mercoledì 30 novembre 2011
LE VACANZE DI GARIBALDI A CIVITAVECCHIA
Giuseppe Garibaldi, dopo l’unità d’Italia, amava trascorrere le vacanze estive a Civitavecchia. Uno dei suoi stabilimenti balneari preferiti era il "Bruzzesi", realizzato su un isolotto da Giuseppe, zio del colonnello garibaldino Giacinto Bruzzesi, originario di Cerveteri. L’Eroe dei Due Mondi vi sostava volentieri, infervorandosi anche in qualche conversazione politica. Nel 1879, tormentato dai reumatismi, vi cercò un sollievo nelle sabbiature. Al "Bruzzesi" Clelia, la figlia che Garibaldi aveva avuto da Francesca Armosino, imparò a nuotare, dando anche prova di coraggio nel salvare un giovinetto come lei, in procinto di annegare.Alla fine dell’Ottocento, lo stabilimento cambiò proprietario e assunse il nome di Pirgo, che evocava le origini etrusche della zona. Vi fu persino realizzato un elegante teatro. Continuò ad attirare una clientela ricca e selezionata, fino alla seconda guerra mondiale, poi la vita dello stabilimento proseguì in tono minore. Negli anni ’60 si ebbe l’abbandono e nel 1995, per motivi di sicurezza, furono abbattute lo poche strutture ancora in piedi.
L'esercito borbonico e la fine del regno
L'esercito borbonico nei suoi 127 anni di vita ebbe sempre una doppia anima. Rimase un esercito "uno di nome, doppio di fatto" come scriveva il De Sivo, separato in due fazioni da ideologie diverse, opportunismi e contrasti. Nel 1798 si divise tra ufficiali rimasti devoti ai Borboni e ufficiali giacobini e, subito dopo, si ebbero contrasti tra quelli che avevano seguito il re nell'esilio siciliano e i capi sanfedisti inseriti nell'esercito come Michele Pezza detto Frà Diavolo ex soldato semplice nominato colonnello. Nel novennio napoleonico molti servirono prima Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat re di Napoli, altri seguirono Ferdinando IV in Sicilia. Nel 1820 i moti carbonari generarono una nuova divisione fra borbonici e carbonari, nel 1848 fra i leali al re e quelli, in numero limitato, che continuarono a partecipare alla guerra agli Austriaci anche dopo l'ordine reale di tornare in patria e, ancora nel 1860, tra i pochi rimasti fedeli al prestato giuramento al re e i molti che lo abbandonarono per viltà, opportunismo o adesione alla nuova Italia.Quando Ferdinando IV ritornò a Napoli dopo il secondo e lungo esilio siciliano, pesantemente esortato a non ripetere le stragi del 1799, fece stipulare a Capua il 20 maggio 1815 il trattato di Casalanza (dalla famiglia dei baroni Lanza, nobili capuani, proprietari della casa ove venne firmato il documento), col quale si confermarono nel grado gli ufficiali che avevano combattuto per Murat, mentre ai reduci dalla Sicilia, detti "fedelini", fu concessa una medaglia di fedeltà. Tra gli ufficiali murattiani spiccò per il suo valore Carlo Filangieri il quale il 4 aprile 1815 nella battaglia sul Panaro condusse i soldati napoletani all'attacco degli austriaci trincerati intorno al Ponte di Sant'Ambrogio e fu lasciato per morto sul terreno con sette otto palle in corpo. Miracolosamente ripresosi fu dai suoi concittadini solennemente chiamato 'o principe do Panar' che in dialetto sta anche per sedere.Immancabili furono contrasti e gelosie fra le due parti; i murattiani, che avevano mostrato il loro valore a Bautzen e a Danzica, superiori per capacità tecniche, spesso costretti a servire sotto gli ordini di ufficiali "siciliani", mostravano tutta la loro insofferenza. Dopo il fallimento del governo costituzionale l'inossidabile Ferdinando IV, che aveva assunto il nome di Ferdinando I, scampato ai francesi, ai giacobini e ai carbonari e sopravvissuto alle "attenzioni" degli alleati inglesi, turchi, portoghesi, russi e austriaci, sciolse l'esercito, al quale con un proclama del primo luglio 1821 addebitò che "L'Armata è principalmente colpevole di tanti mali; ... mancando di tutte le condizioni necessarie all'esistenza di un'armata, abbiamo co' fatti dovuto riconoscere che essa più non esisteva". Ritenne allora necessario "Il ben essere dei nostri Stati reclama però l'appoggio di una forza protettrice; Noi siamo stati obbligati a sollecitarla da' Sovrani nostri alleati; essi l'hanno messa a nostra disposizione; ..." e sollecitò l'imperatore asburgico a far presidiare da truppe austriache il regno. I reparti, al comando del generale Nugent, vi rimasero fino al 1827, con un ingentissimo esborso per il loro mantenimento. Tutti gli ufficiali e i soldati furono sottoposti a procedimento per accertare il loro comportamento nel periodo costituzionale ed espulsi se ritenuti non fedeli al sovrano. Dalla "purga" furono escluse la Guardia Reale che, ironia della sorte, non avrebbe dato nessun contributo alle forze borboniche durante la battaglia del Volturno del 1860, rifiutandosi di muoversi e la Guardia d'interna sicurezza della città di Napoli sia a piedi che a cavallo.
lunedì 28 novembre 2011
Nuova Stazione Tiburtina Dedicata A Camillo Benso Di Cavour
Dopo circa 3 anni di lavori, è stata inaugurata dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la nuova Stazione Tiburtina.
Durante la cerimonia è stata scoperta una stele, alta 20 metri e del peso di 13 tonnellate, dedicata a Cavour e al suo discorso per Roma Capitale. Il Presidente Napolitano ha voluto rendere omaggio anche ai ferrovieri italiani, ricordandoli come “pilastri storici del mondo del lavoro nel nostro paese”.
Tra le molte autorità presenti all'inaugurazione, il ministro dello Sviluppo economico e dei Trasporti, Corrado Passera, l'Ad di Fs, Mauro Moretti, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, e quello della Provincia, Nicola Zingaretti.
I reggimenti svizzeri
La ricostituzione dell'esercito fu estremamente lenta anche per l'abolizione della coscrizione obbligatoria, ripristinata nel 1823, e per maggior sicurezza del sovrano furono arruolati quattro reggimenti di mercenari svizzeri. Il 3 luglio 1823 fu stipulato il primo di una serie di "capitolazioni" con il cantone di Lucerna per il primo reggimento e successivamente con i cantoni di Uri, Ticino, Unterwalden, Appenzell, Friburgo e Soleure per gli altri tre. "Le capitolazioni militari dei Reggimenti svizzeri al servizio di Sua Maestà il Re del Regno delle Due Sicilie" avevano una durata di trenta anni e potevano essere rinnovate 18 mesi prima della scadenza. Ogni reggimento, che prendeva il nome del suo comandante, aveva una forza di 1.451 uomini divisi in sei battaglioni, su quattro compagnie fucilieri, una di granatieri e una di cacciatori supportati da un reparto di artiglieria. Le compagnie fucilieri erano dette "cantonali", le altre "scelte". Ogni reggimento doveva avere 480 soldati non svizzeri, con esclusione dei sudditi austriaci e degli stati italiani. La ferma era di quattro o sei anni. Tutti i reggimenti svizzeri presidiavano Napoli. Il primo era accasermato al castello del Carmine, il secondo a San Giovanni a Carbonara, il terzo a San Domenico Soriano e a San Potito e il quarto ai SS. Apostoli. Di questi reparti l'ambasciatore britannico a Napoli scriveva "Le uniche truppe sulle quali ci sia da fare affidamento sono quelle svizzere". Il Montecuccoli nel suo Trattato della guerra poteva sostenere "un esercito composto da diverse nazioni è utile per l'emulazione e per le diverse attitudini", ma restava un senso di acuto disagio nella parte migliore del paese.
