e in seguito a Ginevra, dove iniziò a insegnare giurisprudenza applicata alla legge Romana: il successo nell'insegnamento gli valse la naturalizzazione come cittadino svizzero. Nel 1820 fu eletto deputato al Consiglio del Cantone e fu membro della dieta del 1832; a Rossi fu affidato il compito di tracciare le linee di una costituzione, nota come il Patto Rossi che prevedeva la modifica dei rapporti di forza tra cantoni e governo centrale. Questo Patto fu rifiutato dai cantoni e dalla maggioranza della dieta, un risultato che deluse molto Rossi e che lo indusse ad accettare l'invito di François Guizot di stabilirsi in Francia.In Francia fu nominato nel 1833 alla cattedra di economia politica al Collegio di Francia, vacante dopo la morte di Jean-Baptiste Say. Fu naturalizzato cittadino francese nel 1834 e nello stesso anno divenne professore di diritto costituzionale nella facoltà di legge dell'Università di Parigi la Sorbona. Nel 1836 fu eletto membro dell'Accademia delle Scienze Politiche e Morali e nel 1843 divenne decano della facoltà di legge.Nel 1845 fu mandato a Roma da Guizot per discutere la questione dei gesuiti, essendo stato nominato ambasciatore della Francia presso la Santa Sede. Era a Roma quando il Conclave elesse il nuovo Papa Pio IX e quando scoppiò in Francia la Rivoluzione del 1848 che detronizzò Luigi Filippo ed istituì la Repubblica Francese che indebolì il suo legame con la Francia, mentre Guizot fu costretto a fuggire in Inghilterra; pertanto Pellegrino Rossi rimase a Roma dove poteva contare sull'amicizia con il nuovo Papa, acquisendo la cittadinanza dello Stato Pontificio di cui divenne, in seguito, Primo Ministro.
Il programma di riforme liberali di Rossi, tuttavia, non decollò mai. Obiettivi del suo programma erano l'abolizione dei privilegi feudali, la soppressione delle esenzioni fiscali, la separazione tra il potere ecclesiastico e quello civile. Le sue proposte erano troppo liberali per la Curia, eccessivamente egualitarie per i conservatori, non sufficientemente democratiche per i rivoluzionari. Perciò Pellegrino Rossi si rese inviso alle forze opposte che si sarebbero fronteggiate con le armi da lì a poco.
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lunedì 31 ottobre 2011
domenica 30 ottobre 2011
L’armistizio di Villafranca.
Fu compiuto tra l’8 e l’11 luglio 1859 e pose la fine della seconda guerra per l’indipendenza italiana. Dopo alcune vittorie Napoleone III, timoroso di comlicazioni internazionali e combattuto dall’opinione pubblica francese ostile alla formazione di un grande stato italiano ai propri confini, decise il 6 luglio di proporre all’Austria un armistizio: venne firmato l’8 dal maresciallo Vaillant e dal generale Martimprey per la Francia, dal generale La Rocca per la Sardegna, dal barone Hess e dal conte Mensdorff per L’Austria. I preliminari di pace vennero conclusi l’11 attraverso i colloqui dei due imperatori e fissarono il principio della rinuncia Austriaca alla Lombardia e della creazione di una confederazione italiana con a capo il Papa; furono ratificati da Vittorio Emanuele II e portarono alle dimissioni di Cavour.
Sebastiano De Albertis
La vita di Sebastiano De Albertis, nato a Milano nel 1828, è un avventuroso intreccio di arte e guerra. Durante gli studi all'Accademia di Brera frequenta negli anni Quaranta l'atelier di Roberto Focosi e dei fratelli Induno, ma già nel marzo 1848 interrompe il proprio tirocinio artistico per combattere sulle barricate milanesi delle Cinque Giornate, partendo successivamente volontario per la prima guerra d’indipendenza. Nel 1859 si arruola tra i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi, nel reparto delle guardie a cavallo e combatte insieme ad altri artisti a Varese e a San Fermo. Nel suo grande quadro Lo sbarco a Sesto Calende, 23 maggio 1859, (oggi conservato presso i Musei Civici di Varese) Eleuterio Pagliano ritrae il commilitone Sebastiano De Albertis tra i garibaldini. Nel 1866, infine, l'artista è con Garibaldi a Bezzecca. Come pittore esordisce alle mostre braidensi degli anni Cinquanta con quadri di soggetto storico e letterario, ritratti e scene di genere; la sua vicenda ricalca così abbastanza puntualmente quella del collega e compagno d'armi Gerolamo Induno, da cui De Albertis trae più di uno spunto compositivo, pur mantenendosi indipendente nell'adozione di efficaci tagli prospettici e nella ricerca, mai venuta meno, di un tono epico e solenne che spesso esclude qualsiasi compiacimento aneddotico.
Nel 1855 il pittore espone a Brera il suo primo quadro di soggetto militare. Il filone “battaglista”, con cui De Albertis celebra il Risorgimento in un linguaggio sobrio, scevro di retorica, culmina nel celebre Garibaldi a Digione (1877), considerato il suo capolavoro, proseguendo con vari soggetti anche negli anni Ottanta e Novanta. Nel frattempo l'artista aderisce alla Società de la Confusion, libera associazione affine alla Scapigliatura. Pur accogliendo solo in parte le novità stilistiche di pittori come Cremona e Ranzoni, De Albertis partecipa con entusiasmo a questa iniziativa, che contribuisce a vivacizzare la vita artistica milanese e a rinnovare i tradizionali rapporti tra artista e committente. Il pittore avvia così la propria carriera di caricaturista e disegnatore satirico, collaborando con le riviste “Lo Spirito Folletto” e “Il Pungolo”. Ricco e variegato tra le opere su carta è anche il filone degli acquerelli, nei quali affronta i consueti soggetti militari, ma anche raffigurazioni della vita mondana e degli svaghi dell'alta borghesia milanese, quali le corse a cavalli o il “passaggio” delle carrozze sui bastioni di Porta Venezia a Milano. La partecipazione alla Promotrice di Torino del 1880, con la celebre tela raffigurante la Carica dei Carabinieri a Pastrengo, acquistata dal re Umberto I, segna la sua definitiva affermazione. Ormai perfettamente inserito nell’ambiente alto-borghese e aristocratico della Milano post-unitaria, richiesto sia come ritrattista che come pittore militare e assai ben quotato alle esposizioni, De Albertis si consacra principalmente alla glorificazione dell’epopea risorgimentale. Da questo momento, inizia a replicare più volte gli stessi soggetti, dedicandoli non solo alle battaglie memorabili, ma anche ai momenti più dolorosi, come il drammatico scontro di Bezzecca.
Nel 1884, già professore onorario dell’Accademia di Brera e Cavaliere della Corona d’Italia, De Albertis viene invitato a far parte della commissione che istituisce il Museo del Risorgimento di Milano, presso il quale è ancor oggi conservato il nucleo maggiore della sua produzione di carattere militare. Il pittore muore a Milano il 29 novembre 1897.
Nel 1855 il pittore espone a Brera il suo primo quadro di soggetto militare. Il filone “battaglista”, con cui De Albertis celebra il Risorgimento in un linguaggio sobrio, scevro di retorica, culmina nel celebre Garibaldi a Digione (1877), considerato il suo capolavoro, proseguendo con vari soggetti anche negli anni Ottanta e Novanta. Nel frattempo l'artista aderisce alla Società de la Confusion, libera associazione affine alla Scapigliatura. Pur accogliendo solo in parte le novità stilistiche di pittori come Cremona e Ranzoni, De Albertis partecipa con entusiasmo a questa iniziativa, che contribuisce a vivacizzare la vita artistica milanese e a rinnovare i tradizionali rapporti tra artista e committente. Il pittore avvia così la propria carriera di caricaturista e disegnatore satirico, collaborando con le riviste “Lo Spirito Folletto” e “Il Pungolo”. Ricco e variegato tra le opere su carta è anche il filone degli acquerelli, nei quali affronta i consueti soggetti militari, ma anche raffigurazioni della vita mondana e degli svaghi dell'alta borghesia milanese, quali le corse a cavalli o il “passaggio” delle carrozze sui bastioni di Porta Venezia a Milano. La partecipazione alla Promotrice di Torino del 1880, con la celebre tela raffigurante la Carica dei Carabinieri a Pastrengo, acquistata dal re Umberto I, segna la sua definitiva affermazione. Ormai perfettamente inserito nell’ambiente alto-borghese e aristocratico della Milano post-unitaria, richiesto sia come ritrattista che come pittore militare e assai ben quotato alle esposizioni, De Albertis si consacra principalmente alla glorificazione dell’epopea risorgimentale. Da questo momento, inizia a replicare più volte gli stessi soggetti, dedicandoli non solo alle battaglie memorabili, ma anche ai momenti più dolorosi, come il drammatico scontro di Bezzecca.
Nel 1884, già professore onorario dell’Accademia di Brera e Cavaliere della Corona d’Italia, De Albertis viene invitato a far parte della commissione che istituisce il Museo del Risorgimento di Milano, presso il quale è ancor oggi conservato il nucleo maggiore della sua produzione di carattere militare. Il pittore muore a Milano il 29 novembre 1897.
sabato 29 ottobre 2011
Agostino De Petris
Fin da adolescente discepolo di Mazzini e affiliato alla Giovine Italia, prese parte attiva ai moti mazziniani, tanto da rischiare la cattura da parte degli Austriaci in occasione di un tentativo di far pervenire armi agli insorti di Milano. Eletto deputato nel 1848, aderì al gruppo della Sinistra storica e fondò il giornale Il Diritto, ma non rivestì cariche ufficiali fino a quando fu nominato governatore di Brescia nel 1859.Nel 1860 si recò in missione in Sicilia per cercare di mediare fra le posizioni di Cavour, che spingeva per l'immediata annessione dell'isola al Regno d'Italia, e quella di Garibaldi, che invece voleva rimandare il plebiscito di ratifica fino a dopo la progettata liberazione di Napoli e Roma. Pur riuscendo a farsi nominare da Garibaldi dittatore pro-tempore della Sicilia, non riuscì tuttavia a concludere l'accordo.Dopo aver accettato il dicastero dei Lavori Pubblici nel Governo Rattazzi I del 1862, fece ancora da intermediario con Garibaldi nell'organizzazione della disastrosa spedizione dell'Aspromonte. Quattro anni più tardi, allo scoppio delle ostilità con l'Austria, entrò nel Governo Ricasoli I come Ministro della Marina.Per la sua decisione di mantenere al comando della flotta l'ammiraglio Persano, è da alcuni ritenuto uno dei responsabili della sconfitta nella Battaglia di Lissa del 1866. Altri sostengono comunque che, da civile inesperto di questioni militari, Depretis non avrebbe mai potuto introdurre profondi cambiamenti nell'organizzazione della flotta da guerra, e che quindi, nell'imminenza dello scoppio delle ostilità, fosse costretto ad accettare le scelte dei propri predecessori.Nel 1873, alla morte di Rattazzi, Depretis, ormai capo della Sinistra storica, preparò l'avvento al potere del suo partito, che avvenne nel 1876 quando fu chiamato a formare il primo governo di sinistra del nuovo Regno d'Italia. Durante questo governo fu varata la Legge Coppino (1877), che rendeva gratuita e obbligatoria la scuola elementare.Spodestato da Cairoli nel marzo 1878, il successivo mese di dicembre sconfisse Cairoli tornando ad essere Primo Ministro, ma il 14 luglio 1879 fu ancora una volta estromesso dallo stesso Cairoli.Nel novembre del 1879, tuttavia, entrò a far parte del governo Cairoli come Ministro dell'Interno e nel maggio del 1881 gli subentrò come primo ministro, mantenendo la carica fino alla morte, avvenuta il 29 luglio 1887.Durante questo lungo intervallo di tempo compì ben cinque rimpasti di governo, estromettendo dapprima gli esponenti di sinistra Zanardelli e Baccarini, allo scopo di compiacere alle richieste della Destra, e successivamente nominando Ricotti, Robilant e altri esponenti conservatori, attuando così quel rivolgimento politico che fu poi chiamato il trasformismo. Il trasformismo gli servì anche a far approvare le sue riforme. Secondo Sergio Romano, Depretis considerava le crisi come "temporali, fenomeni naturali contro i quali l’unico rimedio possibile è quello di aprire l’ombrello e aspettare che passino".Pochi mesi prima della morte si pentì di aver compiuto queste scelte, e reintegrò Crispi (che poi gli subentrò alla morte) e Zanardelli nel proprio governo. Altre sue iniziative degne di nota furono l'abolizione della tassa sul macinato, l'ampliamento del suffragio elettorale, il completamento della rete ferroviaria, l'entrata nella Triplice Alleanza e l'occupazione di Massaua in Eritrea, con cui si inaugurò la politica coloniale dell'Italia.
Per contro gli si addebita un grande incremento dell'imposizione fiscale indiretta, lo snaturamento della struttura originaria dei partiti politici emersi alla fine del periodo risorgimentale, e di aver messo in grave crisi le finanze dello stato a causa di assai discutibili scelte in materia di lavori pubblici.
Per contro gli si addebita un grande incremento dell'imposizione fiscale indiretta, lo snaturamento della struttura originaria dei partiti politici emersi alla fine del periodo risorgimentale, e di aver messo in grave crisi le finanze dello stato a causa di assai discutibili scelte in materia di lavori pubblici.
venerdì 28 ottobre 2011
Costantino Nigra
Filologo e diplomatico, percorse una carriera politica e diplomatica assai brillante
Nato a Villa Castelnuovo (Aosta) l’11 giugno 1828, si spense a Rapallo il 1° luglio 1907.
Laureatosi in giurisprudenza all'Università di Torino, entrò nel 1851 al servizio del Ministero degli Esteri. Segretario prima di d’Azeglio e poi di Cavour, fu delegato al Congresso di Parigi (1856) e al colloquio di Plombières tra Napoleone III e Cavour (1858), dove si progettò la guerra del Regno di Sardegna con l'Austria; ambasciatore a Parigi, Pietroburgo, Londra e infine Vienna.
Sebbene estraneo all'Università, fu sempre in ottimi rapporti con l'ambiente accademico italiano e francese: collaborò con le principali riviste filologiche e linguistiche tedesche, francesi e italiane, dalla «Zeitschrift für romanische Philologie» alla francese «Romania», dall' «Archivio glottologico italiano» di Ascoli agli «Studj romanzi».
Conte dal 1882, senatore dal 1890, fu nominato poi cavaliere della SS. Annunziata.
Nato a Villa Castelnuovo (Aosta) l’11 giugno 1828, si spense a Rapallo il 1° luglio 1907.
Laureatosi in giurisprudenza all'Università di Torino, entrò nel 1851 al servizio del Ministero degli Esteri. Segretario prima di d’Azeglio e poi di Cavour, fu delegato al Congresso di Parigi (1856) e al colloquio di Plombières tra Napoleone III e Cavour (1858), dove si progettò la guerra del Regno di Sardegna con l'Austria; ambasciatore a Parigi, Pietroburgo, Londra e infine Vienna.
Sebbene estraneo all'Università, fu sempre in ottimi rapporti con l'ambiente accademico italiano e francese: collaborò con le principali riviste filologiche e linguistiche tedesche, francesi e italiane, dalla «Zeitschrift für romanische Philologie» alla francese «Romania», dall' «Archivio glottologico italiano» di Ascoli agli «Studj romanzi».
