Il 27 maggio 1860 i Mille di Garibaldi entrarono a Palermo. È una cosa che sanno tutti. E che non sa nessuno. Un'immagine incisa nella nostra testa, ma incisa già sbiadita. Chi erano davvero questi "mille"? Da dove venivano, che mestiere facevano, che faccia avevano, che età? E che vuol dire che "entrarono" a Palermo? Da dove, come?Sono passati centocinquant'anni esatti da quella che venne definita "la Rivoluzione palermitana" durante i quali regimi ideologie e mode ne hanno fatto un uso strumentale o hanno cercato di dimenticarla. Noi vogliamo provare a rimuovere la spessa patina di retorica che ha incrostato per tanto tempo l'impresa dei Mille.Lo faremo con un'installazione che sarà un prologo alla mostra "900 - Un viaggio nella vita siciliana" che stiamo allestendo all' Albergo delle Povere di Corso Calatafimi a Palermo. L'installazione si comporrà di due postazioni: una che "umanizzi" questi mille e ottantanove volontari (l'esercito più colto e meno guerresco che ci sia mai stato), l'altra che, come una macchina del tempo, ci proietti nelle strade palermitane di quel maggio 1860, ingombre di barricate, tra i muri crollati e cannoni.E lo faremo grazie all'esistenza di due eccezionali reperti: un album di foto e una collezione di stereoscopie.A due anni dalla "storica impresa" un fotografo genovese di simpatie garibaldine, Alessandro Pavia, si mise in testa una strana idea. Decise di rintracciarne i partecipanti lungo la penisola, di fotografarli tutti e raccogliere i ritratti in un "Album dei Mille" che mise infine in vendita alla (per l'epoca) stratosferica cifra di 460 lire. Pavia non diventò ricco: solo in pochi lo comprarono e l'operazione si rivelò fallimentare, ma questo corpus fotografico costituì poi la base documentale per i tanti monumenti e busti commemorativi sparsi per l'Italia. Delle poche copie che ne son rimaste, tre sono conservate al Museo del Risorgimento di Roma e una all'Archivio Storico Comunale di Palermo e così, oggi, possiamo guardare ancora in faccia quegli uomini e scorgere in quei volti la loro storia e il loro destino.«Dopo averlo fatto girare su se stesso e annaspare con le braccia all'aria, lo stesero morto quasi addosso al bergamasco Gaspare Tibelli, caduto tra i primi colpito da una palla in fronte». Luigi era scappato di casa ed era partito nascondendosi sul treno a Milano, mentre Nullo e Francesco Cucchi scartavano malati e ragazzi. Era bergamasco: Luigi Adolfo Biffi, nato a Caprino, morto a Calatafimi prima di fare sedici anni per tre palle al ventre sparate dai Cacciatori borbonici.E' difficile immaginare un'armata più brancaleonica. Parecchi arrivarono senza nemmeno fucile. A Garibaldi servivano volontari, e non un esercito regolare, per favorire una sollevazione popolare in Sicilia: del resto i siciliani che presero parte alle spedizione erano più di quaranta, un bel drappello, più degli emiliani e dei piemontesi. Il grosso erano lombardi, veneti, i liguri (coi poveri nizzardi, poi traslocati alla Francia), in tutto quasi ottocento. Arrivarono, dunque, senza schioppo, coi vestiti delle professioni: diurnisti, barcaioli, maggiori in aspettativa, possidenti, braccianti, sensali, scrivani, avvocati, scultori, droghieri, capistazione, chincaglieri, filarmonici, barbieri, trafficanti, cocchieri... Fra di loro non si capivano, perché il maestro Manzi non era nato e si parlava il dialetto. Erano figli di giacobini, appassionati della Giovine Italia, fedeli al ricordo di Gioacchino Murat, socialisti, romantici, mezzi matti. Il più giovane volontario era Giuseppe Marchetti, di Chioggia, che aveva 10 anni e 8 mesi e salpò per la Sicilia trascinatovi dal babbo Luigi, non si sa se per necessità o per ansia di gloria familiare. «Fortunato fanciullo cui toccava nella vita un mattino così bello!», scrisse Giuseppe Cesare Abba. Il più vecchio era genovese, si chiamava Tommaso Parodi, maggiore di piazza, classe 1791. Aveva fatto la guerra con Napoleone.Giuseppe Guerzoni, segretario di Garibaldi, scrisse che tra di loro c'era «il patriota sfuggito per prodigio alle forche austriache e alle galere borboniche, il siciliano in cerca della patria, il poeta in cerca d'un romanzo, l'innamorato in cerca dell'oblio, il notaio in cerca di un'emozione, il miserabile in cerca d'un pane, l'infelice in cerca della morte». C'era un sacerdote calabrese, don Ferdinando Bianchi. C'era Francesco Crispi, futuro presidente del Consiglio. C'era anche una donna, proprio la moglie di Crispi, Rosalia Montmasson, che aveva trentacinque anni e si travestì da uomo. E c'erano quattro Garibaldi, il generale, naturalmente, suo figlio Menotti, e due omonimi di cui si sa che erano genovesi e uno morì in Sicilia. A casa ne tornò poco più della metà, e poi la propaganda ne ha fatto un gran sciupio, con la ridicola retorica risorgimentale fascista e coi suoi versi pomposi, e successivamente con l'oblio repubblicano o col dileggio leghista. Ma è difficile non subire un moto d'affetto a leggere di Celestino Riva, calzolaio di Pontida amputato d'un braccio.
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