I reggimenti svizzeri rappresentarono il migliore sostegno per il re, il ricordo della strenua resistenza e del massacro della guardia svizzera di Luigi XVI il 10 agosto 1792 nei giardini delle Tuileries ad opera della plebe parigina non era lontano ed essi mostrarono la loro fedeltà e il loro valore reprimendo in sette ore i moti del 1848 a Napoli. Il quindici maggio si fronteggiavano reparti militari ed estremisti rivoluzionari che avevano eretto una serie di barricate a Toledo, tra via Pignasecca e piazza Carità, a Chiaia, all'Infrascata, a Monteoliveto, a Santa Teresa, a Castel Capuano, a Santa Brigida e a San Carlo davanti ai giardini reali. Nella mattinata il re convocò il sindaco e lo invitò a farle rimuovere ma i rivoltosi si rifiutarono. Improvvisamente da quella di via Toledo partirono colpi di fucile che ferirono due soldati in piazza San Ferdinando, le truppe risposero, il fuoco si estese a tutte le barricate. I reggimenti svizzeri provenienti da San Ferdinando attaccarono e sfondarono le barricate erette in via Toledo e in via Santa Brigida, avanzarono flagellati dal fuoco delle vicine case, presero d'assalto il palazzo Cirella e, imbestialiti per le gravissime perdite subite, trucidarono tutti coloro che si trovarono di fronte. Il quarto reggimento ebbe un centinaio tra morti e feriti, il terzo reggimento una cinquantina. Particolarmente gravi furono le perdite tra gli ufficiali: il capitano de Muralt colpito a una mano perse tre dita, continuò ad avanzare, ferito alla scapola non si fermò fino a quando fu freddato con una palla in testa mentre scavalcava una barricata. Il capitano Sturler del primo reggimento capeggiava il suo reparto che procedeva in via Toledo rasente i muri quando si sentì chiamare da una voce femminile "Capitano Sturler! Capitano Sturler!". Fermatosi alzò il volto a una casa di fronte e venne centrato da una palla in fronte.I soldati elvetici costituivano con le loro marsine rosse, pantaloni e cappotto azzurri una colorita componente della variopinta vita cittadina. Venivano chiamati dai napoletani "Titò" che nasceva dalla espressione con i quali i soldati li interpellavano "Dis donc" [dimmi, orsù]. Particolarmente stimati dal re godevano di vitto e trattamento economico migliori dei reparti napoletani con i quali non correva buon sangue. Nel 1835 un colonnello napoletano di fanteria percepiva 1.704 ducati all'anno, un parigrado svizzero 2.857, i capitani rispettivamente 600 e 1.036, i secondi tenenti 312 e 540. Le differenze si estendevano anche ai soprassoldi. Di fronte alle loro possibilità economiche era uso a Napoli dire per un acquisto non particolarmente costoso "E' svizzere se ne vevono annice". Dopo i moti costituzionali del 1848 la Confederazione svizzera, anche sull'onda delle proteste dei circoli liberali europei, non continuò negli arruolamenti affidati a privati e alla scadenza le "convenzioni" non vennero rinnovate. Il re si accordò personalmente con i comandanti dei reggimenti, ma nel 1859 il governo svizzero dispose che tutti gli svizzeri che militavano sotto le bandiere di altri Stati perdessero temporaneamente la cittadinanza e proibì l'uso degli emblemi cantonali sulle bandiere.
Una rivolta scoppiò il 7 luglio nella caserma del Carmine dove erano acquartierate quattro compagnie del terzo reggimento. I soldati, che chiedevano la conservazione del nome di truppe svizzere, delle insegne dei cantoni e della croce federale sulle bandiere lamentando la perdita dei loro privilegi, ribellatisi ai loro superiori si diressero a San Carlo all'Arena e poi a San Potito dove si trovavano altri reparti, si impossessarono della bandiera del quarto reggimento dopo una violenta colluttazione che causò un morto e arrivarono alla Reggia di Capodimonte per esporre al re le loro ragioni. Invitati a recarsi al Campodi Marte di Capodichino per avere una risposta furono circondati da truppe napoletane agli ordini del generale Nunziante e, dopo un violento scontro con morti, rientrarono in massima parte in Svizzera. Solo una esigua minoranza si arruolò nei Cacciatori Carabinieri del colonnello von Mechel. Venne così meno uno dei puntelli della monarchia.
I reggimenti svizzeri rappresentarono il migliore sostegno per il re, il ricordo della strenua resistenza e del massacro della guardia svizzera di Luigi XVI il 10 agosto 1792 nei giardini delle Tuileries ad opera della plebe parigina non era lontano ed essi mostrarono la loro fedeltà e il loro valore reprimendo in sette ore i moti del 1848 a Napoli. Il quindici maggio si fronteggiavano reparti militari ed estremisti rivoluzionari che avevano eretto una serie di barricate a Toledo, tra via Pignasecca e piazza Carità, a Chiaia, all'Infrascata, a Monteoliveto, a Santa Teresa, a Castel Capuano, a Santa Brigida e a San Carlo davanti ai giardini reali. Nella mattinata il re convocò il sindaco e lo invitò a farle rimuovere ma i rivoltosi si rifiutarono. Improvvisamente da quella di via Toledo partirono colpi di fucile che ferirono due soldati in piazza San Ferdinando, le truppe risposero, il fuoco si estese a tutte le barricate. I reggimenti svizzeri provenienti da San Ferdinando attaccarono e sfondarono le barricate erette in via Toledo e in via Santa Brigida, avanzarono flagellati dal fuoco delle vicine case, presero d'assalto il palazzo Cirella e, imbestialiti per le gravissime perdite subite, trucidarono tutti coloro che si trovarono di fronte. Il quarto reggimento ebbe un centinaio tra morti e feriti, il terzo reggimento una cinquantina. Particolarmente gravi furono le perdite tra gli ufficiali: il capitano de Muralt colpito a una mano perse tre dita, continuò ad avanzare, ferito alla scapola non si fermò fino a quando fu freddato con una palla in testa mentre scavalcava una barricata. Il capitano Sturler del primo reggimento capeggiava il suo reparto che procedeva in via Toledo rasente i muri quando si sentì chiamare da una voce femminile "Capitano Sturler! Capitano Sturler!". Fermatosi alzò il volto a una casa di fronte e venne centrato da una palla in fronte.I soldati elvetici costituivano con le loro marsine rosse, pantaloni e cappotto azzurri una colorita componente della variopinta vita cittadina. Venivano chiamati dai napoletani "Titò" che nasceva dalla espressione con i quali i soldati li interpellavano "Dis donc" [dimmi, orsù]. Particolarmente stimati dal re godevano di vitto e trattamento economico migliori dei reparti napoletani con i quali non correva buon sangue. Nel 1835 un colonnello napoletano di fanteria percepiva 1.704 ducati all'anno, un parigrado svizzero 2.857, i capitani rispettivamente 600 e 1.036, i secondi tenenti 312 e 540. Le differenze si estendevano anche ai soprassoldi. Di fronte alle loro possibilità economiche era uso a Napoli dire per un acquisto non particolarmente costoso "E' svizzere se ne vevono annice". Dopo i moti costituzionali del 1848 la Confederazione svizzera, anche sull'onda delle proteste dei circoli liberali europei, non continuò negli arruolamenti affidati a privati e alla scadenza le "convenzioni" non vennero rinnovate. Il re si accordò personalmente con i comandanti dei reggimenti, ma nel 1859 il governo svizzero dispose che tutti gli svizzeri che militavano sotto le bandiere di altri Stati perdessero temporaneamente la cittadinanza e proibì l'uso degli emblemi cantonali sulle bandiere.