Conte dal 1882, senatore dal 1890, fu nominato poi cavaliere della SS. Annunziata.
martedì 25 ottobre 2011
Gli accordi segreti di Plombières
Mentre i patrioti italiani convergevano sulla soluzione sabauda, nel luglio 1858 Cavour e Napoleone III si incontrarono più volte a Plombières, una stazione termale nei Vosgi, per accordarsi segretamente su una nuova sistemazione politica dell'Italia.
Venne deciso che la Francia sarebbe intervenuta in aiuto del Regno di Sardegna, a condizione che questo fosse stato aggredito dall'Austria.
In caso sconfitta degli Austriaci, Vittorio Emanuele II avrebbe ottenuto i territori del Lombardo-Veneto, mentre l'Italia si sarebbe trasformata in una confederazione di Stati indipendenti presieduta del papa .
In cambio del loro aiuto, i Francesi avrebbero ottenuto la cessione di Nizza e della Savoia.Grazie a queste manovre, Napoleone III sperava di ottenere il controllo della penisola italiana, confidando anche negli ottimi rapporti che intratteneva con il pontefice fin del 1848.
Dal conto suo, Cavour iniziò a tessere la sua tela con l'intento di provocare l'Austria e spingerla ad aggredire il Regno di Sardegna.
Venne deciso che la Francia sarebbe intervenuta in aiuto del Regno di Sardegna, a condizione che questo fosse stato aggredito dall'Austria.
In caso sconfitta degli Austriaci, Vittorio Emanuele II avrebbe ottenuto i territori del Lombardo-Veneto, mentre l'Italia si sarebbe trasformata in una confederazione di Stati indipendenti presieduta del papa .
In cambio del loro aiuto, i Francesi avrebbero ottenuto la cessione di Nizza e della Savoia.Grazie a queste manovre, Napoleone III sperava di ottenere il controllo della penisola italiana, confidando anche negli ottimi rapporti che intratteneva con il pontefice fin del 1848.
Dal conto suo, Cavour iniziò a tessere la sua tela con l'intento di provocare l'Austria e spingerla ad aggredire il Regno di Sardegna.
lunedì 24 ottobre 2011
L’opposizione liberale e le società segrete
Dopo il congresso di Vienna le organizzazioni conservatrici si sciolsero, mentre s’irrobustirono quelle liberali tra cui: La società dei Giovani in Germania, L’eteria in Grecia, L’unione per il pubblico bene in Russia, la società patriottica nazionale in Polonia, L’Adelfia, la Carboneria, la società dei sublimi maestri perfetti in Italia.Benché tutte queste associazioni avessero programmi differenti, esse avevano in comune l’aspirazione alla trasformazione dello stato in senso parlamentare e costituzionale, a tale obbiettivo si aggiungeva per alcuni stati la liberazione dall’oppressione dello stato straniero nei propri confini.Altre idee, più democratiche, avevano tratto ispirazione da Françoise Babeuf, e propugnavano un ideale di stampo comunista (non esiste proprietà privata, ma la proprietà è di tutti).
A causa del controllo poliziesco, le società segrete erano molto chiuse e avevano proprie norme di comportamento che ne assicuravano l’assoluta segretezza.
Solo i gradi gerarchici più alti sapevano della composizione dell’intera organizzazione e a seconda del grado conoscevano una certa quantità di componenti.
A causa del controllo poliziesco, le società segrete erano molto chiuse e avevano proprie norme di comportamento che ne assicuravano l’assoluta segretezza.
Solo i gradi gerarchici più alti sapevano della composizione dell’intera organizzazione e a seconda del grado conoscevano una certa quantità di componenti.
Francia: tra assolutismo e liberismo
A differenza di quanto accadde negli altri paesi europei, la restaurazione dei Borbone in Francia, non avvenne attraverso forze armate, ma lo stesso senato napoleonico chiese a Luigi XVIII di divenire il sovrano del popolo di Parigi, dopo aver giurato sulla costituzione di osservarla e farla osservare.
Ma il sovrano francese, non voleva esser semplicemente sovrano del popolo di Parigi perché chiamato da esso, questo punto, infatti, verrà ribadito con forza da egli stesso nella carta che entrò in vigore perché concessa dal sovrano.Nella carta egli scrisse che diventava re grazie alla provvidenza, e che la stessa carta doveva essere intesa come un rinnovamento a “antiche e venerande istituzioni”.
Ma, contrariamente a ciò che il sovrano scrisse, la camera elettiva che doveva rappresentare il terzo stato, appariva un compromesso tra l’èlite economica francese e la stessa monarchia.
Infatti il suffragio era solo di 100.000, e solo i primi 50 contribuenti potevano aspirare ad essere eletti alla camera. Luigi XVIII non riuscì ad entusiasmare gli animi né dei nostalgici del periodo napoleonico, né dei liberisti, né dei monarchici.Con il timore di un avvento di Napoleone, le elezioni del 1815 dettero la vittoria agli Ultras che erano detti “più realisti del re”.Ma la camera così formatasi fu da lì a poco sciolta a causa del clima vendicativo ed estremamente sanguinoso. Luigi XVIII non ebbe figli, così il suo successore doveva essere Carlo, suo fratello, e dopo egli, suo nipote Carlo di Berry.Carlo di Berry, nel febbraio 1820 fu assassinato da un estremista, al suo assassinio ascese al trono il padre: Carlo XCarlo X votò al parlamento la pena di morte contro i sacrilegi nelle chiese, fece una serie di leggi in favore dei nobili emigrati, e diede privilegi, duramente tolti durante il periodo rivoluzionario, al clero.
Ma il sovrano francese, non voleva esser semplicemente sovrano del popolo di Parigi perché chiamato da esso, questo punto, infatti, verrà ribadito con forza da egli stesso nella carta che entrò in vigore perché concessa dal sovrano.Nella carta egli scrisse che diventava re grazie alla provvidenza, e che la stessa carta doveva essere intesa come un rinnovamento a “antiche e venerande istituzioni”.
Ma, contrariamente a ciò che il sovrano scrisse, la camera elettiva che doveva rappresentare il terzo stato, appariva un compromesso tra l’èlite economica francese e la stessa monarchia.
Infatti il suffragio era solo di 100.000, e solo i primi 50 contribuenti potevano aspirare ad essere eletti alla camera. Luigi XVIII non riuscì ad entusiasmare gli animi né dei nostalgici del periodo napoleonico, né dei liberisti, né dei monarchici.Con il timore di un avvento di Napoleone, le elezioni del 1815 dettero la vittoria agli Ultras che erano detti “più realisti del re”.Ma la camera così formatasi fu da lì a poco sciolta a causa del clima vendicativo ed estremamente sanguinoso. Luigi XVIII non ebbe figli, così il suo successore doveva essere Carlo, suo fratello, e dopo egli, suo nipote Carlo di Berry.Carlo di Berry, nel febbraio 1820 fu assassinato da un estremista, al suo assassinio ascese al trono il padre: Carlo XCarlo X votò al parlamento la pena di morte contro i sacrilegi nelle chiese, fece una serie di leggi in favore dei nobili emigrati, e diede privilegi, duramente tolti durante il periodo rivoluzionario, al clero.
domenica 23 ottobre 2011
La Germania e la Prussia
La soluzione confederale dettata da Metternich alla Germania aveva lo scopo di celare il potenziale conflitto tra l’Austria e la Prussia.
Il re prussiano Federico Guglielmo III decise di abbandonare il riformismo per applicare, al contrario, i decreti liberticidi di Karlsbad che limitavano fortemente la libertà di stampa e d’insegnamento.
Negli anni successivi, la Prussia riuscì ad evitare sommosse grazie alla polizia, l’unica si ebbe nel 1832 ad Hambach, in Vestfalia, che fu repressa.
La Prussia, a differenza dell’Austria, in questo periodo conobbe un certo dinamismo economico. L’economista Friederich List, si fece assertore di un’unione doganale nella federazione, che favorisse gli scambi e impedisse, attraverso tariffe doganali molto alte, gli scambi con altri stati europei (specialmente l’Inghilterra).
Il re prussiano Federico Guglielmo III decise di abbandonare il riformismo per applicare, al contrario, i decreti liberticidi di Karlsbad che limitavano fortemente la libertà di stampa e d’insegnamento.
Negli anni successivi, la Prussia riuscì ad evitare sommosse grazie alla polizia, l’unica si ebbe nel 1832 ad Hambach, in Vestfalia, che fu repressa.
La Prussia, a differenza dell’Austria, in questo periodo conobbe un certo dinamismo economico. L’economista Friederich List, si fece assertore di un’unione doganale nella federazione, che favorisse gli scambi e impedisse, attraverso tariffe doganali molto alte, gli scambi con altri stati europei (specialmente l’Inghilterra).
Giuseppe Montanelli
Giuseppe Montanelli nasce a Fucecchio, in provincia di Firenze, il giorno 1 gennaio del 1813. Studente in legge all'università di Pisa collabora alla rivista "Antologia", di Giovan Pietro Viesseux. Nel 1840 ottiene la cattedra di diritto patrio e commerciale nello stesso ateneo. Animato da spirito patriottico, aderisce alle tesi di Gioberti dando vita a pubblicazioni clandestine e sostenendo, sul giornale "L'Italia", da lui fondato nel 1847 grazie all'introduzione della libertà di stampa, una nuova politica di riforme nel granducato di Toscana.
Nel 1848 prende parte alla battaglia di Curtatone, nella prima guerra d'indipendenza, come comandante dei volontari pisani, restando ferito a Montanara e catturato dagli austriaci. L'assenza di sue notizie induce tutti a crederlo morto, ma poco ritorna in Toscana dove viene eletto parlamentare, ruolo che utilizza per promuovere una Costituente deputata a delineare l'organizzazione istituzionale dell'agognata Italia unita, federale e libera. Nominato prima Governatore di Livorno, poi Ministro, sempre nel 1848 entra a far parte del triumvirato della Costituente Toscana, insieme a Guerrazzi e Mazzoni.
Propugnatore della nascita di una repubblica toscana, che successivamente dovrebbe fondersi con quella romana nel faticoso percorso dell'unificazione nazionale, Montanelli entra in contrasto con Guerrazzi al punto da decidere di farsi da parte, scegliendo di partire alla volta della Francia in mandato diplomatico. Nel frattempo, però, il granduca riprende il potere in Toscana ed egli, impossibilitato a rientrarvi, rimane in Francia per circa dieci anni dove cerca di ingraziarsene la nobiltà nell'auspicio che Napoleone III, del quale diviene sostenitore, possa contribuire alla causa unitaria in Italia. Nel 1859 rientra in patria per partecipare alla seconda guerra d'indipendenza nei Cacciatori degli Appennini di Garibaldi e, ad Alessandria, incontra personalmente il sovrano francese al quale espone i grandi propositi di unificazione per i quali Giuseppe Montanelli combatte. La piega che vanno assumendo gli eventi, però, matura sempre più in lui la certezza che il sogno di un'Italia repubblicana e federalista non si potrà realizzare, ragione che lo spinge a ridimensionare le proprie aspettative alla sola Toscana, dove si impegna per l'ottenimento di una repubblica autonoma. Eletto deputato nel parlamento nazionale, a Torino, nel 1862, morirà di lì a poco, il 17 giugno 1862, a Fucecchio.
Giuseppe Montanelli è il nonno paterno di Indro Montanelli, che ne ha saputo brillantemente seguire le orme come giornalista e scrittore. Le principali opere letterarie di Giuseppe Montanelli, tutte incentrate sui temi per i quali ha sempre combattuto, sono state scritte nel corso della permanenza in Francia: "Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850", pubblicata nel 1853; "Il Partito nazionale italiano", del 1856; "L'Impero, il papato e la democrazia in Italia", del 1859. Nel 1862 pubblica "Dell'ordinamento nazionale in Italia", seguita dal poema "La tentazione" e dalla tragedia "Camma".
Nel 1848 prende parte alla battaglia di Curtatone, nella prima guerra d'indipendenza, come comandante dei volontari pisani, restando ferito a Montanara e catturato dagli austriaci. L'assenza di sue notizie induce tutti a crederlo morto, ma poco ritorna in Toscana dove viene eletto parlamentare, ruolo che utilizza per promuovere una Costituente deputata a delineare l'organizzazione istituzionale dell'agognata Italia unita, federale e libera. Nominato prima Governatore di Livorno, poi Ministro, sempre nel 1848 entra a far parte del triumvirato della Costituente Toscana, insieme a Guerrazzi e Mazzoni.
Propugnatore della nascita di una repubblica toscana, che successivamente dovrebbe fondersi con quella romana nel faticoso percorso dell'unificazione nazionale, Montanelli entra in contrasto con Guerrazzi al punto da decidere di farsi da parte, scegliendo di partire alla volta della Francia in mandato diplomatico. Nel frattempo, però, il granduca riprende il potere in Toscana ed egli, impossibilitato a rientrarvi, rimane in Francia per circa dieci anni dove cerca di ingraziarsene la nobiltà nell'auspicio che Napoleone III, del quale diviene sostenitore, possa contribuire alla causa unitaria in Italia. Nel 1859 rientra in patria per partecipare alla seconda guerra d'indipendenza nei Cacciatori degli Appennini di Garibaldi e, ad Alessandria, incontra personalmente il sovrano francese al quale espone i grandi propositi di unificazione per i quali Giuseppe Montanelli combatte. La piega che vanno assumendo gli eventi, però, matura sempre più in lui la certezza che il sogno di un'Italia repubblicana e federalista non si potrà realizzare, ragione che lo spinge a ridimensionare le proprie aspettative alla sola Toscana, dove si impegna per l'ottenimento di una repubblica autonoma. Eletto deputato nel parlamento nazionale, a Torino, nel 1862, morirà di lì a poco, il 17 giugno 1862, a Fucecchio.
Giuseppe Montanelli è il nonno paterno di Indro Montanelli, che ne ha saputo brillantemente seguire le orme come giornalista e scrittore. Le principali opere letterarie di Giuseppe Montanelli, tutte incentrate sui temi per i quali ha sempre combattuto, sono state scritte nel corso della permanenza in Francia: "Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850", pubblicata nel 1853; "Il Partito nazionale italiano", del 1856; "L'Impero, il papato e la democrazia in Italia", del 1859. Nel 1862 pubblica "Dell'ordinamento nazionale in Italia", seguita dal poema "La tentazione" e dalla tragedia "Camma".
sabato 22 ottobre 2011
Francesco IV d'Asburgo-Este
Francesco Giuseppe Carlo Ambrogio Stanislao d'Asburgo-Este (Milano, 6 ottobre 1779 – Modena, 21 gennaio 1846) fu, col nome di Francesco IV, duca di Modena, Reggio e Mirandola (dal 1815), duca di Massa e principe di Carrara (dal 1829), arciduca Asburgo-Este, principe reale di Ungheria e Boemia, Cavaliere dell'Ordine del Toson d'Oro.Pur reprimendo ogni manifestazione liberale, fu indotto dalla speranza di allargare il proprio dominio a mostrare interesse per i piani cospirativi del 1831 dei patrioti modenesi E. Misley e C. Menotti, che però non esitò a tradire non appena la situazione si fece insostenibile. Costretto alla fuga dalla rivoluzione del 1831 e restaurato sul trono dagli Austriaci, condannò a morte Menotti e accentuò il carattere reazionario del suo governo. |
Giuditta Tavani Arquati
La patriota romana fu uccisa col figlio dai soldati pontifici. La sfortunata rivolta del 1867.