Una rivolta scoppiò il 7 luglio nella caserma del Carmine dove erano acquartierate quattro compagnie del terzo reggimento. I soldati, che chiedevano la conservazione del nome di truppe svizzere, delle insegne dei cantoni e della croce federale sulle bandiere lamentando la perdita dei loro privilegi, ribellatisi ai loro superiori si diressero a San Carlo all'Arena e poi a San Potito dove si trovavano altri reparti, si impossessarono della bandiera del quarto reggimento dopo una violenta colluttazione che causò un morto e arrivarono alla Reggia di Capodimonte per esporre al re le loro ragioni. Invitati a recarsi al Campodi Marte di Capodichino per avere una risposta furono circondati da truppe napoletane agli ordini del generale Nunziante e, dopo un violento scontro con morti, rientrarono in massima parte in Svizzera. Solo una esigua minoranza si arruolò nei Cacciatori Carabinieri del colonnello von Mechel. Venne così meno uno dei puntelli della monarchia.
domenica 27 novembre 2011
Ferdinando II
Ferdinando II fu un re migliore del padre e del nonno, dalla vita familiare irreprensibile, dedito al bene del popolo del quale si riteneva padre e padrone, grande lavoratore e grande accentratore. Riuscì a sottrarsi alla tutela austriaca e a iniziare e continuare in una politica di indipendenza e di neutralità. Giacinto De Sivo, sanguigno scrittore borbonico, autore della Storia del Regno delle Due Sicilie, settario, fazioso, reazionario ma legato da un amore viscerale alla sua patria, così lo descrive "A sé volse la somma delle cose alte e basse; e spese la vita a un lavorio immenso, cui uomo non bastava, e vi macerò i giorni suoi. Schiacciato da faccende e suppliche innumerevoli era, che ogni cosa doveva iniziarsi da esso; e seguendo la macchina dello Stato tal verso, l'ingegno v'avea poco a fare, sendo mestieri anzi di chi cieco ubbidisse, che di chi perspicace pensasse. Quindi molta forma, poco pensiero,". Benedetto Croce osservava che "l'ideale del re era un regno delle due Sicilie, nelle cui faccende nessun altro stato avesse da immischiarsi, un regno che non desse noia agli altri e non ne permettesse a sé". Proclamava Ferdinando "Io sarò re, solo e sempre! Il mio popolo non ha bisogno di pensare, io mi incarico della sua felicità!". Sosteneva di non avere ambizioni e che il regno era difeso dall'acqua santa nei confini terrestri e dall'acqua salata per quelli marittimi, mentre i Savoia, ambiziosi e risoluti, avevano un nemico, l'impero austroungarico e un campo di battaglia, la pianura padana.
Con Ferdinando II l'esercito acquistò una propria identità e fu oggetto di attente cure sin dal marzo 1827 quando, principe ereditario, ne era stato nominato comandante in capo con la carica di Capitano Generale. L'otto novembre 1830 nel suo primo proclama il nuovo re scriveva "... sperando che dal suo canto ci darà in tutte le occasione le pruove della sua inviolabile fedeltà e che non macchierà mai l'onore delle sue bandiere". La nuova legge per l'arruolamento prescriveva che le "reclute siano trattate con dolcezza ... e si usino verso di esse de' mezzi atti ad affezionarle al Real servizio, e non mai a far concepire loro una falsa idea della disciplina militare, la quale non permette abuso di autorità". I regolamenti disciplinari vennero mitigati anche se restavano le punizioni corporali e i "servizi ignobili in caserma", ossia la pulizia delle latrine. Le punizioni corporali venivano inflitte con una verga sulle spalle nude o con bastonate sul sedere. Con un decreto si stabilì che "tutti gli uffiziali da colonnello in giù, e tutti i sottuffiziali e soldati delle nostre reali truppe, a qualunque arma o corpo del reale esercito essi appartengano, porteranno indistintamente i mustacchi" e si confermò che le reclute "devono essere di religione cattolica, apostolica, romana". L'altezza minima dei soldati rimase quella di 5 piedi pari a metri 1,624. Vi fu una maggiore cura nell'addestramento, frequenti manovre a fuoco nelle quali il soldato sparava 50 colpi a salve, miglioramenti nell'armamento e addestramento a lunghe marce in colonne mobili alle quali erano obbligati a partecipare anche gli ufficiali di età avanzata, tanto che si disse "che a molti si apparecchiò la fossa".I battaglioni avevano un cappellano il quale giornalmente celebrava la santa messa, dirigeva la recita del rosario, provvedeva all'insegnamento del catechismo a sottufficiali e soldati. Sant'Ignazio di Loyola, fondatore dell'ordine dei Gesuiti, fu nominato maresciallo dell'esercito e il suo stipendio veniva versato alla casa professa dell'ordine. Gli ufficiali venivano formati nel Real Collegio della Nunziatella, i migliori venivano assegnati all'artiglieria e al genio, i sottufficiali nella Scuola militare di San Giovanni a Carbonara. Era il re che nominava i generali, mentre non esistevano limiti di età per il loro pensionamento, quasi sempre affidato alle leggi della natura. Le paghe erano modeste se rapportate a quelle degli altri eserciti della penisola, ma le divise erano estremamente sfarzose. Nel 1859 si imposero tutta una serie di economie, venne ridotta la razione di biada ai cavalli e si dispose che "gli ospedali serbassero le briciole cadenti da' tagliamenti del pane, onde non si comprasse il pane grattugiato". L'esercito era il cosiddetto esercito di caserma modellato su quello francese, con un nucleo di mercenari svizzeri e una grossa componente di soldati di professione con una ferma di otto anni, rinnovabile alla scadenza. Dalla leva, dalla quale erano esclusi i siciliani per antico privilegio, si ricavava con il sistema del sorteggio una aliquota estremamente ridotta in quanto molti elementi si prestavano al cambio dietro compenso o rinnovavano la ferma. In teoria gli effettivi ammontavano a 60.000 uomini in tempo di pace e 80.000 in tempo di guerra, mentre nell'esercito piemontese gli organici erano rispettivamente di 25.000 e 80.000. L'esercito si ripartiva in venti reggimenti di fanteria di cui tre della Guardia Reale, quattro Svizzeri e 13 di linea tutti su due battaglioni oltre a sette battaglioni di cacciatori. L'artiglieria era composta da otto batterie da campo e una a cavallo tutte su otto pezzi, la cavalleria aveva sette reggimenti, due di lancieri, tre di dragoni e due di ussari di 600 cavalli ciascuno. L'arma si era messa in luce nelle guerre napoleoniche tanto che l'imperatore in esilio a Sant'Elena ricordava ancora i Diavoli Bianchi cavalleggeri napoletani dai mantelli bianchi che nel 1796 gli si erano opposti nelle pianure padane. Era un esercito di soldati di professione, che dalla loro professione ricavavano il sostentamento, "spada ncoppo 'o culo, pane sicuro" era il motto ricorrente. L'armamento individuale non era inferiore a quello piemontese, a differenza dell'artiglieria.La stima per i "pennaruli" gli ufficiali dediti agli studi non era grande: Ferdinando e i suoi generali facevano proprio il motto del maresciallo francese Mac-Mahon che sosteneva, prima di arrendersi ai prussiani a Sedan, "Io cancello dai quadri di avanzamento ogni ufficiale di cui abbia letto il nome sulla copertina di un libro". Eppure molti furono gli studiosi che avevano militato nell'esercito napoletano. Giuseppe Palmieri, nobile pugliese della seconda metà del Settecento, ricordato da Benedetto Croce, fu autore di Riflessioni critiche sull'arte della guerra del quale si complimentò il grande Federico II di Prussia. Luigi Blanc scrisse Discorsi sulla scienza militare considerata nei suoi rapporti colle altre scienze e col sistema sociale, che interessò Napoleone III, Marmont e Iomini. Carlo Pisacane figlio cadetto del duca di San Giovanni, abbandonato l'esercito nel 1847 chiuse la sua vita a 38 anni a Sanza capitanando la disperata spedizione di Sapri. Apprezzato teorico della guerra scrisse con Saggi storici-politici-militari sull'Italia pubblicati postumi nel 1858 e nel 1860 la sua opera migliore. Niccola Marselli, transitato dall'esercito borbonico a quello italiano, i cui interessi spaziarono dalla musica all'architettura, da Tucidide a Erodoto, ricordato per l'interessante La guerra e la sua storia. Ad essi vanno uniti i fratelli Ulloa Calà Antonio e Girolamo che fondarono la prestigiosa Antologia Militare (1835-1846) della quale il maestro della storia militare in Italia Piero Pieri osservava "... rappresentò veramente il pensiero militare italiano in questo campo di studi, e fu tale da non impallidire, sotto certi aspetti, al confronto con le migliori riviste straniere" Girolamo lasciò vari scritti tra cui La guerra per l'indipendenza italiana nel 1848-1849. A titolo di curiosità va citato l'alfiere di fanteria Nicolò Abbondati per un un trattato di ginnastica, scritto nel 1842, definita l'arte dei ladri dai suoi superiori.Lo spessore culturale degli ufficiali borbonici era considerato superiore a quello dei piemontesi, anche se riservato agli ufficiali delle "armi dotte", artiglieria e genio. In massima parte provenivano dalla media e dalla piccola borghesia, su molti la propaganda liberale aveva buona presa. Solo una minoranza seguì Francesco II a Gaeta, gli altri entrarono nella quasi totalità nel Regio Esercito, nato dall' esercito piemontese, nel quale negli anni a venire altri contrasti sorsero e durarono sino alla fine del secolo. I piemontesi chiamavano i borbonici "napulitan" con ricercato disprezzo, i napoletani, con la verve che li caratterizzava, rispondevano con un non immeritato "cape e' lignamme". L'aristocrazia, a differenza di quella sabauda che compatta scendeva in campo col suo re, snobbava la carriera delle armi preoccupata solamente di difendere i suoi privilegi. Impenetrabili a ogni forma di propaganda restavano i soldati, quasi tutti analfabeti, legati al re garante delle loro condizioni di vita.Il generale francese Oudinot nel suo De l'Italie e de ses forces militaires scritto nel 1835 osservava: "L'esercito napoletano é istruito e molto bello. Le truppe che lo compongono sono oggetto di una sollecitudine attiva e illuminata da parte di un sovrano dotato di inclinazioni militari. Infine esso possiede in tutte le armi degli ufficiali di alto merito". A lui si univa negli elogi il il critico militare svizzero A. Le Masson. Aggiungeva Guglielmo Pepe nel 1848: "L'esercito napoletano era devoto al Re, il quale a forza di vivere in mezzo alle truppe era pervenuto a sapere il nome dei semplici soldati di cavalleria ... Il Re si occupava dei matrimoni degli ufficiali e dei bassi ufficiali e dava impieghi civili ai parenti di questi ultimi e ai parenti delle loro donne". Nel tempo le cose cambiarono. Nel febbraio 1860 il generale Pianell, una delle teste pensanti dell'esercito borbonico che dimostrerà le sue capacità nell'esercito italiano combattendo a Custoza, scriveva "Che non venga mai il momento di dover agire perché sarebbe il momento del disastro" e l'ambasciatore sardo Di Groppello "eccettuati i corpi svizzeri … l'esercito napoletano si trova in tristi condizioni, senza spirito militare che lo informi, senza intelligente direzione che lo guidi". Eppure quell'esercito aveva, primo in Europa, sotto la guida di Ferdinando II, posto fine alla rivoluzione del 1848 senza ricorrere all'aiuto straniero estirpando i restanti focolai nelle province calabresi di Catanzaro e Cosenza e successivamente in Sicilia. De Sivo icasticamente tratteggiò la situazione "Nell'esercito napoletano c'erano vecchi impotenti e giovani scontenti" ed aggiunse che tutti erano di scarsa cultura, usi a non prendere decisioni. Era a questi giovani che si rivolgevano Mariano d'Ayala e Giuseppe La Farina esuli a Torino quando rispettivamente scrivevano: "Il bene della patria e l'obbedienza nazionale sono obbligo più sacro del giuramento al re" e "Soldati napoletani mostrate di essere degni figli di quella illustre schiera di prodi che i Borboni fecero morire sulle forche e sul palco e nelle miserie dell'esilio". Restava un esercito che non era forgiato da obbiettivi futuri perché nessuna minaccia si profilava all'orizzonte, un esercito dinastico strumento di repressione interna. Nel 1820 dovette procedere alla sanguinosa rioccupazione della Sicilia, nel 1822 al soffocamento delle rivolte nel Cilento, nel 1828 ancora nel Cilento e a Laurenzana e Calvello nella Basilicata, nel 1837 in Sicilia e negli Abruzzi, nel 1841 all'Aquila, negli anni 1847 e 1848 a Messina, a Napoli, nelle Puglie e nel Cilento, per tutti gli anni cinquanta le rivolte nell'isola furono frequenti. Nel 1860 si ebbe l'ultima, decisiva rivolta di Palermo e dell'isola. Inoltre dovette opporsi a tre tentativi esterni di sollevare le popolazioni, quello di Gioacchino Murat del 1815, dei fratelli Bandiera del 1844 e di Carlo Pisacane nel 1857. Grande impressione fece il fallito attentato al re al Campo di Marte a Capodichino da parte di Agesilao Milano soldato dell'undicesimo battaglione Cacciatori. La morte gli venne data per impiccagione "col quarto grado di pubblico esempio". Fu portato al patibolo vestito di nero, con un velo nero sul volto, a piedi scalzi e con un cartello "uomo empio" nella piazza del Cavalcatoio presso Porta Capuana. Con il metallo della sua carabina e della baionetta venne fusa una statuetta della Madonna dell'Immacolata che venne donata alla famiglia reale.Nel 1859 morì a Napoli a 49 anni Ferdinando II cui successe il figlio ventiquattrenne Francesco II. Veniva così meno l'ultimo baluardo al dissolvimento del regno. "... mancato esso appunto nel gran momento del bisogno, non si trovò chi abbrancasse il timone; e lo stato fra' marosi fu nave senza pilota". ll console sardo a Napoli nell'agosto 1859 esaminava con acutezza la nuova situazione creatasi. Il regno era indebolito, in preda a una profonda crisi morale, ma le forze rivoluzionarie interne non erano in grado di rovesciare il governo e occorreva quindi una forza esterna che non poteva essere il Piemonte per la recisa opposizione delle potenze continentali europee. La rivolta avrebbe dovuto iniziare in Sicilia da sempre in endemica rivolta contro i Borboni e doveva essere guidata da un capo carismatico al cui nome la gente accorresse; tale era Garibaldi uomo da lanciarsi in una impresa dalle incognite paurose. Sulla valutazione del console sardo concordava il De Sivo "V'era un malessere latente inesplicabile, una fiacchezza uffiziale tra gagliardie di parole, un'audacia speranzosa fra' tristi, un malcontento sfiducioso fra gli amatori della patria e della monarchia. Veri oppressori e finti oppressi lavoravano concordi per contrario verso all'opera stessa". E il Buttà, cappellano del 9° Cacciatori "... eravi molto marcio nell'esercito e poca coesione".All'epoca dello sbarco di Marsala la Sicilia era presidiata da 21.000 soldati con 64 pezzi di artiglieria quasi tutti concentrati nella capitale. Di essi saranno impiegati rispettivamente duemila e quattromila soldati nelle battaglie di Calatafimi e Milazzo e, in disordinate scaramucce, poche centinaia di uomini a Palermo. Comandante in capo era il settantuenne tenente generale Paolo Ruffo principe di Castelcicala di nobile famiglia calabrese nei cui ricordi giovanili vi era la partecipazione alla battaglia di Waterloo del 1815, "uomo buono a ubbidire, salvo l'onestà e la fedeltà, non avea pregio da stare in tanta sede". Verrà sostituito dall'inetto settantaduenne generale Ferdinando Lanza "tristo amministratore, mediocre soldato, niente generale". Al 23 maggio in Palermo aveva a sua disposizione 571 ufficiali, 20.290 soldati, 684 cavalli, 457 muli e 36 cannoni.