Bella («alta, aitante nella persona, sguardo scintillante»), romana di buona famiglia, seguace di Garibaldi. Gli spioni papali nei loro rapporti la definivano«sciagurata donna», «invasata dallo spirito d’abisso», «ossessa rivoluzionaria». E’ morta combattendo, pistola in pugno. Giuditta Tavani Arquati, uccisa a colpi di baionetta dagli zuavi pontifici venerdì 25 ottobre 1867, mentre tenta l’ultima disperata resistenza dopo la fallita sortita dei fratelli Cairoli. Uccisa insieme al figlio undicenne Antonio: asserragliata in quel “covo” di ribelli che è il lanificio Ajani in via della Lungaretta 97, a Trastevere, aveva cercato, insieme al marito e altri pochi combattenti, di coprire la fuga dei patrioti che si erano rifugiati in quel luogo, purtroppo ormai accerchiato dalle truppe papaline. Traditi da una delazione, sorpresi senza scampo, Giuditta e gli altri resistono fino all’ultimo, ed «è lotta corpo a corpo,», finché scatta la carneficina. «A colpi di revolver e di fucile, e poi di baionetta, uno dopo l’altro i ribelli furono uccisi e scannati dagli zuavi». Anche Giuditta e il suo bambino.
Sembra un instant book, tanto è vivido e “ravvicinato” nella sequenza degli avvenimenti, quasi seguiti ora per ora centoquarantadue anni dopo, questo nuovo libro di Claudio Fracassi – “La Ribelle e il Papa Re. Roma 1867: una storia vera”, Mursia, pag. 289, euro 18 – che ripercorre la vicenda cruenta e sfortunata di quel triennio, 1867-1870, che vide la tragedia dei fratelli Cairoli a Villa Glori, la vittoria delle truppe di Napoleone III calate in soccorso di Pio IX, la sconfitta di Garibaldi a Mentana. Prima che i famosi bersaglieri varcassero la Breccia di Porta Pia. Un libro di storia, rigorosamente documentato, ma anche e soprattutto una cronaca minuziosa e appassionata, come ripresa dal vivo. Un libro ma anche un film, volendo. O un romanzo.
I fatti, nudi e crudi, così come si sono svolti; e le persone, gli atti, le parole, i luoghi, le osterie e le strade, le botteghe e gli opifici, i palazzi, le carceri, i distretti di prefetti e sottoprefetti; e anche i proclami, le canzoni, le poesie, le invettive, i motti popolari, le sciabole, i cardinali, il patibolo, il boia nella sua veste rossa. E la Roma di Papa Re, che l’allora ministro inglese George Clarendon definiva «una città desolata…non vi è luogo più arretrato, più indietro nelle scoperte scientifiche, più negato per tutto ciò che attiene all’attività moderna». Sei volte meno popolata di Parigi, sette volte meno di Londra. Il libro è traboccante di tutto questo, una rivisitazione emozionante.Roma, tre anni prima della breccia di Porta Pia. «Il nucleo di ribelli di Trastevere raccolto attorno al lanificio Ajani e a Giuditta Tavani Arquati era formato, nel 1867, da figure non eminenti in città, ma attive negli ambienti popolari: Pietro Luzzi, 24 anni, era calzolaio; Romano Mariotti, 19 anni, garzone calzolaio; i due fratelli Martinoli e i Sabbatucci padre e figlio erano cappellai; Giacomo Marcucci ebanista: Oreste Tacchini sarto. Luigi Albanesi maiolicaro e così via». La ricerca di Claudio Fracassi offre anche un vivido quadro sociale di quella intristita Roma di Papa Re. «Gli interlocutori politici di Giuditta e dei patrioti del lanificio Ajani erano, prevalentemente, lavoratori e piccoli artigiani». Città di non più di 200 mila abitanti, Roma manca di quel «forte nucleo di presenza borghese, quella che in altre parti d’Italia e d’Europa aveva combattuto per il rinnovamento produttivo e civile». E’ perciò, come sempre, potente l’aristocrazia, mentre cresce l’influenza dei nuovi mercanti di campagna. Il potere politico è tutto, come sempre, nelle mani del clero, (e infatti Gioacchino Belli traduceva l’acronimo SPQR in «Solo Preti Qui Regneranno»); mentre la polizia prosegue ad arrestare coloro che per i prefetti sono «esteri sospetti e romani già pregiudicati in linea politica», quell’«importata accozzaglia di individui».
Quanto a Trastevere, il quartiere, scrive Fracassi, «aveva pessima fama tra gli aristocratici e negli ambienti borghesi. Era considerato un covo di “accoltellatori”. La stessa composizione sociale ne faceva un luogo di agitazione e di ribellione. Lì erano nate le prime “Vendite carbonare” della città. Lì si era radicata la base popolare attorno a Garibaldi, Mazzini, Mameli nella breve stagione repubblicana del 1849». Ragion per cui, «lì era molto imprudente per i soldati francesi frequentare le osterie e percorrere di notte i vicoli».
Nel cuore del “malfamato” quartiere, il lanificio di Giulio Ajani, anche lui cospiratore, era diventato «uno dei principali punti di ritrovo, insieme con le osterie trasteverine, tenuti d’occhio dalla polizia come luoghi di sovversione».Non per caso. «I lavoratori lanari, per parte loro, avevano una ricca tradizione di organizzazione e di proteste. L’industria tessile, e in particolare quella dei drappi di lana, era la più sviluppata a Roma. Essa impiegava nei primi decenni del secolo oltre diecimila persone, uomini e donne». Ma dalla prima metà dell’Ottocento era subentrata una crisi devastante, dovuta all’introduzione dei primi macchinari, alla concorrenza estera, alla mancata modernizzazione. I lavoratori lanari, disoccupati e ridotti in miseria, «cominciarono a organizzarsi, arrivando persino – cosa insolita in quel tempo e in quei luoghi – a iniziative di sciopero».Attorno a Giuditta e ai suoi, secondo i rapporti polizieschi, si raccoglievano dunque «figli degeneri, vile plebaglia». Tra loro anche Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Nel piano d’insurrezione preparato dal gruppo del lanificio in attesa di Garibaldi (che nel frattempo è fuggito da Caprera), Monti e Tognetti vengono incaricati, nell’ottobre di quel 1867, di far saltare con una carica d’esplosivo la caserma “Serristori” degli zuavi pontefici, nel rione Borgo a Roma, a cento metri da San Pietro. L’attentato avviene il 22 dello stesso mese e provoca la morte di 23 soldati papalini e cinque civili. Monti, immigrato a Roma da Fermo, aveva trentatré anni, lasciava la moglie e un figlio di ventitré mesi. Tognetti, romano, era poco più che un ragazzo e non era sposato; manteneva i genitori e quattro fratelli più piccoli. Traditi da una delazione, arrestati e condannati a morte, dopo tredici mesi di carcere sono portati al patibolo.
E’ una pagina particolarmente toccante del libro di Fracassi. Secondo le carte processuali, «il giudice inquirente sottolineò che i due condannati a morte erano poverissimi… che Monti e Tognetti vivevano delle loro braccia meschinamente… donde il movente in essi ad abbracciare il partito del disordine»; vale a dire «la famigerata consorteria cui riuscì di insediarsi al potere nello Stato sabaudo», in combutta con le «orde garibaldesche», portatrici di quei «principi sovversivi che si erano sventuratamente diffusi anco nelle infime classi dei popoli». E’ il 24 novembre 1868. E’ ormai l’alba, quando i due condannati, in un cocchio chiuso, vengono portati sul luogo, poco oltre il Teatro di Marcello, dove è stata sistemata la ghigliottina. «Ormai da un decennio le esecuzioni si facevano lì, in piazza dei Cerchi». In quel 1868, per uccidere Monti e Tognetti fu mobilitato un allievo e collaboratore di Mastro Titta, il boia di Roma, che si era da poco ritirato in pensione (trenta scudi mensili) dopo avere effettuato 516 esecuzioni. «Tutt’intorno c’era un solido quadrato di truppe zuave; il popolo era stato tenuto lontano. Il carnefice, come d’uso, indossava una sontuosa veste scarlatta. Giuseppe Monti chiese di salire scalzo sul palco della ghigliottina. Alle sette cadde la sua testa; due minuti dopo rotolò sul palco la testa di Gaetano Tognetti. Il boia le afferrò ambedue per i capelli e le alzò per mostrarle agli zuavi, che fecero rullare a lungo i loro tamburi». Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, due semplici muratori. Gli ultimi due ghigliottinati dal Papa Re.
Sembra un instant book, tanto è vivido e “ravvicinato” nella sequenza degli avvenimenti, quasi seguiti ora per ora centoquarantadue anni dopo, questo nuovo libro di Claudio Fracassi – “La Ribelle e il Papa Re. Roma 1867: una storia vera”, Mursia, pag. 289, euro 18 – che ripercorre la vicenda cruenta e sfortunata di quel triennio, 1867-1870, che vide la tragedia dei fratelli Cairoli a Villa Glori, la vittoria delle truppe di Napoleone III calate in soccorso di Pio IX, la sconfitta di Garibaldi a Mentana. Prima che i famosi bersaglieri varcassero la Breccia di Porta Pia. Un libro di storia, rigorosamente documentato, ma anche e soprattutto una cronaca minuziosa e appassionata, come ripresa dal vivo. Un libro ma anche un film, volendo. O un romanzo.
I fatti, nudi e crudi, così come si sono svolti; e le persone, gli atti, le parole, i luoghi, le osterie e le strade, le botteghe e gli opifici, i palazzi, le carceri, i distretti di prefetti e sottoprefetti; e anche i proclami, le canzoni, le poesie, le invettive, i motti popolari, le sciabole, i cardinali, il patibolo, il boia nella sua veste rossa. E la Roma di Papa Re, che l’allora ministro inglese George Clarendon definiva «una città desolata…non vi è luogo più arretrato, più indietro nelle scoperte scientifiche, più negato per tutto ciò che attiene all’attività moderna». Sei volte meno popolata di Parigi, sette volte meno di Londra. Il libro è traboccante di tutto questo, una rivisitazione emozionante.Roma, tre anni prima della breccia di Porta Pia. «Il nucleo di ribelli di Trastevere raccolto attorno al lanificio Ajani e a Giuditta Tavani Arquati era formato, nel 1867, da figure non eminenti in città, ma attive negli ambienti popolari: Pietro Luzzi, 24 anni, era calzolaio; Romano Mariotti, 19 anni, garzone calzolaio; i due fratelli Martinoli e i Sabbatucci padre e figlio erano cappellai; Giacomo Marcucci ebanista: Oreste Tacchini sarto. Luigi Albanesi maiolicaro e così via». La ricerca di Claudio Fracassi offre anche un vivido quadro sociale di quella intristita Roma di Papa Re. «Gli interlocutori politici di Giuditta e dei patrioti del lanificio Ajani erano, prevalentemente, lavoratori e piccoli artigiani». Città di non più di 200 mila abitanti, Roma manca di quel «forte nucleo di presenza borghese, quella che in altre parti d’Italia e d’Europa aveva combattuto per il rinnovamento produttivo e civile». E’ perciò, come sempre, potente l’aristocrazia, mentre cresce l’influenza dei nuovi mercanti di campagna. Il potere politico è tutto, come sempre, nelle mani del clero, (e infatti Gioacchino Belli traduceva l’acronimo SPQR in «Solo Preti Qui Regneranno»); mentre la polizia prosegue ad arrestare coloro che per i prefetti sono «esteri sospetti e romani già pregiudicati in linea politica», quell’«importata accozzaglia di individui».
Quanto a Trastevere, il quartiere, scrive Fracassi, «aveva pessima fama tra gli aristocratici e negli ambienti borghesi. Era considerato un covo di “accoltellatori”. La stessa composizione sociale ne faceva un luogo di agitazione e di ribellione. Lì erano nate le prime “Vendite carbonare” della città. Lì si era radicata la base popolare attorno a Garibaldi, Mazzini, Mameli nella breve stagione repubblicana del 1849». Ragion per cui, «lì era molto imprudente per i soldati francesi frequentare le osterie e percorrere di notte i vicoli».
Nel cuore del “malfamato” quartiere, il lanificio di Giulio Ajani, anche lui cospiratore, era diventato «uno dei principali punti di ritrovo, insieme con le osterie trasteverine, tenuti d’occhio dalla polizia come luoghi di sovversione».Non per caso. «I lavoratori lanari, per parte loro, avevano una ricca tradizione di organizzazione e di proteste. L’industria tessile, e in particolare quella dei drappi di lana, era la più sviluppata a Roma. Essa impiegava nei primi decenni del secolo oltre diecimila persone, uomini e donne». Ma dalla prima metà dell’Ottocento era subentrata una crisi devastante, dovuta all’introduzione dei primi macchinari, alla concorrenza estera, alla mancata modernizzazione. I lavoratori lanari, disoccupati e ridotti in miseria, «cominciarono a organizzarsi, arrivando persino – cosa insolita in quel tempo e in quei luoghi – a iniziative di sciopero».Attorno a Giuditta e ai suoi, secondo i rapporti polizieschi, si raccoglievano dunque «figli degeneri, vile plebaglia». Tra loro anche Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Nel piano d’insurrezione preparato dal gruppo del lanificio in attesa di Garibaldi (che nel frattempo è fuggito da Caprera), Monti e Tognetti vengono incaricati, nell’ottobre di quel 1867, di far saltare con una carica d’esplosivo la caserma “Serristori” degli zuavi pontefici, nel rione Borgo a Roma, a cento metri da San Pietro. L’attentato avviene il 22 dello stesso mese e provoca la morte di 23 soldati papalini e cinque civili. Monti, immigrato a Roma da Fermo, aveva trentatré anni, lasciava la moglie e un figlio di ventitré mesi. Tognetti, romano, era poco più che un ragazzo e non era sposato; manteneva i genitori e quattro fratelli più piccoli. Traditi da una delazione, arrestati e condannati a morte, dopo tredici mesi di carcere sono portati al patibolo.