Con Ferdinando II l'esercito acquistò una propria identità e fu oggetto di attente cure sin dal marzo 1827 quando, principe ereditario, ne era stato nominato comandante in capo con la carica di Capitano Generale. L'otto novembre 1830 nel suo primo proclama il nuovo re scriveva "... sperando che dal suo canto ci darà in tutte le occasione le pruove della sua inviolabile fedeltà e che non macchierà mai l'onore delle sue bandiere". La nuova legge per l'arruolamento prescriveva che le "reclute siano trattate con dolcezza ... e si usino verso di esse de' mezzi atti ad affezionarle al Real servizio, e non mai a far concepire loro una falsa idea della disciplina militare, la quale non permette abuso di autorità". I regolamenti disciplinari vennero mitigati anche se restavano le punizioni corporali e i "servizi ignobili in caserma", ossia la pulizia delle latrine. Le punizioni corporali venivano inflitte con una verga sulle spalle nude o con bastonate sul sedere. Con un decreto si stabilì che "tutti gli uffiziali da colonnello in giù, e tutti i sottuffiziali e soldati delle nostre reali truppe, a qualunque arma o corpo del reale esercito essi appartengano, porteranno indistintamente i mustacchi" e si confermò che le reclute "devono essere di religione cattolica, apostolica, romana". L'altezza minima dei soldati rimase quella di 5 piedi pari a metri 1,624. Vi fu una maggiore cura nell'addestramento, frequenti manovre a fuoco nelle quali il soldato sparava 50 colpi a salve, miglioramenti nell'armamento e addestramento a lunghe marce in colonne mobili alle quali erano obbligati a partecipare anche gli ufficiali di età avanzata, tanto che si disse "che a molti si apparecchiò la fossa".I battaglioni avevano un cappellano il quale giornalmente celebrava la santa messa, dirigeva la recita del rosario, provvedeva all'insegnamento del catechismo a sottufficiali e soldati. Sant'Ignazio di Loyola, fondatore dell'ordine dei Gesuiti, fu nominato maresciallo dell'esercito e il suo stipendio veniva versato alla casa professa dell'ordine. Gli ufficiali venivano formati nel Real Collegio della Nunziatella, i migliori venivano assegnati all'artiglieria e al genio, i sottufficiali nella Scuola militare di San Giovanni a Carbonara. Era il re che nominava i generali, mentre non esistevano limiti di età per il loro pensionamento, quasi sempre affidato alle leggi della natura. Le paghe erano modeste se rapportate a quelle degli altri eserciti della penisola, ma le divise erano estremamente sfarzose. Nel 1859 si imposero tutta una serie di economie, venne ridotta la razione di biada ai cavalli e si dispose che "gli ospedali serbassero le briciole cadenti da' tagliamenti del pane, onde non si comprasse il pane grattugiato". L'esercito era il cosiddetto esercito di caserma modellato su quello francese, con un nucleo di mercenari svizzeri e una grossa componente di soldati di professione con una ferma di otto anni, rinnovabile alla scadenza. Dalla leva, dalla quale erano esclusi i siciliani per antico privilegio, si ricavava con il sistema del sorteggio una aliquota estremamente ridotta in quanto molti elementi si prestavano al cambio dietro compenso o rinnovavano la ferma. In teoria gli effettivi ammontavano a 60.000 uomini in tempo di pace e 80.000 in tempo di guerra, mentre nell'esercito piemontese gli organici erano rispettivamente di 25.000 e 80.000. L'esercito si ripartiva in venti reggimenti di fanteria di cui tre della Guardia Reale, quattro Svizzeri e 13 di linea tutti su due battaglioni oltre a sette battaglioni di cacciatori. L'artiglieria era composta da otto batterie da campo e una a cavallo tutte su otto pezzi, la cavalleria aveva sette reggimenti, due di lancieri, tre di dragoni e due di ussari di 600 cavalli ciascuno. L'arma si era messa in luce nelle guerre napoleoniche tanto che l'imperatore in esilio a Sant'Elena ricordava ancora i Diavoli Bianchi cavalleggeri napoletani dai mantelli bianchi che nel 1796 gli si erano opposti nelle pianure padane. Era un esercito di soldati di professione, che dalla loro professione ricavavano il sostentamento, "spada ncoppo 'o culo, pane sicuro" era il motto ricorrente. L'armamento individuale non era inferiore a quello piemontese, a differenza dell'artiglieria.La stima per i "pennaruli" gli ufficiali dediti agli studi non era grande: Ferdinando e i suoi generali facevano proprio il motto del maresciallo francese Mac-Mahon che sosteneva, prima di arrendersi ai prussiani a Sedan, "Io cancello dai quadri di avanzamento ogni ufficiale di cui abbia letto il nome sulla copertina di un libro". Eppure molti furono gli studiosi che avevano militato nell'esercito napoletano. Giuseppe Palmieri, nobile pugliese della seconda metà del Settecento, ricordato da Benedetto Croce, fu autore di Riflessioni critiche sull'arte della guerra del quale si complimentò il grande Federico II di Prussia. Luigi Blanc scrisse Discorsi sulla scienza militare considerata nei suoi rapporti colle altre scienze e col sistema sociale, che interessò Napoleone III, Marmont e Iomini. Carlo Pisacane figlio cadetto del duca di San Giovanni, abbandonato l'esercito nel 1847 chiuse la sua vita a 38 anni a Sanza capitanando la disperata spedizione di Sapri. Apprezzato teorico della guerra scrisse con Saggi storici-politici-militari sull'Italia pubblicati postumi nel 1858 e nel 1860 la sua opera migliore. Niccola Marselli, transitato dall'esercito borbonico a quello italiano, i cui interessi spaziarono dalla musica all'architettura, da Tucidide a Erodoto, ricordato per l'interessante La guerra e la sua storia. Ad essi vanno uniti i fratelli Ulloa Calà Antonio e Girolamo che fondarono la prestigiosa Antologia Militare (1835-1846) della quale il maestro della storia militare in Italia Piero Pieri osservava "... rappresentò veramente il pensiero militare italiano in questo campo di studi, e fu tale da non impallidire, sotto certi aspetti, al confronto con le migliori riviste straniere" Girolamo lasciò vari scritti tra cui La guerra per l'indipendenza italiana nel 1848-1849. A titolo di curiosità va citato l'alfiere di fanteria Nicolò Abbondati per un un trattato di ginnastica, scritto nel 1842, definita l'arte dei ladri dai suoi superiori.Lo spessore culturale degli ufficiali borbonici era considerato superiore a quello dei piemontesi, anche se riservato agli ufficiali delle "armi dotte", artiglieria e genio. In massima parte provenivano dalla media e dalla piccola borghesia, su molti la propaganda liberale aveva buona presa. Solo una minoranza seguì Francesco II a Gaeta, gli altri entrarono nella quasi totalità nel Regio Esercito, nato dall' esercito piemontese, nel quale negli anni a venire altri contrasti sorsero e durarono sino alla fine del secolo. I piemontesi chiamavano i borbonici "napulitan" con ricercato disprezzo, i napoletani, con la verve che li caratterizzava, rispondevano con un non immeritato "cape e' lignamme". L'aristocrazia, a differenza di quella sabauda che compatta scendeva in campo col suo re, snobbava la carriera delle armi preoccupata solamente di difendere i suoi privilegi. Impenetrabili a ogni forma di propaganda restavano i soldati, quasi tutti analfabeti, legati al re garante delle loro condizioni di vita.Il generale francese Oudinot nel suo De l'Italie e de ses forces militaires scritto nel 1835 osservava: "L'esercito napoletano é istruito e molto bello. Le truppe che lo compongono sono oggetto di una sollecitudine attiva e illuminata da parte di un sovrano dotato di inclinazioni militari. Infine esso possiede in tutte le armi degli ufficiali di alto merito". A lui si univa negli elogi il il critico militare svizzero A. Le Masson. Aggiungeva Guglielmo Pepe nel 1848: "L'esercito napoletano era devoto al Re, il quale a forza di vivere in mezzo alle truppe era pervenuto a sapere il nome dei semplici soldati di cavalleria ... Il Re si occupava dei matrimoni degli ufficiali e dei bassi ufficiali e dava impieghi civili ai parenti di questi ultimi e ai parenti delle loro donne". Nel tempo le cose cambiarono. Nel febbraio 1860 il generale Pianell, una delle teste pensanti dell'esercito borbonico che dimostrerà le sue capacità nell'esercito italiano combattendo a Custoza, scriveva "Che non venga mai il momento di dover agire perché sarebbe il momento del disastro" e l'ambasciatore sardo Di Groppello "eccettuati i corpi svizzeri … l'esercito napoletano si trova in tristi condizioni, senza spirito militare che lo informi, senza intelligente direzione che lo guidi". Eppure quell'esercito aveva, primo in Europa, sotto la guida di Ferdinando II, posto fine alla rivoluzione del 1848 senza ricorrere all'aiuto straniero estirpando i restanti focolai nelle province calabresi di Catanzaro e Cosenza e successivamente in Sicilia. De Sivo icasticamente tratteggiò la situazione "Nell'esercito napoletano c'erano vecchi impotenti e giovani scontenti" ed aggiunse che tutti erano di scarsa cultura, usi a non prendere decisioni. Era a questi giovani che si rivolgevano Mariano d'Ayala e Giuseppe La Farina esuli a Torino quando rispettivamente scrivevano: "Il bene della patria e l'obbedienza nazionale sono obbligo più sacro del giuramento al re" e "Soldati napoletani mostrate di essere degni figli di quella illustre schiera di prodi che i Borboni fecero morire sulle forche e sul palco e nelle miserie dell'esilio". Restava un esercito che non era forgiato da obbiettivi futuri perché nessuna minaccia si profilava all'orizzonte, un esercito dinastico strumento di repressione interna. Nel 1820 dovette procedere alla sanguinosa rioccupazione della Sicilia, nel 1822 al soffocamento delle rivolte nel Cilento, nel 1828 ancora nel Cilento e a Laurenzana e Calvello nella Basilicata, nel 1837 in Sicilia e negli Abruzzi, nel 1841 all'Aquila, negli anni 1847 e 1848 a Messina, a Napoli, nelle Puglie e nel Cilento, per tutti gli anni cinquanta le rivolte nell'isola furono frequenti. Nel 1860 si ebbe l'ultima, decisiva rivolta di Palermo e dell'isola. Inoltre dovette opporsi a tre tentativi esterni di sollevare le popolazioni, quello di Gioacchino Murat del 1815, dei fratelli Bandiera del 1844 e di Carlo Pisacane nel 1857. Grande impressione fece il fallito attentato al re al Campo di Marte a Capodichino da parte di Agesilao Milano soldato dell'undicesimo battaglione Cacciatori. La morte gli venne data per impiccagione "col quarto grado di pubblico esempio". Fu portato al patibolo vestito di nero, con un velo nero sul volto, a piedi scalzi e con un cartello "uomo empio" nella piazza del Cavalcatoio presso Porta Capuana. Con il metallo della sua carabina e della baionetta venne fusa una statuetta della Madonna dell'Immacolata che venne donata alla famiglia reale.Nel 1859 morì a Napoli a 49 anni Ferdinando II cui successe il figlio ventiquattrenne Francesco II. Veniva così meno l'ultimo baluardo al dissolvimento del regno. "... mancato esso appunto nel gran momento del bisogno, non si trovò chi abbrancasse il timone; e lo stato fra' marosi fu nave senza pilota". ll console sardo a Napoli nell'agosto 1859 esaminava con acutezza la nuova situazione creatasi. Il regno era indebolito, in preda a una profonda crisi morale, ma le forze rivoluzionarie interne non erano in grado di rovesciare il governo e occorreva quindi una forza esterna che non poteva essere il Piemonte per la recisa opposizione delle potenze continentali europee. La rivolta avrebbe dovuto iniziare in Sicilia da sempre in endemica rivolta contro i Borboni e doveva essere guidata da un capo carismatico al cui nome la gente accorresse; tale era Garibaldi uomo da lanciarsi in una impresa dalle incognite paurose. Sulla valutazione del console sardo concordava il De Sivo "V'era un malessere latente inesplicabile, una fiacchezza uffiziale tra gagliardie di parole, un'audacia speranzosa fra' tristi, un malcontento sfiducioso fra gli amatori della patria e della monarchia. Veri oppressori e finti oppressi lavoravano concordi per contrario verso all'opera stessa". E il Buttà, cappellano del 9° Cacciatori "... eravi molto marcio nell'esercito e poca coesione".All'epoca dello sbarco di Marsala la Sicilia era presidiata da 21.000 soldati con 64 pezzi di artiglieria quasi tutti concentrati nella capitale. Di essi saranno impiegati rispettivamente duemila e quattromila soldati nelle battaglie di Calatafimi e Milazzo e, in disordinate scaramucce, poche centinaia di uomini a Palermo. Comandante in capo era il settantuenne tenente generale Paolo Ruffo principe di Castelcicala di nobile famiglia calabrese nei cui ricordi giovanili vi era la partecipazione alla battaglia di Waterloo del 1815, "uomo buono a ubbidire, salvo l'onestà e la fedeltà, non avea pregio da stare in tanta sede". Verrà sostituito dall'inetto settantaduenne generale Ferdinando Lanza "tristo amministratore, mediocre soldato, niente generale". Al 23 maggio in Palermo aveva a sua disposizione 571 ufficiali, 20.290 soldati, 684 cavalli, 457 muli e 36 cannoni.
giovedì 24 novembre 2011
MARIA TERESA SEREGO ALIGHIERI GOZZADINI
MARIA TERESA SEREGO ALIGHIERI GOZZADINI
"Dal nemico non accetto favori"
NASCITA
8 Dicembre 1812 nascita di Maria Teresa Alighieri detta Nina.
INFANZIA DAL 1812 AL 1822
Nell’educazione della piccola Nina si riflette il carattere austero e composto della famiglia che non permette alcuna frivolezza. La madre è una grande appassionata di archeologia, interesse che passerà alla figlia una volta cresciuta, e che le permetterà di venire in contatto con figure importanti nella sua vita. A otto anni è ammessa al suo primo ricevimento in onore di alcuni amici poeti fra cui Vincenzo Monti e Ippolito Pindemonte. Già a dieci anni la piccola Nina si immerge nella lettura dei classici. Nina soffre enormemente per la partecipazione della madre ai moti carbonari del 1821, e la piccola viene sottratta alle cure materne e affidata al convento veneziano della Visitazione, retto dalle suore salesiane francesi. Il padre non riesce ad opporsi alla decisione presa dai parenti.
ADOLESCENZA DAL 1822 AL 1829
L’adolescenza di Nina è tutt’altro che lieta, nel convento vigono norme di vita molto severe e le condizioni in cui vive sono proibitive. Queste privazioni e difficoltà segnano la ragazza nello spirito e nel corpo (per colpa dell’umidità della cella Nina ha fastidi respiratori ). A causa di questi problemi intervengono i suoi precettori esterni, la contessa Loredan e l’abate Meschini, i quali ritirano la giovane. Una volta a casa i principali elementi della sua educazione sono gli intellettuali e i patrioti amici della madre. Nel 1829 la madre muore e Nina, diciassettenne, si deve assumere la tutela del fratellino Piero, un fanciullo un po' malaticcio, che ha per maestro un monaco il quale è più interessato alle grazie di lei, che all’educazione di lui. Crescendo Nina incomincia a dedicarsi alla pittura, prediligendo i paesaggi delle campagne veronesi. Con lei ha sempre la Divina Commedia del suo avo, e spesso ne rimanda a memoria i versi.Dal 1829 al 1840 viaggia e poi segue il padre che si è trasferito a Venezia, in quel periodo riceve proposte di matrimonio di molti ufficiali austriaci, tutte rifiutate per il disgusto che i dominatori della sua patria le procurano. Torna per breve tempo a Verona, da dove parte per un lungo giro delle maggiori città italiane. E’ molto sensibile verso le bellezze artistiche e architettoniche del suo paese, ma è anche in ansia per la condizione di servilismo delle persone che vi incontra. Solo a Firenze riesce a rasserenarsi, vedendo il governo illuminato del Granduca di Lorena. La città le rimane nel cuore, nelle sue lettere agli amici ne parla in tono entusiasta: "Qui si vive in un Eden. Non si incontra volto che palesi dominio straniero, non s’ode voce di barbaro accento. Qui è abolita la pena di morte e tutto spira pace e benessere universale. Il governo del Granduca permette qualunque giornale. Il Courier Français, il National, dei quali da noi non si vede neppure la faccia si leggono pubblicamente nelle botteghe, e i fogli sono letti da tutti. Vedo spesso persone quasi cenciose leggere una gazzetta avidamente." Sempre in questa città incomincia l’ossessione che riguarda il suo nome, infatti si sente a disagio per non essere all’altezza del suo nome: "La è una cosa che compromette e fa sentire quanto pesa questo gran nome e quanto è mai sorretto dalle pie spalle pigmee." Lì a Firenze conosce e diviene amica di Vermiglioli e di Niccolini. Torna a Verona verso la fine del ’40, dove il cugino Giovanni Gozzadini, professore e studioso di storia, la chiede in sposa.