E’ una pagina particolarmente toccante del libro di Fracassi. Secondo le carte processuali, «il giudice inquirente sottolineò che i due condannati a morte erano poverissimi… che Monti e Tognetti vivevano delle loro braccia meschinamente… donde il movente in essi ad abbracciare il partito del disordine»; vale a dire «la famigerata consorteria cui riuscì di insediarsi al potere nello Stato sabaudo», in combutta con le «orde garibaldesche», portatrici di quei «principi sovversivi che si erano sventuratamente diffusi anco nelle infime classi dei popoli». E’ il 24 novembre 1868. E’ ormai l’alba, quando i due condannati, in un cocchio chiuso, vengono portati sul luogo, poco oltre il Teatro di Marcello, dove è stata sistemata la ghigliottina. «Ormai da un decennio le esecuzioni si facevano lì, in piazza dei Cerchi». In quel 1868, per uccidere Monti e Tognetti fu mobilitato un allievo e collaboratore di Mastro Titta, il boia di Roma, che si era da poco ritirato in pensione (trenta scudi mensili) dopo avere effettuato 516 esecuzioni. «Tutt’intorno c’era un solido quadrato di truppe zuave; il popolo era stato tenuto lontano. Il carnefice, come d’uso, indossava una sontuosa veste scarlatta. Giuseppe Monti chiese di salire scalzo sul palco della ghigliottina. Alle sette cadde la sua testa; due minuti dopo rotolò sul palco la testa di Gaetano Tognetti. Il boia le afferrò ambedue per i capelli e le alzò per mostrarle agli zuavi, che fecero rullare a lungo i loro tamburi». Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, due semplici muratori. Gli ultimi due ghigliottinati dal Papa Re.
venerdì 21 ottobre 2011
LAURETTA CIPRIANI
Nata a Trinidad nel 1795, Lauretta Cipriani ha avuto una vita lunga ed avventurosa che viene ricostruita in modo dettagliato nel volume di Caterina Del Vivo intitolato La moglie creola di Giuseppe Montanelli. Storia di Lauretta Cipriani Parra. Dopo il matrimonio combinato con un nobile pisano, molto più grande di lei, da cui avrà quattro figli (due maschi e due femmine, di cui uno morirà nel 1848 nella battaglia di Curtatone), si innamora di un patriota greco e progetta di seguirlo nella sua patria, per combattere insieme a lui, in nome di un comune ideale di libertà. La rinuncia, nel 1821, ad imbarcarsi per la Grecia con il suo amante, rinuncia probabilmente dovuta al desiderio di non lasciare i figli, ancora piccoli, la porta ad un riavvicinamento, almeno dal punto di vista formale e delle convenzioni sociali, con il marito, che, tuttavia, muore l’anno dopo. A questo morte segue un lungo contenzioso tra la Parra e i parenti del marito per l’affidamento dei figli e per le scelte relative alla loro educazione.Nel 1831 Lauretta Parra va in esilio a Parigi, dove vive probabilmente una breve storia d’amore con il patriota napoletano Alessandro Poerio. Rientrata in Italia nel 1837, diventa a Pisa l’animatrice di un frequentato salotto. In questo contesto si innamora del patriota Giuseppe Montanelli, amico del figlio e più giovane di lei, di diciotto anni, che sposerà nel 1848 e con cui l’anno successivo andrà in esilio, per poi rientrare in Italia nel periodo dell’annessione della Toscana al regno d’Italia. Lauretta Parra morirà nel 1869 a Fucecchio, nella casa che aveva ereditato da Montanelli, morto sette anni prima di lei. Ammirata per il suo coraggio e la sua cultura, ma anche criticata per i suoi comportamenti e per aver “influenzato” le idee e gli orientamenti politici del secondo marito, la Parra si dimostra una figura interessante, una figura che l’autrice della sua biografia ha giustamente definito byroniana per la ricerca nel corso della sua esistenza di una libertà, non solo politica, ma anche personale
giovedì 20 ottobre 2011
Vincenzo Carbonelli
Vincenzo Carbonelli (Secondigliano, 20 aprile 1822 – Roma, 16 ottobre 1901) è stato un patriota e politico italiano.
Ancora giovane si distinse nel 1848 sulle barricate di Napoli, insorta contro i Borbone. Nel 1849 fu alla difesa della Repubblica Romana. Nel 1860 prese parte alla spedizione dei Mille inquadrato nella terza compagnia “dei savi” comandata dal barone Francesco Stocco e a fine agosto fu incaricato da Garibaldi di sollevare il Cilento.
Con lo scoppio della terza guerra di indipendenza del 1866 fu nominato dalla Commissione militare colonnello comandante l’8º reggimento del Corpo Volontari Italiani solo dopo l’insistenza di Filippo Mellana e di Agostino Depretis. In quella campagna si distinse il 21 luglio nel contrasto degli austriaci a Condino ed a guerra finita fu insignito della croce di ufficiale dell’Ordine militare di Savoia “per aver bene amministrato il proprio reggimento e ben condotto in faccia al nemico”.
Nel 1867 seguì nuovamente Garibaldi nella spedizione nell’Agro Romano volta a liberare Roma, comandò la piazza di Monterotondo, e partecipò alla battaglia di Mentana coi francesi. Fu deputato al parlamento regio dal 1865 al 1880, dove sostenne la Sinistra. Gli è stata dedicata una piazza a Taranto.
mercoledì 19 ottobre 2011
Ferdinando I di Borbone
Ferdinando I di Borbone (1751 - 1825), re di Napoli dal 1759 al 1799, dal 1799 al 1806 e dal 1815 al 1816 con il nome di Ferdinando IV di Napoli, nonché re di Sicilia dal 1759 al 1816 con il nome di Ferdinando III di Sicilia. Dopo questa data, e con l'unificazione delle due monarchie nel Regno delle Due Sicilie, fu sovrano di tale regno dal 1816 al 1825 con il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie.
martedì 18 ottobre 2011
Don Luigi Gusmaroli
Sacerdote di Mantova, volontario nel 1848 nella Legione Bersaglieri Mantovani Carlo Alberto, poi nel 1849 alla difesa della Repubblica Romana nella Legione Manara, fu il più anziano tra i mantovani che preso parte alla spedizione dei Mille. Qurantanovenne, si unì alle camice rosse che partirono da Quarto il 5 maggio 1860 entrando a far parte del quartier generale di Garibaldi dal quale ricevette incarichi di fiducia politici e militari. Successivamente trascorse lunghi periodi a Caprera in casa dell'Eroe dei due Mondi.
LA SEPOLTURA A LA MADDALENA
Prima dell'occupazione militare piemontese (1767), gli abitanti di La Maddalena seppellivano i loro morti a San Michele del Liscia presso Palau; alcine sepolture venivano fatte anche a Cala Chiesa, o nell'isola di Santo Stefano. Dal 1770 si cominciò a seppellire presso la chiesa di Santa Maria Maddalena (dal 1793 dedicata alla SS. Trinità). I registri parrocchiali annotano il nome della prima defunta, certa Avigia Maria, di Pasquale deceduta l'8 ottobre 1770, sepolta "In ecclesia S.M. Magdalena, in dicta isula existente".Aumenta la popolazione (185 abitanti nel 1767; 867 nel 1794), fu indispensabile individuare una vera e propria area cimiteriale. Venne collocata su una collina dolce e poco granitica, posta al di sopra della costa di Cala Gavetta e di Cala Mangiavolpe. La scelta non fu molto felice. Era infatti a poche centinaia di metri dalle abitazioni e appena a monte di alcuni ruscelli e sorgenti. Ampliato attorno alla metà del secolo scorso nel lato di tramontana, raggiungeva una superfice complessiva di circa 2.200 metri quadrati. L'ingresso era a sud, verso l'attuale via Roma. Il grande cancello in ferro era sormontato. Nel lato opposto era sistemata una croce in granito. La cappella, di proporzioni modeste, fu fatta costruire da governatore Agostino Millelire che vi venne sepolto. Le sepolture avvenivano in gran parte sotto terra. Cira cinquanta tombe erano addossate lungo i muri perimetrali. Nel vecchio cimitero trovavano riposo non solo gli originari abitanti corsi, ma anche i militari che nell'isola morirono per malattia o in seguito a scontri armati, i pescatori campani e via via gente proveniente da ogni parte della penisola e anche stranieri. Allora, come del resto ora, i cognomi posti su tombe, lapidi, croci, evidenziavano le provenienze più disparate.Il primo seppellimento fu quello del piccolo Antonio Biaggi, di 11 mesi, figlio di Petro e Gavina Gallone, morto il 15 agosto 1797. Tra i nomi illustri ricordiamo le medaglie d'oro Domenico Millelire, Tommaso e Cesare Zonza; Nicolao Susini che combattè con Garibaldi nella difesa di Roma; Domenico Polverini detto Parnaso, decorato nelle guerre di indipendenza con tre medaglie d'argento. Vi erano sepolti anche il Maggior Leggiero e Luigi Gusmaroli, ex prete, la cui epigrafe fu dettata dallo stesso Garibaldi. Nel piccolo cimitero trovarono riposo anche vari sindaci: da Antonio Ornano sindaco nel 1799 ai tempi della costruzione della chiesa(probabilmente il primo sindaco), a Filippo Martinetti, primo cittadino all'epoca della visita di Re Carlo Alberto nel 1843 a Nicolò Susini che accolse Garibaldi esule, a Cala Gavetta. Vi furono seppelliti anche il parroco Mamia, il capitano inglese Daniel Roberts morto nel 1869, i coniugi Collins ed il notaio cagliaritano Vincenzo Sulis, capo popolo dei moti anti piemontesi, incarcerato a Guardia Vecchia.Con l'istituzione della piazzaforte militare ed il coseguente aumento della popolazione, si rese necessario nel 1894, la costruzione di un nuovo cimitero, più grande e più lontano dall'abitato. Col passare degli anni il vecchio cimitero venne progressivamente abbandonato e scarsamente curato. Periodicamente tuttavia vi si svolgevano delle cerimonie. In occasione del 2 giugno con l'arrivo, allora massiccio, dei Garibaldini e durante il periodo fascista. Il regime esaltò non solo Garibaldi ma anche Domenico Millelire, eroe nazionale antifrancese.L'attuale sensibilità storica e le leggi non lo consentirebbero più.Allora invece, da poco e tragicamente conclusasi la seconda guerra mondiale, più che a conservare il passato, si era protesi a costruire il futuro, il migliore possibile. Fu così che nel 1947 il consiglio comunale maddalenino deliberò la demolizione del vecchio cimitero: una struttura nè artistica, nè monumentale, di vago stile militare, decisamente modesta.
Vennero cancellate le poche memorie della comunità isolana, i pochi segni delle proprie radici e della propria identità storica. Alcune salme vennero poste nelle tombe di famiglia del nuovo cimitero, tutte le altre nell'ossario. Migliaia di isolani sprofondarono nell'oblio. La particolare tecnica di seppellimento non sempre consentì il riconoscimento dei resti mortali.
Nelle tombe infatti, le casse di legno venivano adagiate su piccole travi di granito, sollevate di circa un metro rispetto ad un corridoio comune. Con gli anni le bare marcivano e le ossa cadevano, attraverso le feritoie, sul piano sottostante, andandosi spesso a mischiare. Fu per questo motivo che all'atto della riesumazione, non fu possibile individuare i resti di Domenico Millelire.
Fu invece riesumato interamente la medaglia d'oro Tommaso Zonza. Le ossa, racchiuse in una piccola cassa grigia, vennero sistemate nella tomba della famiglia Susini. Il terreno del vecchio cimitero fu dissodato per la profondità di un paio di metri. Nonostante ciò, per molti anni, continuarono ad affiorare crani, stinchi, omeri ecc.La demolizione non sempre fu ordinata e nella confusione lapidi, croci e fregi presero le vie più diverse. Nel 1990 durante i lavori di restauro di una tomba del vecchio cimitero furono casualmente rinvenute le lapidi del Maggior Leggero e di Gusmaroli. Di demolire il vecchio cimitero si cominciò a parlare fin dal 1945, ai tempi del sindaco Domenico Tanca. Si pensava di costruirvi una grande piazza, attorno alla quale la città avrebbe potuto trovare adeguato sviluppo. La piazza si sarebbe chiamata '13 settembre 1943', in ricordo della cacciata dei tedeschi dall'isola. La stessa area interessava don Capula il quale intervenne energicamente presso l'amministrazione comunale affinché fosse donata alla costruzione di opere pie. La richiesta del parroco trovò il pieno sostegno del sindaco Giuseppino Merella e di quasi tutti i consiglieri democristiani.
Vennero cancellate le poche memorie della comunità isolana, i pochi segni delle proprie radici e della propria identità storica. Alcune salme vennero poste nelle tombe di famiglia del nuovo cimitero, tutte le altre nell'ossario. Migliaia di isolani sprofondarono nell'oblio. La particolare tecnica di seppellimento non sempre consentì il riconoscimento dei resti mortali.
Nelle tombe infatti, le casse di legno venivano adagiate su piccole travi di granito, sollevate di circa un metro rispetto ad un corridoio comune. Con gli anni le bare marcivano e le ossa cadevano, attraverso le feritoie, sul piano sottostante, andandosi spesso a mischiare. Fu per questo motivo che all'atto della riesumazione, non fu possibile individuare i resti di Domenico Millelire.
Fu invece riesumato interamente la medaglia d'oro Tommaso Zonza. Le ossa, racchiuse in una piccola cassa grigia, vennero sistemate nella tomba della famiglia Susini. Il terreno del vecchio cimitero fu dissodato per la profondità di un paio di metri. Nonostante ciò, per molti anni, continuarono ad affiorare crani, stinchi, omeri ecc.La demolizione non sempre fu ordinata e nella confusione lapidi, croci e fregi presero le vie più diverse. Nel 1990 durante i lavori di restauro di una tomba del vecchio cimitero furono casualmente rinvenute le lapidi del Maggior Leggero e di Gusmaroli. Di demolire il vecchio cimitero si cominciò a parlare fin dal 1945, ai tempi del sindaco Domenico Tanca. Si pensava di costruirvi una grande piazza, attorno alla quale la città avrebbe potuto trovare adeguato sviluppo. La piazza si sarebbe chiamata '13 settembre 1943', in ricordo della cacciata dei tedeschi dall'isola. La stessa area interessava don Capula il quale intervenne energicamente presso l'amministrazione comunale affinché fosse donata alla costruzione di opere pie. La richiesta del parroco trovò il pieno sostegno del sindaco Giuseppino Merella e di quasi tutti i consiglieri democristiani.
lunedì 17 ottobre 2011
NEOGUELFISMO
Movimento intellettuale e politico dell'Italia risorgimentale, sorto per affermare i valori di un cattolicesimo liberale e nazionale. Il termine fu elaborato dagli avversari di parte laica e repubblicana (Guglielmo Pepe, Giuseppe Ferrari) per sottolinearne il contenuto anacronistico e retrivo, ma finì per non dispiacere ai diretti interessati. Nel neoguelfismo confluirono vari elementi: le speranze di una riforma della Chiesa in senso democratico; l'aspirazione a un primato morale dell'Italia cattolica nell'Europa dei popoli; l'idea di un'unità da conseguire attraverso una confederazione di stati presieduta dal papa; il recupero in chiave romantica del cristianesimo delle origini; infine, forti spinte federalistiche e autonomistiche. Il programma neoguelfo fu esposto da Vincenzo Gioberti nel Primato (1843), ma pure Alessandro Manzoni, Gino Capponi e Cesare Balbo contribuirono a diffondere i principi del cattolicesimo liberale italiano. L'elezione di Pio IX (1846) parve assecondare la prospettiva giobertiana di una soluzione confederale della questione italiana: per alcuni anni (1846-1848), l'opinione pubblica moderata andò effettivamente indirizzandosi verso le tesi neoguelfe, destinate, tuttavia, a un rapido declino dopo l'allocuzione papale del 29 aprile 1848 (con la quale il pontefice si ritirava dalla guerra d'indipendenza) e, in novembre, l'assassinio di Pellegrino Rossi, fautore di una trasformazione in senso laico dello Stato della Chiesa.
domenica 16 ottobre 2011
Inno degli studenti del 1848
Quanta schiera di gagliardi,
quanto riso ne’ sembianti,
quanta gioia negli sguardi
vedi in tutti scintillar!
lieti evviva lieti canti
lieti evviva lieti canti
odi intorno risuonare
odi intorno risuonar
ma se in mezzo a tanta festa
sopra l’itala pianura
come un tuono di tempesta
giù discende lo stranier
ci rinfranchi la sventura
ci rinfranchi la sventura
ci raccolga un sol pensiero
ci raccolga un sol pensier
D’impugnar moschetto e spada,
primi a offrire il nostro petto,
di salvar questa contrada
giuriam tutti nel Signor.
quanto riso ne’ sembianti,
quanta gioia negli sguardi
vedi in tutti scintillar!
lieti evviva lieti canti
lieti evviva lieti canti
odi intorno risuonare
odi intorno risuonar
ma se in mezzo a tanta festa
sopra l’itala pianura
come un tuono di tempesta
giù discende lo stranier
ci rinfranchi la sventura
ci rinfranchi la sventura
ci raccolga un sol pensiero
ci raccolga un sol pensier
D’impugnar moschetto e spada,
primi a offrire il nostro petto,
di salvar questa contrada
giuriam tutti nel Signor.