Si sposa con Giovanni Gozzadini.
DAL 1841 AL 1843
Sebbene sia restia all’idea di lasciare la sua amata Verona, Nina cede e si trasferisce a Bologna con il marito. Subito viene presa dalla nostalgia di casa e in una lettera scrive: “Non posso dirvi quanto ho bisogno di stare con voi altri, di non vedere più musi nuovi, di parlare veronese, di vedere la nostra casa, i nostri colli, l’Adige e tutto ciò che una volta avrei creduto mi fosse indifferente. Non ne posso più, più, più.” In quel periodo c’è un’intensa corrispondenza con Andrea Maffei marito di Clara Maffei, intimo amico di Nina. Dopo alcuni mesi di estraniazione, dai quali esce grazie all’aiuto di Maffei e del marito, Maria Teresa incomincia anche lì a trovarsi a suo agio. Intrattiene rapporti con le giovani aristocratiche come la Martinetti e la Pepoli Sampieri, famose per le loro qualità, ma chiacchierate per i costumi. Scopre di essere in attesa di un figlio e ciò la esorta a prendersi cura e a portare aiuto agli altri. Il bimbo nasce senza complicazioni, ma a tredici mesi si ammala e muore. Dopo un periodo di dolore nasce Dina, che però non riesce a compensare del tutto la perdita del primo figlio. In quel periodo poi le muore anche il padre, evento che la getta nel più tetro sconforto. In questo periodo però incominciano a germogliare in lei le prime idee del patriottismo militante. Entra in amicizia con Livio Zambeccari, e incomincia a partecipare agli incontri della Giovine Italia Bolognese, impegnandosi attivamente nel gruppo.
DAL 1843 AL 1859
Quando, nel ’43, ci sono le prime rivolte a Bologna, Maria Teresa si lega alla città giurando che non l’abbandonerà, anzi convinse anche il marito ad entrare nella presidenza della Guardia civica e lei fu anche l’ideatrice di una nuova forma di lotta politica che prevede lo sciopero ad oltranza di tutta la popolazione; solo con grande dispendio di forze l’invasore riesce a far riaprire alcune botteghe; dopodiché come ritorsione impone un aumento delle tasse. Maria Teresa e il marito intraprendono un viaggio per Napoli, dove risiedono per circa tre anni, adducendo come scusa motivi di salute. Grazie alle lettere di presentazione di Zambeccari può mettersi in contatto con i circoli patriottici, che si ispirano ai fratelli Alessandro e Carlo Poerio, al Del Re, al D’Ayala. Da queste persone apprende le inumane condizioni di vita a cui erano costretti, e decide di scrivere un libro sulla storia di quelle genti. Tornata a Bologna consegna il manoscritto al segretario di Cristina di Belgioioso, affinché lo pubblichi sull’Ausonio, giornale che è pubblicato a Parigi. Il manoscritto, oltre a riscuotere un subitaneo successo tra i patrioti, finisce nelle liste di tutte le polizie come scritto di possibile sovversiva da tenere sotto stretto controllo; gli intensi rapporti con i fratelli Poerio, fanno preoccupare il marito per l’incolumità di Nina. Così Giovanni decide di compiere un viaggio di piacere a Roma, città che Nina ha sempre desiderato vedere. Dopo il ritorno di Garibaldi dall’Uruguay, Nina incomincia a raccogliere fondi e a spronare i giovani alla lotta, raccoglie i volontari nella propria casa sfamandoli ed equipaggiandoli. Sapendo che Verona era sull’orlo della liberazione Nina manda al fratello un biglietto: “Quando riceverai questo foglio sarai libero cittadino della nostra libera patria. Questo pensiero mi fa battere il cuore di gioia e mi fa sopportare l’angoscia della presente oppressione in cui vivi, la quale mi toglie di godere le gioie sublimi di questi grandi momenti. Il signor Marco Minghetti, già ministro a Roma ed ora capitano nell’armata piemontese, avrà la gentilezza di consegnarti questo foglio quando entrerà in Verona con l’esercito liberatore. Tu lo conosci per fama, e gratissima ti sarà certo la sua personale conoscenza; né dubito gli farai le più cordiali accoglienze, anche come persona alla quale io professo la più cordiale stima e amicizia. Così, potessi abbracciarti io nel giorno della tua liberazione.” Purtroppo la disfatta di Novara toglie ogni speranza alla donna, che saputo del ferimento di Massimo d’Azeglio, si adopera a farlo ricoverare a Bologna per assisterlo personalmente. Durante i combattimenti non ha più notizie del fratello, la cui casa è stata catturata dagli austriaci e trasformata nel Quartier Generale di Verona. Gli austriaci vogliono barattare il permesso di scrivere al fratello con la libertà di parola di Nina, ma ella rifiuta rispondendo: “Dal nemico non accetto favori.” Successivamente, durante il periodo di repressione austriaca, Maria Teresa a Ronzano, località vicino Bologna dove è andata a vivere, ospita e protegge nella sua casa molti tra i rifugiati, tra cui si notavano il poeta Aleardo Aleardi e il giovane mazziniano Alberto Mario. Questi vengono scortati dalla stessa Maria Teresa fino in Toscana nascosti nella sua carrozza. Il triste esito delle sollevazioni del ’48 però la fa cadere in uno stato di acuta depressione, che la costringe ad abbandonare la lotta per dedicarsi alla propria cura. In quel periodo subisce un profondo cambiamento, come se avesse bandito per sempre la sua attività politica nei più profondi recessi della memoria. Il marito, preoccupato per lei cerca di interessarla ad alcuni scavi etruschi, durante i quali riprende il contatto con la poetessa Giannina Milli e ricomincia a operare segretamente nel nome di una rivolta patriottica.
Gli Austriaci , respinti al di là del Mincio, abbandonano anche Ronzano e grande è quindi la gioia di Maria Teresa. Tuttavia Verona accoglie l’esercito austriaco e impedisce agli alleati italo – francesi di entrare in città; la città rimane chiusa, e ogni tentativo di rafforzare la situazione è inutile. Poi, l’inaspettata e assurda pace di Villafranca fra Napoleone III e Francesco Giuseppe muta in disperazione l’iniziale euforia di Nina. Con quell’accordo si rinvia sine die la liberazione di Verona, e per di più l’esercito austriaco, col sostegno delle truppe russe, è diventato nuovamente minaccioso. L’asma bronchiale, ormai cronica, la infastidisce e la rende nervosa. Le cattive condizioni di salute influiscono negativamente sui suoi giudizi, per cui è portata a considerare privi del necessario vigore i provvedimenti che il governo provvisorio bolognese va emanando. Solo la partenza di Garibaldi per l’impresa dei Mille fa esultare ancora di gioia Maria Teresa. In lei non si spegne mai l’amore per l’Italia; sebbene ormai non si muove più da Ronzano, non si declina la sua fama, tanto che il suo salotto è sempre frequentato dai più alti spiriti del tempo. Tormentata da acute nevralgie, ha sempre un sorriso per tutti. Aleardo Aleardi e Paolo Mantegazza la proclamano degna del nome Alighieri; Carducci ne ama e ammira l’animo e l’ingegno nobilissimi e rari.