La battaglia di Balaklava
Un foglio poco chiaro dietro l' azione di guerra più insensata
«A ttaccare, signore? Attaccare cosa? Quali cannoni, signore?». «Là, Mylord, là è il vostro nemico, là sono i vostri cannoni». È il 25 ottobre del 1854, in Crimea. A urlare rabbiosi l' uno contro l' altro sono Louis Edward Nolan, un capitano del 15° ussari che in quel momento agisce come portaordini del comandante in capo del corpo di spedizione britannico, Lord Raglan, e il comandante della cavalleria Lord Lucan. Costui ha appena ricevuto un ordine che non capisce e chiede spiegazioni. Ma di fronte alla reazione del suo interlocutore, che indica una linea di cannoni nemici distante due chilometri da percorrere allo scoperto, si rassegna e passa ai suoi uomini le istruzioni per l' attacco suicida. In quell' ordine, che esiste ancora, un foglietto sgualcito e scarabocchiato in fretta, è custodito il segreto e il mistero della carica di Balaklava, un' azione tanto coraggiosa quanto sanguinosa e insensata condotta dalla Brigata leggera di cavalleria contro l' artiglieria russa. A distanza di quasi 156 anni, ancora non si sa perché sia successo quel che è successo: dopo il combattimento, a cose fatte, ognuno dei protagonisti sopravvissuti è stato più occupato a evitare di esserne ritenuto responsabile che a darne una spiegazione accettabile. Intanto però la carica è diventata un mito. Dunque siamo in Crimea, la penisola che dalla Russia meridionale si getta nel Mar Nero. Francesi e inglesi, alleati della Turchia contro Mosca, stanno assediando la fortezza zarista di Sebastopoli. Con Londra e Parigi si schiererà poi anche il Regno di Sardegna: il primo ministro Cavour ha deciso di sfruttare l' occasione per stringere i legami con le due grandi potenze dell' epoca in funzione anti-austriaca, primo atto di quel lavorio diplomatico che nel 1859 porterà alla Seconda guerra di indipendenza e alla nascita del Regno d' Italia. La flotta inglese è ancorata nella baia di Balaklava: da lì partono gli approvvigionamenti per i soldati che assediano Sebastopoli. In ottobre i russi decidono di tentare un attacco per tagliare le linee di rifornimento. A difendere Balaklava c' è un battaglione di fanteria, gli scozzesi del 93° Highlanders, e la cavalleria al gran completo: la Brigata pesante (soprattutto dragoni), comandata dal generale Scarlett, e quella leggera (lancieri, ussari e dragoni leggeri) guidata da Lord Cardigan (che proprio durante la campagna di Crimea indossava spesso una giacca di lana abbottonata davanti, che da allora porta il suo nome). L' attacco russo fallisce nello scopo di raggiungere il mare e isolare l' esercito inglese dalla sua base ma riesce a scacciare i turchi da una serie di ridotte costruite sulle alture su cui corre la «strada in collina» tra Balaklava e Sebastopoli, che così passa sotto il loro controllo: i rifornimenti britannici sono comunque minacciati. È a questo punto che Lord Raglan, il comandante in capo britannico, dal suo posto di comando sulle colline, emette quello che poi sarà chiamato il «terzo ordine»: «La cavalleria avanzi e approfitti di ogni opportunità di riprendere le alture. Sarà appoggiata dalla fanteria che è già stata avvertita. Si avanzi su due fronti». In attesa della fanteria di appoggio, la Brigata leggera si schiera all' imbocco di una valle stretta (detta «valle a nord»), lunga più di due chilometri: i nemici, fanteria e cannoni, sono su entrambi i lati. Ma ce ne sono anche in fondo: artiglieria e un forte corpo di cavalleria. Insomma, una trappola mortale in cui nessun comandante sano di mente si addentrerebbe a cuor leggero. Poi succede un' altra cosa: i russi cominciano a portarsi via i cannoni di cui erano armate le ridotte. Quando il comandante in capo se ne accorge, emette il fatale «quarto ordine»: «Lord Raglan vuole che la cavalleria avanzi rapidamente verso il fronte: segua il nemico e cerchi di impedirgli di portare via i cannoni. Un reparto di artiglieria a cavallo può accompagnarla. La cavalleria francese è sulla vostra sinistra. Esecuzione immediata». L' ordine è affidato al capitano Nolan, cavallerizzo provetto, studioso delle tattiche di cavalleria e testa calda, furioso perché secondo lui al comando c' è una banda di incompetenti. Mentre Nolan si lancia giù dalle colline, Lord Raglan gli urla: «Dica a Lord Lucan che la cavalleria deve attaccare immediatamente». L' ordine è firmato dal generale Airey, perché Raglan ha lasciato un braccio a Waterloo, 40 anni prima, e non può scrivere. Anche la sua testa, a volte, sembra essere rimasta a Waterloo: per esempio chiama i nemici «i francesi», che invece adesso sono suoi alleati. Ma il sistema castale che governa la società inglese, dove conta più il rango della capacità, lo ha ugualmente portato a un comando per il quale è vistosamente inadatto, come del resto lo sono quasi tutti i suoi subordinati: Lucan è una specie di maniaco dei dettagli, che non riesce mai a vedere il quadro generale e quindi è incapace di «leggere» una battaglia, mentre Cardigan può essere definito, senza mezzi termini, un cretino e un inetto. Così la Brigata leggera parte al trotto con i suoi 666 uomini. Ne torneranno 395, nemmeno pochi considerato che la Brigata cavalcò per un paio di chilometri sotto il fuoco dei cannoni. Insomma i russi sparavano davvero male. Dopo la battaglia, naturalmente, cominciò il gioco della responsabilità: Raglan disse che i suoi due ordini, il terzo e il quarto, andavano letti insieme e che quindi non era un attacco quello che doveva essere eseguito ma una cauta avanzata. E soprattutto che i cannoni che dovevano essere attaccati erano quelli delle ridotte. Insomma, la colpa era di Nolan che aveva passato informazioni sbagliate o di Lord Lucan che non aveva capito niente. Lucan si difese dicendo che aveva ricevuto un ordine, ne aveva chiesto spiegazioni a Nolan e ne aveva ottenuto una risposta insolente accompagnata da un gesto che indicava i cannoni in fondo alla valle. Che poteva fare se non obbedire e passare l' ordine a Cardigan e alla Brigata leggera? Quanto a Nolan, non potè dire nulla: una delle prime granate russe gli squarciò il torace e lo uccise. Al momento della morte stava urlando e cavalcando a fianco di Lord Cardigan, come se volesse dirgli qualcosa: forse si era reso conto che la Brigata stava andando verso i cannoni sbagliati, forse era solo eccitato. Il segreto della carica di Balaklava è rimasto in Crimea con lui.
«A ttaccare, signore? Attaccare cosa? Quali cannoni, signore?». «Là, Mylord, là è il vostro nemico, là sono i vostri cannoni». È il 25 ottobre del 1854, in Crimea. A urlare rabbiosi l' uno contro l' altro sono Louis Edward Nolan, un capitano del 15° ussari che in quel momento agisce come portaordini del comandante in capo del corpo di spedizione britannico, Lord Raglan, e il comandante della cavalleria Lord Lucan. Costui ha appena ricevuto un ordine che non capisce e chiede spiegazioni. Ma di fronte alla reazione del suo interlocutore, che indica una linea di cannoni nemici distante due chilometri da percorrere allo scoperto, si rassegna e passa ai suoi uomini le istruzioni per l' attacco suicida. In quell' ordine, che esiste ancora, un foglietto sgualcito e scarabocchiato in fretta, è custodito il segreto e il mistero della carica di Balaklava, un' azione tanto coraggiosa quanto sanguinosa e insensata condotta dalla Brigata leggera di cavalleria contro l' artiglieria russa. A distanza di quasi 156 anni, ancora non si sa perché sia successo quel che è successo: dopo il combattimento, a cose fatte, ognuno dei protagonisti sopravvissuti è stato più occupato a evitare di esserne ritenuto responsabile che a darne una spiegazione accettabile. Intanto però la carica è diventata un mito. Dunque siamo in Crimea, la penisola che dalla Russia meridionale si getta nel Mar Nero. Francesi e inglesi, alleati della Turchia contro Mosca, stanno assediando la fortezza zarista di Sebastopoli. Con Londra e Parigi si schiererà poi anche il Regno di Sardegna: il primo ministro Cavour ha deciso di sfruttare l' occasione per stringere i legami con le due grandi potenze dell' epoca in funzione anti-austriaca, primo atto di quel lavorio diplomatico che nel 1859 porterà alla Seconda guerra di indipendenza e alla nascita del Regno d' Italia. La flotta inglese è ancorata nella baia di Balaklava: da lì partono gli approvvigionamenti per i soldati che assediano Sebastopoli. In ottobre i russi decidono di tentare un attacco per tagliare le linee di rifornimento. A difendere Balaklava c' è un battaglione di fanteria, gli scozzesi del 93° Highlanders, e la cavalleria al gran completo: la Brigata pesante (soprattutto dragoni), comandata dal generale Scarlett, e quella leggera (lancieri, ussari e dragoni leggeri) guidata da Lord Cardigan (che proprio durante la campagna di Crimea indossava spesso una giacca di lana abbottonata davanti, che da allora porta il suo nome). L' attacco russo fallisce nello scopo di raggiungere il mare e isolare l' esercito inglese dalla sua base ma riesce a scacciare i turchi da una serie di ridotte costruite sulle alture su cui corre la «strada in collina» tra Balaklava e Sebastopoli, che così passa sotto il loro controllo: i rifornimenti britannici sono comunque minacciati. È a questo punto che Lord Raglan, il comandante in capo britannico, dal suo posto di comando sulle colline, emette quello che poi sarà chiamato il «terzo ordine»: «La cavalleria avanzi e approfitti di ogni opportunità di riprendere le alture. Sarà appoggiata dalla fanteria che è già stata avvertita. Si avanzi su due fronti». In attesa della fanteria di appoggio, la Brigata leggera si schiera all' imbocco di una valle stretta (detta «valle a nord»), lunga più di due chilometri: i nemici, fanteria e cannoni, sono su entrambi i lati. Ma ce ne sono anche in fondo: artiglieria e un forte corpo di cavalleria. Insomma, una trappola mortale in cui nessun comandante sano di mente si addentrerebbe a cuor leggero. Poi succede un' altra cosa: i russi cominciano a portarsi via i cannoni di cui erano armate le ridotte. Quando il comandante in capo se ne accorge, emette il fatale «quarto ordine»: «Lord Raglan vuole che la cavalleria avanzi rapidamente verso il fronte: segua il nemico e cerchi di impedirgli di portare via i cannoni. Un reparto di artiglieria a cavallo può accompagnarla. La cavalleria francese è sulla vostra sinistra. Esecuzione immediata». L' ordine è affidato al capitano Nolan, cavallerizzo provetto, studioso delle tattiche di cavalleria e testa calda, furioso perché secondo lui al comando c' è una banda di incompetenti. Mentre Nolan si lancia giù dalle colline, Lord Raglan gli urla: «Dica a Lord Lucan che la cavalleria deve attaccare immediatamente». L' ordine è firmato dal generale Airey, perché Raglan ha lasciato un braccio a Waterloo, 40 anni prima, e non può scrivere. Anche la sua testa, a volte, sembra essere rimasta a Waterloo: per esempio chiama i nemici «i francesi», che invece adesso sono suoi alleati. Ma il sistema castale che governa la società inglese, dove conta più il rango della capacità, lo ha ugualmente portato a un comando per il quale è vistosamente inadatto, come del resto lo sono quasi tutti i suoi subordinati: Lucan è una specie di maniaco dei dettagli, che non riesce mai a vedere il quadro generale e quindi è incapace di «leggere» una battaglia, mentre Cardigan può essere definito, senza mezzi termini, un cretino e un inetto. Così la Brigata leggera parte al trotto con i suoi 666 uomini. Ne torneranno 395, nemmeno pochi considerato che la Brigata cavalcò per un paio di chilometri sotto il fuoco dei cannoni. Insomma i russi sparavano davvero male. Dopo la battaglia, naturalmente, cominciò il gioco della responsabilità: Raglan disse che i suoi due ordini, il terzo e il quarto, andavano letti insieme e che quindi non era un attacco quello che doveva essere eseguito ma una cauta avanzata. E soprattutto che i cannoni che dovevano essere attaccati erano quelli delle ridotte. Insomma, la colpa era di Nolan che aveva passato informazioni sbagliate o di Lord Lucan che non aveva capito niente. Lucan si difese dicendo che aveva ricevuto un ordine, ne aveva chiesto spiegazioni a Nolan e ne aveva ottenuto una risposta insolente accompagnata da un gesto che indicava i cannoni in fondo alla valle. Che poteva fare se non obbedire e passare l' ordine a Cardigan e alla Brigata leggera? Quanto a Nolan, non potè dire nulla: una delle prime granate russe gli squarciò il torace e lo uccise. Al momento della morte stava urlando e cavalcando a fianco di Lord Cardigan, come se volesse dirgli qualcosa: forse si era reso conto che la Brigata stava andando verso i cannoni sbagliati, forse era solo eccitato. Il segreto della carica di Balaklava è rimasto in Crimea con lui.
sabato 15 ottobre 2011
La battaglia di Bezzecca
L’esercito del neonato Regno d’Italia (sei anni, appena compiuti) ha molti problemi di integrazione delle componenti degli eserciti preunitari che lo compongono, la cosa vale sia per entrambe le forze armate (la terza, l’aeronautica, ancora non esiste). Alla rivalità e alla diffidenza, si unisce anche la disomogeneità di addestramento e le differenze culturali. Questi fattori, uniti agli errori dei comandi supremi, causeranno le tragedie di Lissa, sul mare, e di Custoza sulla terra. Il Corpo Volontari Italiani, comandati da Giuseppe Garibaldi, invece, ottengono un grande successo arrestando l’avanzata nemica proveniente dal Trentino.I Garibaldini, prima dello scoppio della guerra, vengono mandati a presidiare le possibili vie di invasione della Lombardia al confine col Trentino, ovvero il Passo dello Stelvio a nord, il Passo del Tonale al centro e il lago d'Idro a sud. I Garibaldini attaccano il 3 luglio e riescono ad impossessarsi di una forte posizione sul monte Suello e una parte dell'austriaca Valvestino, poi i paesi della valle del Chiese (Lodrone, Darzo e Storo sino a Condino), intanto un’avanguardia riesce ad istallarsi a Cimego col suo ponte sul Chiese, circa 20 Km a nord del Caffaro. Il 18 proseguirono l’avanzata e il 19 costrinsero alla resa gli assediati nella fortezza di Ampolla che sbarrava la via alla strada carrabile sopra Storo. Il contrattacco austriaco non tradò, le truppe imperiali si spinsero fino a Locca dove i garibaldini del 5° reggimento, comandati del colonnello Giovanni Chiassi, si asserragliarono in una chiesa con annesso cimitero difeso da mura. La resistenza fu vana, i difensori vennero bombardati dalle artiglierie degli attaccati e costretti alla resa, morì nello scontro anche lo stesso Chiassi. Anche Bezzecca stava cadendo, Garibaldi, avvertito, vi accorse con dei rinforzi, arrivò in carrozza perché era stato ferito il 3 luglio. La situazione era difficile, le posizioni italiane erano prese sotto i colpi di artiglieria, la carrozza di Garibaldi fu centrata, morì un cavallo e la guida del generale, il quale fu tirato fuori a forza dalla carcassa del suo mezzo. Garibaldi, che non aveva perso la lucidità, decise di far arretrare l’artiglieria per posizionarla su una piccola altura prima dell’abitato e prendere di mira il centro dello stesso, dove si ammassavano le truppe austriache. Il piano funzionò e le forze austriache ne uscirono scompaginate. A questo punto come da tradizione garibaldina i comandanti ancora sul campo, (Menotti e Ricciotti Garibaldi, Canzio, Bedeschini, Rizzi, Mosto, Antongini, Pellizzari) radunarono tutti gli uomini abili e lanciarono l’assalto alla baionetta verso l’abitato, costringendo gli austriaci ad arretrare lasciando Bezzecca in mano ai garibaldini.
Le perdite italiane furono ingenti e superiori a quelle nemiche, ma si era dimostrato all’Austria la serietà della minaccia italiana, inoltre, l’obiettivo austriaco di riprendere la Val di Ledro era fallito.
Le perdite italiane furono ingenti e superiori a quelle nemiche, ma si era dimostrato all’Austria la serietà della minaccia italiana, inoltre, l’obiettivo austriaco di riprendere la Val di Ledro era fallito.
venerdì 14 ottobre 2011
Francesca Armosino, moglie di Garibaldi
(San Martino Alfieri, 18 maggio 1848 - Caprera, 15 luglio 1923)
La notorietà di Francesca Armosino si deve al suo legame con la famiglia Garibaldi. Giunta a Caprera nel 1865 come balia dei figli di Teresita, terzogenita di Anita e del Generale, la diciassettenne conquistò ben presto uno spazio che andava ben oltre quel ruolo. L’intimità con Garibaldi finì col sancire e consolidare quel peso centrale nella gestione della vita quotidiana di Caprera che la giovane aveva ben presto saputo esercitare, destabilizzando in parte gli equilibri familiari. La Armosino incarnava un modello di donna opposto rispetto alle figure femminili che avevano affascinato il Generale nei quindici anni precedenti: ma dopo lo sfortunato matrimonio con la marchesina Raimondi, il legame con una donna né colta né politicamente impegnata, né introdotta nella buona società, bensì di umili origini, poteva essere funzionale alla costruzione del mito dell’eroe popolare, del Garibaldi Cincinnato nel contesto semplice e aspro di Caprera, a cui la Armosino non faticò ad adattarsi. Al contrario di Battistina Raveo, la domestica nizzarda da cui il Generale aveva avuto nel 1859 una figlia morta in tenera età, la giovane astigiana, non particolarmente avvenente, seppe rivelarsi una compagna affidabile, presenza solida e presto irrinunciabile per un uomo costretto sempre più a dipendere e a delegare nella vita d’ogni giorno. Se di certo gli anni trascorsi a fianco della Armosino furono sempre più quelli della fatale decadenza fi sica di Garibaldi, sarebbe scorretto associare l’unione tra i due a una fase di declino politico e psicologico del nizzardo: dalla guerra del 1866 a Mentana, dalla partecipazione al conflitto franco-prussiano ad un ruolo centrale nelle iniziative della democrazia postrisorgimentale, si trattò di un periodo di indubbio protagonismo sulla scena pubblica. I figli avuti da Francesca – Clelia e Manlio, nati rispettivamente nel 1867 e nel 1869, e Rosa, morta a poco più di un anno nel 1871 – furono comunque gli unici a poter godere della presenza assidua del padre durante la propria infanzia. Garibaldi ebbe modo di regolarizzare la sua nuova famiglia e di sposare Francesca solo nel gennaio 1880, dopo aver finalmente ottenuto il divorzio dalla Raimondi. Sopravvissuta al marito per più di quarant’anni, Francesca fu l’unica compagna di Garibaldi ad essere sepolta a Caprera vicino al proprio uomo.
La notorietà di Francesca Armosino si deve al suo legame con la famiglia Garibaldi. Giunta a Caprera nel 1865 come balia dei figli di Teresita, terzogenita di Anita e del Generale, la diciassettenne conquistò ben presto uno spazio che andava ben oltre quel ruolo. L’intimità con Garibaldi finì col sancire e consolidare quel peso centrale nella gestione della vita quotidiana di Caprera che la giovane aveva ben presto saputo esercitare, destabilizzando in parte gli equilibri familiari. La Armosino incarnava un modello di donna opposto rispetto alle figure femminili che avevano affascinato il Generale nei quindici anni precedenti: ma dopo lo sfortunato matrimonio con la marchesina Raimondi, il legame con una donna né colta né politicamente impegnata, né introdotta nella buona società, bensì di umili origini, poteva essere funzionale alla costruzione del mito dell’eroe popolare, del Garibaldi Cincinnato nel contesto semplice e aspro di Caprera, a cui la Armosino non faticò ad adattarsi. Al contrario di Battistina Raveo, la domestica nizzarda da cui il Generale aveva avuto nel 1859 una figlia morta in tenera età, la giovane astigiana, non particolarmente avvenente, seppe rivelarsi una compagna affidabile, presenza solida e presto irrinunciabile per un uomo costretto sempre più a dipendere e a delegare nella vita d’ogni giorno. Se di certo gli anni trascorsi a fianco della Armosino furono sempre più quelli della fatale decadenza fi sica di Garibaldi, sarebbe scorretto associare l’unione tra i due a una fase di declino politico e psicologico del nizzardo: dalla guerra del 1866 a Mentana, dalla partecipazione al conflitto franco-prussiano ad un ruolo centrale nelle iniziative della democrazia postrisorgimentale, si trattò di un periodo di indubbio protagonismo sulla scena pubblica. I figli avuti da Francesca – Clelia e Manlio, nati rispettivamente nel 1867 e nel 1869, e Rosa, morta a poco più di un anno nel 1871 – furono comunque gli unici a poter godere della presenza assidua del padre durante la propria infanzia. Garibaldi ebbe modo di regolarizzare la sua nuova famiglia e di sposare Francesca solo nel gennaio 1880, dopo aver finalmente ottenuto il divorzio dalla Raimondi. Sopravvissuta al marito per più di quarant’anni, Francesca fu l’unica compagna di Garibaldi ad essere sepolta a Caprera vicino al proprio uomo.
giovedì 13 ottobre 2011
Il Brigantaggio durante l'occupazione del Regno
Nel 1806 Napoleone Bonaparte, decise di liquidare il regno borbonico. Il corpo di spedizione francese, al comando del generale Massena, varcò i confini dello stato e occupò Napoli. I borbonici cercarono di fermarne l’avanzata, ma, nella battaglia di Campotenese, furono inesorabilmente sconfitti e gli invasori ebbero via libera anche per l’occupazione della Calabria.
I sudditi fedeli al re Ferdinando IV°, terzo genito di Carlo III° re di Spagna, organizzarono una feroce reazione antifrancese affidata alla capacità di lotta ed alla ferocia di alcuni celebri briganti, molti dei quali, già al seguito del cardinale Ruffo nell’armata sanfedista, avevano consentito, nel 1799, la restaurazione borbonica.
La zona di Caccuri divenne quindi teatro delle gesta di Fra Diavolo, il famoso colonnello Michele Pezza, già monaco del convento di San Giovanni in Fiore che finirà per essere sconfitto e, catturato dal generale Hugo e giustiziato nello stesso anno. La figura di Fra Diavolo venne celebrata da Auber nella omonima opera lirica e riproposta in uno spassoso film di Stan Laurer ed Oliver Hardy. Nei dintorni di Caccuri operarono anche Nicola Gualtieri, detto Panedigrano, Giacomo Pisano da Pedace, più noto col soprannome di Francatrippa, Paolo Mancuso detto Parafante, Filicione e Geniale Versace da Bagnara, detto Gernialtitz.
Proprio quest’ultimo, nell’agosto del 1806, mentre col grado di colonnello scorrazzava nella Sila con le sue orde, fu sorpreso ed ucciso dall’esercito francese. Della sua fine si vantò il capitano della I^ compagnia scelta della Calabria Michele Vigna che, per ricompensa, ottenne due fondi di 68 moggia (circa 5,5 ha) nel territorio di Caccuri e che poi gli vennero tolti da Francesco IV° con un decreto del 14 agosto 1815, in piena Restaurazione. Intanto nello stesso mese di agosto, il giorno 30, i Francesi entrano in San Giovanni in Fiore, mentre Caccuri è da tempo teatro di rivolte fomentate da Francatrippa e dai Pedacesi. Qualche tempo prima, infatti, nella nostra cittadina, venne innalzato lo stemma della rivolta e proclamato un governo provvisorio. La notizia è contenuta in un rapporto dell’intendente della Calabria Citra Vincenzo Palombo al generale Miot. Le resistenza di Francatrippa e delle sue bande si protrasse per quasi un anno, ma non sortì grossi risultati. Nel gennaio del 1807 lo troviamo attestato sulle alture di Gimmella, un monte tra Caccuri e San Giovanni in Fiore, alla testa di 2000 uomini, nel tentativo di espugnare la cittadina florense presidiata dall’esercito francese al comando del colonnello Lambert. L’8 marzo del 1809 venne catturato in località Bardaro dell’agro di Cerenzia il brigante Domenico Fabiano che, condotto a Caccuri, fu immediatamente fucilato in località Petraro. La resistenza antifrancese fu lunga, accanita e feroce, ma alla fine gli invasori riuscirono, con altrettanta ferocia, ad avere ragione dei “briganti.” Uno degli ultimi fatti di sangue che si verificò a Caccuri in quel periodo fu l’agguato al capitano Pier Maria Scigliano di San Giovanni in Fiore, punito, evidentemente, per i suoi trascorsi al servizio dei Francesi e per aver arrestato o ucciso numerosi briganti. Il capitano Scigliano fu assassinato la mattina del 18 ottobre del 1812 in località Cimitella, nei pressi del vecchio ponte delle Monache, mentre si recava a Bordò per eseguire alcuni lavori nella vigna del generale Manhès.
Poi gli atti criminosi cessarono e, di lì a poco, con la sconfitta definitiva di Napoleone, Ferdinando IV° tornò sul trono di Napoli.
I sudditi fedeli al re Ferdinando IV°, terzo genito di Carlo III° re di Spagna, organizzarono una feroce reazione antifrancese affidata alla capacità di lotta ed alla ferocia di alcuni celebri briganti, molti dei quali, già al seguito del cardinale Ruffo nell’armata sanfedista, avevano consentito, nel 1799, la restaurazione borbonica.
La zona di Caccuri divenne quindi teatro delle gesta di Fra Diavolo, il famoso colonnello Michele Pezza, già monaco del convento di San Giovanni in Fiore che finirà per essere sconfitto e, catturato dal generale Hugo e giustiziato nello stesso anno. La figura di Fra Diavolo venne celebrata da Auber nella omonima opera lirica e riproposta in uno spassoso film di Stan Laurer ed Oliver Hardy. Nei dintorni di Caccuri operarono anche Nicola Gualtieri, detto Panedigrano, Giacomo Pisano da Pedace, più noto col soprannome di Francatrippa, Paolo Mancuso detto Parafante, Filicione e Geniale Versace da Bagnara, detto Gernialtitz.
Proprio quest’ultimo, nell’agosto del 1806, mentre col grado di colonnello scorrazzava nella Sila con le sue orde, fu sorpreso ed ucciso dall’esercito francese. Della sua fine si vantò il capitano della I^ compagnia scelta della Calabria Michele Vigna che, per ricompensa, ottenne due fondi di 68 moggia (circa 5,5 ha) nel territorio di Caccuri e che poi gli vennero tolti da Francesco IV° con un decreto del 14 agosto 1815, in piena Restaurazione. Intanto nello stesso mese di agosto, il giorno 30, i Francesi entrano in San Giovanni in Fiore, mentre Caccuri è da tempo teatro di rivolte fomentate da Francatrippa e dai Pedacesi. Qualche tempo prima, infatti, nella nostra cittadina, venne innalzato lo stemma della rivolta e proclamato un governo provvisorio. La notizia è contenuta in un rapporto dell’intendente della Calabria Citra Vincenzo Palombo al generale Miot. Le resistenza di Francatrippa e delle sue bande si protrasse per quasi un anno, ma non sortì grossi risultati. Nel gennaio del 1807 lo troviamo attestato sulle alture di Gimmella, un monte tra Caccuri e San Giovanni in Fiore, alla testa di 2000 uomini, nel tentativo di espugnare la cittadina florense presidiata dall’esercito francese al comando del colonnello Lambert. L’8 marzo del 1809 venne catturato in località Bardaro dell’agro di Cerenzia il brigante Domenico Fabiano che, condotto a Caccuri, fu immediatamente fucilato in località Petraro. La resistenza antifrancese fu lunga, accanita e feroce, ma alla fine gli invasori riuscirono, con altrettanta ferocia, ad avere ragione dei “briganti.” Uno degli ultimi fatti di sangue che si verificò a Caccuri in quel periodo fu l’agguato al capitano Pier Maria Scigliano di San Giovanni in Fiore, punito, evidentemente, per i suoi trascorsi al servizio dei Francesi e per aver arrestato o ucciso numerosi briganti. Il capitano Scigliano fu assassinato la mattina del 18 ottobre del 1812 in località Cimitella, nei pressi del vecchio ponte delle Monache, mentre si recava a Bordò per eseguire alcuni lavori nella vigna del generale Manhès.
Poi gli atti criminosi cessarono e, di lì a poco, con la sconfitta definitiva di Napoleone, Ferdinando IV° tornò sul trono di Napoli.
mercoledì 12 ottobre 2011
Il brigantaggio post unitario
Il primo episodio di reazione al nuovo ordine costituito e al nuovo re d’Italia si verificò nei primi giorni di luglio del 1861 quando orde di briganti percorsero "impunemente, a mano armata, gridando “Viva Francesco II”, con la bandiera bianca alzata”, come scrive in una lettera l’Intendente di Crotone al Governatore della Provincia di Calabria Ultra II° il territorio caccurese. Nella notte tra il 6 ed il 7 dello stesso mese, i rivoltosi inalberarono una bandiera bianca borbonica sul campanile della Chiesa Madre di Santa Maria delle Grazie. In paese accorse immediatamente la Guardia Nazionale di San Giovanni in Fiore e, subito dopo, una colonna mobile dell’Armata italiana. Intanto insorsero anche Savelli, e Cotronei e la rivolta si estese a tutto il Marchesato. La rivolta caccurese, comunque, quantunque domata, continuava a preoccupare il comandante del distaccamento Magni inviato in paese, tanto che lo stesso, il giorno 10, richiese l’intervento della squadriglia della Guardia Nazionale mobilizzata di San Giovanni in Fiore. Il giorno dopo il tenente Magni si recò ad Altilia ed i briganti, nella notte, attaccarono Caccuri, ma vennero respinti. La colonna dell’esercito italiano rimase a Caccuri per molto tempo e da qui mosse spesso contro le orde di briganti che attaccavano ripetutamente la vicina Cotronei dove il 14 agosto la popolazione, unita ai rivoltosi, respinse più volte i soldati che tentavano di penetrarvi per ristabilire l’ordine. Intanto il 15 agosto il generale Cialdini emanò la norme che concedevano benefici ai briganti che si presentavano spontaneamente, ma già il 3 dello stesso mese tre briganti reazionari caccuresi, Rocco e Vincenzo Gabriele Perri e Vincenzo Mancuso, si erano presentati al sindaco per usufruire dell’amnistia del generale Della Chiesa. Il pericolo corso dal paese e la necessità di garantire in futuro l’ordine pubblico, portò alla costituzione, anche a Caccuri, del ruolo permanente della Guardia Nazionale mobilizzata in base alla legge del 4 agosto 1861. Vennero così arruolate 8 guardie caccuresi di età compresa tra i 22 e i 31 anni. Essi erano: Domenico Falbo, Achille Gigliotti, Giovanni Ruggero, Santo Aiello, Giuseppe Falbo, Gaetano Marino, Ferdinando Belcastro e Luigi Allevato. L’esercito rimase a Caccuri per molti mesi, poi, pian piano, le rivolte furono sedate e l’opposizione al nuovo governo passò dalla lotta armata ai mugugni ed alle critiche. L’ultimo episodio di cui si ha notizia è il processo intentato ad Angelo Segreto detto Panicauro (Pan caldo) di 53 anni, mulattiere, accusato di “pubblico discorso col reo fine di eccitare il disprezzo ed il malcontento contro il governo” e condannato dalla Pretura di Savelli il 6 settembre del 1865.
martedì 11 ottobre 2011
Europeismo o Nazionalismo
Nell'Illuminismo Montesquieu e Voltaire insistono sull'identità e sulla centralità dell'Europa nell'epoca moderna sia sul piano economico sia su quello politico. La scoperta dell'America legò all'Europa l'Asia e l'Africa. L'America fornì all'Europa le merci necessarie per il commercio con le Indie orientali e i traffici marittimi con l'Africa furono indispensabili perché essa forniva uomini per il lavoro nelle miniere e nei campi dell'America.
L'Europa divenne il centro dei commerci e raggiunse così un grado di potenza molto elevato superiore anche a quello dell'Asia. L'unica differenza tra Europa e Asia era che nella prima c'era la libertà mentre nella seconda c'era dispotismo. La radice dell'idea d'Europa come terra della libertà nacque nell'epoca greca perché l'Europa era sede di governi fondati sulle leggi a differenza dell'Asia, terra di dispotismo.
Con l'epoca romana si introdusse anche il concetto d'uniformità politica, pur nella diversità e molteplicità dei popoli sottomessi a Roma, e questo concetto rimase anche dopo la fine dell'impero attraverso il diritto romano e l'idea di legalità ad esso legata.
Con il Cristianesimo si aggiunse quello d'unità spirituale e l'Europa divenne la Cristianità. La spaccatura portata dalla Riforma protestante contribuì a sostituire alla unità religiosa quella culturale d'Europa: la particolarità dell'Europa è quella di essere un "corpus a sé" con proprie caratteristiche politiche, sociali, culturali e con una propria tradizione.
Intorno all'XVIII - XIX secolo queste diverse radici vennero riprese dagli studiosi grazie anche all'Illuminismo. Voltaire, uno di questi filosofi, riconosce che l'Europa costituisce anche un'unità politica, nel senso d'avere principi di diritto pubblico e di politica, sconosciuti nelle altre parti del mondo e fra questi il principio d'equilibrio fra gli Stati.
Con l'idea illuminista di sovranità popolare e, dopo l'avvento di Napoleone, con l'esigenza di liberazione da un dominio straniero, si afferma il concetto di Nazione. Questo però accade solo nel primo '800 perché nella cultura dell'antico regime l'idea che lo Stato dovesse coincidere con una Nazione era sostanzialmente estranea. L'idea moderna di Nazione si rafforzò con Rousseau e con la sua concezione dello stato come espressione di un popolo capace di esprimere una volontà comune.
Rousseau infatti era contrario all'europeismo e per questo si contrappone a Montesquieu e a Voltaire. Questa concezione venne diffusa grazie alla rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche in tutta Europa. Con la diffusione dell'idea di nazione nacquero molti problemi legati alle due concezioni di Europa e di Nazione. In Italia erano presenti due studiosi come Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini che avevano idee differenti sulle diverse concezioni, ma comuni nello spirito della libertà e del progresso. Cattaneo aveva una concezione federale di Europa perché era convinto che la libertà avvicinasse i popoli e li spingesse ad associarsi in una federazione europea di Stati. Mazzini invece, esaltava la patria, la nazione ponendola in connessione strettissima con l'umanità.
Nell'appello Ai giovani in Italia del 1859 la nazione non era solamente fine a se stessa ma era anche mezzo per il compimento del fine supremo, vale a dire l'umanità. Quest'ultima si esprimeva nell'Europa per questo il pensiero di Mazzini era rivolto alla giovane Europa, all'Europa dei popoli. Mazzini dice anche che ogni popolo ha avuto da Dio una missione, "l'insieme di tutte quelle missioni compiute in bella armonia per il bene comune, rappresenterà un giorno la patria di tutti".
Lo "Sprito delle Leggi" (1748)
La scoperta dell'America ha intensificato il commercio tra Europa Asia e Africa. L'Europa al centro del commercio mondiale. Il commercio interno favorisce quello estero. La religione cristiana si oppone all'assolutismo e contribuisce alla felicità terrena al contrario di quella maomettana.
Secondo Montesquieu l'Europa sarebbe il fulcro del commercio internazionale; questo perché grazie alla scoperta dell'America l'Europa è riuscita ad emergere sugli altri mercati. Infatti l'America ha fornito all'Europa merce necessaria al suo commercio con l'Asia, come l'argento, materiale molto usato per gli scambi di mercato. Oltre all'America anche l'Africa ha contribuito molto al potenziamento dell'Europa, infatti dall'Africa arrivano gli schiavi da far lavorare nelle miniere e nelle piantagioni dell'America. Questa potenza dell'Europa si nota soprattutto dall'immensità delle spese (anche certe volte inutili) che venivano affrontate in questo arco della storia. Su questo fatto però non era d'accordo il padre Duhalde che affermava invece la supremazia dell'Asia sull'Europa. A questa provocazione Montesquieu risponde dicendo che questo fatto potrebbe essere anche vero solo se il commercio estero dell'Europa non facesse aumentare anche quello interno. Inoltre Montesquieu per concludere dice che l'Europa svolge anche il commercio ed i traffici marittimi delle altre tre parti del mondo. Con questo discorso Montesquieu fa affiorare notevolmente la potenza dell'Europa e soffoca così le inutili proteste fatte dal padre Duhalde. In questo brano inoltre Montesquieu parla anche della religione cristiana che secondo lui è molto lontana dal concetto di dispotismo, essendo una religione mite. Seguendo questa religione i principi sono più uniti al loro popolo e di conseguenza più uomini e disposti ad avvalersi delle leggi, a differenza di un principe maomettano che incute timore al proprio popolo.
Al contrario nella religione cristiana esistono principi che contano sul loro popolo e vengono ammirati e stimati da esso. Con questo discorso Montesquieu fa notare che la religione cristiana, preoccupandosi della felicità nell'altra vita, contribuisce a rendere migliore anche la vita terrena. "Spirito delle leggi" di Montesquieu. Il risultato della scoperta dell'America fu di legare all'Europa l'Asia e l'Africa. L'America fornì all'Europa la merce necessaria per il suo commercio con quella gran parte dell'Asia che si suole chiamare le Indie orientali. L'argento questo metallo così utile al commercio sotto forma di moneta, fu inoltre la base, come merce di scambio, del commercio più grande dell'universo. Infine i traffici marittimi con l'Africa divennero necessari, perché essa forniva uomini per il lavoro nelle miniere e nei campi dell'America. L'Europa ha raggiunto un grado così elevato di potenza da non trovar riscontro nella storia, se si considerano l'immensità delle spese, la grandezza degli impegni, il numero delle truppe e la continuità del loro mantenimento, anche quando sono del tutto inutili e non sono altro che oggetto di ostentazione. Il padre Duhalde afferma che il commercio interno della Cina è maggiore di quello di tutta l'Europa. Ciò potrebbe anche darsi se il nostro commercio estero non facesse aumentare il volume di quello interno. L'Europa svolge il commercio e i traffici marittimi delle altre tre parti del mondo, come la Francia, l'Inghilterra e l'Olanda svolgono quasi tutto il commercio e la navigazione dell'Europa. La religione cristiana è ben lungi dal puro dispotismo poiché, essendo la mitezza totalmente raccomandata nel Vangelo, essa si oppone al furore dispotico con il quale il principe si farebbe giustizia ed eserciterebbe le sue crudeltà. Poiché questa religione proibisce la pluralità delle mogli, i principi sono meno chiusi, meno separati dai loro sudditi, e di conseguenza più uomini; sono più disposti a darsi delle leggi e più inclini ad accorgersi che non possono tutto.
Mentre i principi maomettani danno continuamente la morte e la ricevono, la religione, presso i cristiani, rende i principi meno timorosi, e di conseguenza meno crudeli. Il principe conta sui suoi sudditi, ed i sudditi sul principe. Cosa ammirevole! La religione cristiana, che sembra non avere altro scopo che la felicità nell'altra vita, contribuisce a procurarcela anche in questa.
L'Europa divenne il centro dei commerci e raggiunse così un grado di potenza molto elevato superiore anche a quello dell'Asia. L'unica differenza tra Europa e Asia era che nella prima c'era la libertà mentre nella seconda c'era dispotismo. La radice dell'idea d'Europa come terra della libertà nacque nell'epoca greca perché l'Europa era sede di governi fondati sulle leggi a differenza dell'Asia, terra di dispotismo.
Con l'epoca romana si introdusse anche il concetto d'uniformità politica, pur nella diversità e molteplicità dei popoli sottomessi a Roma, e questo concetto rimase anche dopo la fine dell'impero attraverso il diritto romano e l'idea di legalità ad esso legata.
Con il Cristianesimo si aggiunse quello d'unità spirituale e l'Europa divenne la Cristianità. La spaccatura portata dalla Riforma protestante contribuì a sostituire alla unità religiosa quella culturale d'Europa: la particolarità dell'Europa è quella di essere un "corpus a sé" con proprie caratteristiche politiche, sociali, culturali e con una propria tradizione.
Intorno all'XVIII - XIX secolo queste diverse radici vennero riprese dagli studiosi grazie anche all'Illuminismo. Voltaire, uno di questi filosofi, riconosce che l'Europa costituisce anche un'unità politica, nel senso d'avere principi di diritto pubblico e di politica, sconosciuti nelle altre parti del mondo e fra questi il principio d'equilibrio fra gli Stati.
Con l'idea illuminista di sovranità popolare e, dopo l'avvento di Napoleone, con l'esigenza di liberazione da un dominio straniero, si afferma il concetto di Nazione. Questo però accade solo nel primo '800 perché nella cultura dell'antico regime l'idea che lo Stato dovesse coincidere con una Nazione era sostanzialmente estranea. L'idea moderna di Nazione si rafforzò con Rousseau e con la sua concezione dello stato come espressione di un popolo capace di esprimere una volontà comune.
Rousseau infatti era contrario all'europeismo e per questo si contrappone a Montesquieu e a Voltaire. Questa concezione venne diffusa grazie alla rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche in tutta Europa. Con la diffusione dell'idea di nazione nacquero molti problemi legati alle due concezioni di Europa e di Nazione. In Italia erano presenti due studiosi come Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini che avevano idee differenti sulle diverse concezioni, ma comuni nello spirito della libertà e del progresso. Cattaneo aveva una concezione federale di Europa perché era convinto che la libertà avvicinasse i popoli e li spingesse ad associarsi in una federazione europea di Stati. Mazzini invece, esaltava la patria, la nazione ponendola in connessione strettissima con l'umanità.
Nell'appello Ai giovani in Italia del 1859 la nazione non era solamente fine a se stessa ma era anche mezzo per il compimento del fine supremo, vale a dire l'umanità. Quest'ultima si esprimeva nell'Europa per questo il pensiero di Mazzini era rivolto alla giovane Europa, all'Europa dei popoli. Mazzini dice anche che ogni popolo ha avuto da Dio una missione, "l'insieme di tutte quelle missioni compiute in bella armonia per il bene comune, rappresenterà un giorno la patria di tutti".
Lo "Sprito delle Leggi" (1748)
La scoperta dell'America ha intensificato il commercio tra Europa Asia e Africa. L'Europa al centro del commercio mondiale. Il commercio interno favorisce quello estero. La religione cristiana si oppone all'assolutismo e contribuisce alla felicità terrena al contrario di quella maomettana.
Secondo Montesquieu l'Europa sarebbe il fulcro del commercio internazionale; questo perché grazie alla scoperta dell'America l'Europa è riuscita ad emergere sugli altri mercati. Infatti l'America ha fornito all'Europa merce necessaria al suo commercio con l'Asia, come l'argento, materiale molto usato per gli scambi di mercato. Oltre all'America anche l'Africa ha contribuito molto al potenziamento dell'Europa, infatti dall'Africa arrivano gli schiavi da far lavorare nelle miniere e nelle piantagioni dell'America. Questa potenza dell'Europa si nota soprattutto dall'immensità delle spese (anche certe volte inutili) che venivano affrontate in questo arco della storia. Su questo fatto però non era d'accordo il padre Duhalde che affermava invece la supremazia dell'Asia sull'Europa. A questa provocazione Montesquieu risponde dicendo che questo fatto potrebbe essere anche vero solo se il commercio estero dell'Europa non facesse aumentare anche quello interno. Inoltre Montesquieu per concludere dice che l'Europa svolge anche il commercio ed i traffici marittimi delle altre tre parti del mondo. Con questo discorso Montesquieu fa affiorare notevolmente la potenza dell'Europa e soffoca così le inutili proteste fatte dal padre Duhalde. In questo brano inoltre Montesquieu parla anche della religione cristiana che secondo lui è molto lontana dal concetto di dispotismo, essendo una religione mite. Seguendo questa religione i principi sono più uniti al loro popolo e di conseguenza più uomini e disposti ad avvalersi delle leggi, a differenza di un principe maomettano che incute timore al proprio popolo.
Al contrario nella religione cristiana esistono principi che contano sul loro popolo e vengono ammirati e stimati da esso. Con questo discorso Montesquieu fa notare che la religione cristiana, preoccupandosi della felicità nell'altra vita, contribuisce a rendere migliore anche la vita terrena. "Spirito delle leggi" di Montesquieu. Il risultato della scoperta dell'America fu di legare all'Europa l'Asia e l'Africa. L'America fornì all'Europa la merce necessaria per il suo commercio con quella gran parte dell'Asia che si suole chiamare le Indie orientali. L'argento questo metallo così utile al commercio sotto forma di moneta, fu inoltre la base, come merce di scambio, del commercio più grande dell'universo. Infine i traffici marittimi con l'Africa divennero necessari, perché essa forniva uomini per il lavoro nelle miniere e nei campi dell'America. L'Europa ha raggiunto un grado così elevato di potenza da non trovar riscontro nella storia, se si considerano l'immensità delle spese, la grandezza degli impegni, il numero delle truppe e la continuità del loro mantenimento, anche quando sono del tutto inutili e non sono altro che oggetto di ostentazione. Il padre Duhalde afferma che il commercio interno della Cina è maggiore di quello di tutta l'Europa. Ciò potrebbe anche darsi se il nostro commercio estero non facesse aumentare il volume di quello interno. L'Europa svolge il commercio e i traffici marittimi delle altre tre parti del mondo, come la Francia, l'Inghilterra e l'Olanda svolgono quasi tutto il commercio e la navigazione dell'Europa. La religione cristiana è ben lungi dal puro dispotismo poiché, essendo la mitezza totalmente raccomandata nel Vangelo, essa si oppone al furore dispotico con il quale il principe si farebbe giustizia ed eserciterebbe le sue crudeltà. Poiché questa religione proibisce la pluralità delle mogli, i principi sono meno chiusi, meno separati dai loro sudditi, e di conseguenza più uomini; sono più disposti a darsi delle leggi e più inclini ad accorgersi che non possono tutto.
Mentre i principi maomettani danno continuamente la morte e la ricevono, la religione, presso i cristiani, rende i principi meno timorosi, e di conseguenza meno crudeli. Il principe conta sui suoi sudditi, ed i sudditi sul principe. Cosa ammirevole! La religione cristiana, che sembra non avere altro scopo che la felicità nell'altra vita, contribuisce a procurarcela anche in questa.
Il brigantaggio dal 1815 al 1861
Dopo un breve periodo di relativa calma che coincise con il ritorno sul trono di Napoli dei Borboni, il brigantaggio, divenuto oramai un male endemico, riesplose più forte che mai nelle nostre contrade. Per la verità gli episodi criminali non erano mai del tutto cessati e bande di taglia gole continuavano a scorrazzare per la zona devastando e saccheggiando anche subito dopo il 1815, ma fu dopo il 1820 che il “brigantaggio politico”, come insofferenza al regime borbonico, prese di nuovo ad intrecciarsi con le ordinarie vicende di criminalità comune. La notte del 18 febbraio del 1827 Giuseppe Meluso, detto il Nivaro, assieme ad altri suoi compagni, ingaggiò un conflitto a fuoco con la Guardia urbana di Caccuri. A circa un anno di distanza, il 6 luglio del 1826, assieme al compaesano Ignazio Foglia e a Tommaso Grande di Casino (l’attuale Castelsilano) attaccò la Guardia urbana di quest’ultimo paesino. Il processo per questi fatti si celebrò il 5 dicembre del 1834 e si chiuse con la condanna del Meluso che, però, riuscì a rifugiarsi a Corfù dove si nascose facendosi chiamare Battistino Belcastro. Da lì tornerà in Calabria al seguito dei Bandiera e riuscirà a sfuggire anche all’agguato della Stragola. Nel 1842 la Guardia urbana di Cerenzia, coadiuvata dai guardiani del barone Barracco, sgominò la banda del brigante Panazzo di Casabona che, da anni, imperversava nella zona ed aveva come base operativa una piccola valle in territorio di Caccuri che, ancora oggi, porta il suo nome.
Il 1844 fu l’anno della spedizione dei Bandiera alla quale il Meluso era stato aggregato per la perfetta conoscenza dei luoghi. Nel 1847 si celebrò il processo contro il caccurese Francesco Saverio Segreto che, insieme ad un gruppo di altri briganti, aveva tentato di assassinare il gendarme reale Bartolomeo Bucchianico e la guardia urbana caccurese Vincenzo Cosenza nel corso di un agguato teso loro in località Tenimento. L’anno dopo vennero catturati tre noti briganti caccuresi: Vincenzo Miliè, Filippo Pellegrini e Andrea Lacaria. Qualche anno dopo si realizzò l’Unità d’Italia ed il brigantaggio politico cambiò ancora una volta bersaglio.
Il 1844 fu l’anno della spedizione dei Bandiera alla quale il Meluso era stato aggregato per la perfetta conoscenza dei luoghi. Nel 1847 si celebrò il processo contro il caccurese Francesco Saverio Segreto che, insieme ad un gruppo di altri briganti, aveva tentato di assassinare il gendarme reale Bartolomeo Bucchianico e la guardia urbana caccurese Vincenzo Cosenza nel corso di un agguato teso loro in località Tenimento. L’anno dopo vennero catturati tre noti briganti caccuresi: Vincenzo Miliè, Filippo Pellegrini e Andrea Lacaria. Qualche anno dopo si realizzò l’Unità d’Italia ed il brigantaggio politico cambiò ancora una volta bersaglio.
lunedì 10 ottobre 2011
Sfortunati amori della Raimondi
Sul finire del 1859 un tenente della Cavalleria piemontese di stanza a Vigevano galoppava nella notte per raggiungere la sua amata nella villa avita di Fino Mornasco: si chiamava Luigi Caroli, detto Gigio e la sua fidanzata di un tempo, Giuseppina Raimondi, era ormai promessa sposa a Giuseppe Garibaldi. Il giovane soldato si vide perduto. Dopo lo sfortunato matrimonio celebrato nella villa di Fino, quando Giuseppina venne ripudiata dall’Eroe dei Due Mondi, la giovane scappò dalla casa paterna, forse alla Pazzea. Rintracciata dal padre Giorgio Raimondi, Giuseppina fu mandata a Villa Olmo, una delle dimore principesche della famiglia. Raggiunta dal tenente in questa dimora, le fonti storiche narrano del racconto fatto da Giuseppina al suo vecchio fidanzato del suo stato di donna incinta. Da lì, a metà del mese di febbraio, Giuseppina e Gigio si stabilirono in Svizzera, a Friburgo, dove rimasero fino al luglio del 1860.Infine si separarono definitivamente. Il tenentino tornò a fare il soldato, la giovane in Italia per partorire. Ma chi era questo Caroli? Nato nel 1834, era rampollo di una famiglia bergamasca che aveva fatto fortuna con il commercio delle gallette del baco da seta. Possedeva una villa a Stezzano, nella campagna bergamasca e un palazzo in città nel rione di Sant’Orsola. Possidente terriero, di educazione borghese, aveva 25 anni al momento dell’incontro con Giuseppina. Con alle spalle una discreta cultura; avendo viaggiato per l’Europa, parlava francese e tedesco. Si era distinto nella campagna del 1859 e moriva dalla voglia di raggiungere Garibaldi nella campagna del Sud: ma il generale, di accoglierlo tra le sue fila, proprio non ne volle sapere. Per tutta risposta Caroli, annoiato ormai dal ménage con la Raimondi partì alla volta di Berlino. Giuseppina, invece, raggiunse la villa di Gironico, dove alla fine di agosto diede alla luce un figlio già morto.
L’occasione del riscatto fu data al Caroli dalla guerra per l’indipendenza della Polonia, che era stata spartita tra Austria, Russia e Prussia. Fu rinchiuso in una baracca a Kadaya al confine con la Manciuria: ammalatosi gravemente, fu vegliato dal compagno di sventura Emilio Andreoli fino alla morte, che lo colse l’8 giugno del 1865, nel fiore dei trent’anni: e in quel luogo sopra un colle venne sepolto il giorno stesso.
L’occasione del riscatto fu data al Caroli dalla guerra per l’indipendenza della Polonia, che era stata spartita tra Austria, Russia e Prussia. Fu rinchiuso in una baracca a Kadaya al confine con la Manciuria: ammalatosi gravemente, fu vegliato dal compagno di sventura Emilio Andreoli fino alla morte, che lo colse l’8 giugno del 1865, nel fiore dei trent’anni: e in quel luogo sopra un colle venne sepolto il giorno stesso.
domenica 9 ottobre 2011
Il Brigante Franceschiello
L’illustrazione riproduce la caricatura di Francesco II di Borbone, ex re di Napoli travestito da brigante. In questo modo l’infame propaganda del Nord cercava di far apparire il sovrano borbonico.
A tal proposito, voglio fare una mia considerazione: gli austriaci scacciati dall’Italia e vinti in diverse battaglia dai cosiddetti “Cacciatori delle Alpi”, nutrono un grande odio verso Garibaldi e quindi è logico che l’abbiano chiamato “Il Brigante Garibaldi”.
Facendo adesso il confronto con la caricatura di Francesco II, è logico che i suoi nemici piemontesi lo abbiano definito “Il Brigante Franceschiello”. Il vincitore cerca sempre di denigrare il vinto, con tutti i mezzi leciti e illeciti possibili. I piemontesi devono ringraziare il Signore che Ferdinando II sia morto nel 1859, altrimenti, forse …-
“A’ bon entendeur salut!”
Il brigante Caprariello di Nola
Il brigante Caprariello di Nola torturato, ucciso e tenuto per i capelli da un bersagliere per reclamare la taglia, ma anche come esibizione di un trofeo di guerra, monito per le future generazioni. Queste macabre esecuzioni su gente innocente del Sud avvenivano di continuo.
Scontro tra briganti e piemontesi
Briganti (in realtà meridionali fedeli al re Borbone) sorpresi dalle forze di repressione piemontesi e trucidati senza pietà.
Scontro a Monticelli tra piemontesi e briganti
Venivano definiti briganti, ma in realtà erano civili inermi senza alcuna colpa o eroi della resistenza borbonica che cercavano di difendere le loro terre e le loro famiglie dai soprusi e dalle sevizie delle truppe piemontesi.
A Gaeta Cialdini sperimentò la prima guerra batteriologica moderna infettando l’acquedotto di Monte Conca con carcasse di animali morti e provocando quella tremenda epidemia di tifo petecchiale che forse fu la vera causa che indusse il giovanissimo re Francesco II a porre fine all’assedio. La medesima tattica fu adottata durante la rivolta siciliana del 1866, per costringere alla resa quella Palermo che aveva osato ribellarsi alla nuova Italia.
Hanno scritto:
“Finiamola di definirci i “buoni” d’Europa, e nessuno dei nostri fratelli del Nord venga a lamentarsi delle stragi naziste. Le SS del 1860 e degli anni successivi si chiamarono, almeno per gli abitanti dell’ex Regno delle Due Sicilie, Piemontesi. Perciò smettiamo di sbarrare gli occhi, di spalancare all’urlo le bocche, a deprecare violenze altrui in questo e in altri continenti. Ci bastano le nostre, per sentire un solo briciolo di pudore. Noi abbiamo saputo fare di più e di peggio.” L’antica Fortezza di Fenestrelle, un autentico inferno per gli internati meridionali sottoposti ad una sconosciuta rigidità del clima, costretti in luoghi angusti, bui e alle torture sistematiche delle guardie carcerarie. Le sofferenze e le agonie di quelli rimasti fedeli al Regno delle Due Sicilie furono inaudite: deportati in massa peggio delle bestie, seviziati, massacrati e murati vivi. Tutto avveniva in un assurdo e incomprensibile silenzio che si vorrebbe far durare tutt’ora.
“Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col nome di briganti.”
A tal proposito, voglio fare una mia considerazione: gli austriaci scacciati dall’Italia e vinti in diverse battaglia dai cosiddetti “Cacciatori delle Alpi”, nutrono un grande odio verso Garibaldi e quindi è logico che l’abbiano chiamato “Il Brigante Garibaldi”.
Facendo adesso il confronto con la caricatura di Francesco II, è logico che i suoi nemici piemontesi lo abbiano definito “Il Brigante Franceschiello”. Il vincitore cerca sempre di denigrare il vinto, con tutti i mezzi leciti e illeciti possibili. I piemontesi devono ringraziare il Signore che Ferdinando II sia morto nel 1859, altrimenti, forse …-
“A’ bon entendeur salut!”
Il brigante Caprariello di Nola
Il brigante Caprariello di Nola torturato, ucciso e tenuto per i capelli da un bersagliere per reclamare la taglia, ma anche come esibizione di un trofeo di guerra, monito per le future generazioni. Queste macabre esecuzioni su gente innocente del Sud avvenivano di continuo.
Scontro tra briganti e piemontesi
Briganti (in realtà meridionali fedeli al re Borbone) sorpresi dalle forze di repressione piemontesi e trucidati senza pietà.
Scontro a Monticelli tra piemontesi e briganti
Venivano definiti briganti, ma in realtà erano civili inermi senza alcuna colpa o eroi della resistenza borbonica che cercavano di difendere le loro terre e le loro famiglie dai soprusi e dalle sevizie delle truppe piemontesi.
A Gaeta Cialdini sperimentò la prima guerra batteriologica moderna infettando l’acquedotto di Monte Conca con carcasse di animali morti e provocando quella tremenda epidemia di tifo petecchiale che forse fu la vera causa che indusse il giovanissimo re Francesco II a porre fine all’assedio. La medesima tattica fu adottata durante la rivolta siciliana del 1866, per costringere alla resa quella Palermo che aveva osato ribellarsi alla nuova Italia.
Hanno scritto:
“Finiamola di definirci i “buoni” d’Europa, e nessuno dei nostri fratelli del Nord venga a lamentarsi delle stragi naziste. Le SS del 1860 e degli anni successivi si chiamarono, almeno per gli abitanti dell’ex Regno delle Due Sicilie, Piemontesi. Perciò smettiamo di sbarrare gli occhi, di spalancare all’urlo le bocche, a deprecare violenze altrui in questo e in altri continenti. Ci bastano le nostre, per sentire un solo briciolo di pudore. Noi abbiamo saputo fare di più e di peggio.” L’antica Fortezza di Fenestrelle, un autentico inferno per gli internati meridionali sottoposti ad una sconosciuta rigidità del clima, costretti in luoghi angusti, bui e alle torture sistematiche delle guardie carcerarie. Le sofferenze e le agonie di quelli rimasti fedeli al Regno delle Due Sicilie furono inaudite: deportati in massa peggio delle bestie, seviziati, massacrati e murati vivi. Tutto avveniva in un assurdo e incomprensibile silenzio che si vorrebbe far durare tutt’ora.
“Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col nome di briganti.”
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