MORTE 26/9/1881 La morte l’accoglie a sessantanove anni. Una immensa folla segue il suo feretro che venne tumulato nel cimitero di Bologna. Sulla lapide scrivono: “Era stata benedetta e ammirata in Italia e fuori per virtù rare d’intelletto e per operosa devozione alla libertà di patria”.
La descrivono così gli amici: “Agile e snella balla perfettamente e con grazia. E’ di folta, bruna e magnifica capigliatura inanellata. I suoi occhi cerulei sono vivacissimi e insieme di un’espressione soave. Purissime e plastiche le linee sopraccigliari, la fronte spaziosa.
"Dal nemico non accetto favori"
NASCITA
8 Dicembre 1812 nascita di Maria Teresa Alighieri detta Nina.
INFANZIA DAL 1812 AL 1822
Nell’educazione della piccola Nina si riflette il carattere austero e composto della famiglia che non permette alcuna frivolezza. La madre è una grande appassionata di archeologia, interesse che passerà alla figlia una volta cresciuta, e che le permetterà di venire in contatto con figure importanti nella sua vita. A otto anni è ammessa al suo primo ricevimento in onore di alcuni amici poeti fra cui Vincenzo Monti e Ippolito Pindemonte. Già a dieci anni la piccola Nina si immerge nella lettura dei classici. Nina soffre enormemente per la partecipazione della madre ai moti carbonari del 1821, e la piccola viene sottratta alle cure materne e affidata al convento veneziano della Visitazione, retto dalle suore salesiane francesi. Il padre non riesce ad opporsi alla decisione presa dai parenti.
ADOLESCENZA DAL 1822 AL 1829
L’adolescenza di Nina è tutt’altro che lieta, nel convento vigono norme di vita molto severe e le condizioni in cui vive sono proibitive. Queste privazioni e difficoltà segnano la ragazza nello spirito e nel corpo (per colpa dell’umidità della cella Nina ha fastidi respiratori ). A causa di questi problemi intervengono i suoi precettori esterni, la contessa Loredan e l’abate Meschini, i quali ritirano la giovane. Una volta a casa i principali elementi della sua educazione sono gli intellettuali e i patrioti amici della madre. Nel 1829 la madre muore e Nina, diciassettenne, si deve assumere la tutela del fratellino Piero, un fanciullo un po' malaticcio, che ha per maestro un monaco il quale è più interessato alle grazie di lei, che all’educazione di lui. Crescendo Nina incomincia a dedicarsi alla pittura, prediligendo i paesaggi delle campagne veronesi. Con lei ha sempre la Divina Commedia del suo avo, e spesso ne rimanda a memoria i versi.Dal 1829 al 1840 viaggia e poi segue il padre che si è trasferito a Venezia, in quel periodo riceve proposte di matrimonio di molti ufficiali austriaci, tutte rifiutate per il disgusto che i dominatori della sua patria le procurano. Torna per breve tempo a Verona, da dove parte per un lungo giro delle maggiori città italiane. E’ molto sensibile verso le bellezze artistiche e architettoniche del suo paese, ma è anche in ansia per la condizione di servilismo delle persone che vi incontra. Solo a Firenze riesce a rasserenarsi, vedendo il governo illuminato del Granduca di Lorena. La città le rimane nel cuore, nelle sue lettere agli amici ne parla in tono entusiasta: "Qui si vive in un Eden. Non si incontra volto che palesi dominio straniero, non s’ode voce di barbaro accento. Qui è abolita la pena di morte e tutto spira pace e benessere universale. Il governo del Granduca permette qualunque giornale. Il Courier Français, il National, dei quali da noi non si vede neppure la faccia si leggono pubblicamente nelle botteghe, e i fogli sono letti da tutti. Vedo spesso persone quasi cenciose leggere una gazzetta avidamente." Sempre in questa città incomincia l’ossessione che riguarda il suo nome, infatti si sente a disagio per non essere all’altezza del suo nome: "La è una cosa che compromette e fa sentire quanto pesa questo gran nome e quanto è mai sorretto dalle pie spalle pigmee." Lì a Firenze conosce e diviene amica di Vermiglioli e di Niccolini. Torna a Verona verso la fine del ’40, dove il cugino Giovanni Gozzadini, professore e studioso di storia, la chiede in sposa.
Si sposa con Giovanni Gozzadini.
DAL 1841 AL 1843
Sebbene sia restia all’idea di lasciare la sua amata Verona, Nina cede e si trasferisce a Bologna con il marito. Subito viene presa dalla nostalgia di casa e in una lettera scrive: “Non posso dirvi quanto ho bisogno di stare con voi altri, di non vedere più musi nuovi, di parlare veronese, di vedere la nostra casa, i nostri colli, l’Adige e tutto ciò che una volta avrei creduto mi fosse indifferente. Non ne posso più, più, più.” In quel periodo c’è un’intensa corrispondenza con Andrea Maffei marito di Clara Maffei, intimo amico di Nina. Dopo alcuni mesi di estraniazione, dai quali esce grazie all’aiuto di Maffei e del marito, Maria Teresa incomincia anche lì a trovarsi a suo agio. Intrattiene rapporti con le giovani aristocratiche come la Martinetti e la Pepoli Sampieri, famose per le loro qualità, ma chiacchierate per i costumi. Scopre di essere in attesa di un figlio e ciò la esorta a prendersi cura e a portare aiuto agli altri. Il bimbo nasce senza complicazioni, ma a tredici mesi si ammala e muore. Dopo un periodo di dolore nasce Dina, che però non riesce a compensare del tutto la perdita del primo figlio. In quel periodo poi le muore anche il padre, evento che la getta nel più tetro sconforto. In questo periodo però incominciano a germogliare in lei le prime idee del patriottismo militante. Entra in amicizia con Livio Zambeccari, e incomincia a partecipare agli incontri della Giovine Italia Bolognese, impegnandosi attivamente nel gruppo.
DAL 1843 AL 1859
Quando, nel ’43, ci sono le prime rivolte a Bologna, Maria Teresa si lega alla città giurando che non l’abbandonerà, anzi convinse anche il marito ad entrare nella presidenza della Guardia civica e lei fu anche l’ideatrice di una nuova forma di lotta politica che prevede lo sciopero ad oltranza di tutta la popolazione; solo con grande dispendio di forze l’invasore riesce a far riaprire alcune botteghe; dopodiché come ritorsione impone un aumento delle tasse. Maria Teresa e il marito intraprendono un viaggio per Napoli, dove risiedono per circa tre anni, adducendo come scusa motivi di salute. Grazie alle lettere di presentazione di Zambeccari può mettersi in contatto con i circoli patriottici, che si ispirano ai fratelli Alessandro e Carlo Poerio, al Del Re, al D’Ayala. Da queste persone apprende le inumane condizioni di vita a cui erano costretti, e decide di scrivere un libro sulla storia di quelle genti. Tornata a Bologna consegna il manoscritto al segretario di Cristina di Belgioioso, affinché lo pubblichi sull’Ausonio, giornale che è pubblicato a Parigi. Il manoscritto, oltre a riscuotere un subitaneo successo tra i patrioti, finisce nelle liste di tutte le polizie come scritto di possibile sovversiva da tenere sotto stretto controllo; gli intensi rapporti con i fratelli Poerio, fanno preoccupare il marito per l’incolumità di Nina. Così Giovanni decide di compiere un viaggio di piacere a Roma, città che Nina ha sempre desiderato vedere. Dopo il ritorno di Garibaldi dall’Uruguay, Nina incomincia a raccogliere fondi e a spronare i giovani alla lotta, raccoglie i volontari nella propria casa sfamandoli ed equipaggiandoli. Sapendo che Verona era sull’orlo della liberazione Nina manda al fratello un biglietto: “Quando riceverai questo foglio sarai libero cittadino della nostra libera patria. Questo pensiero mi fa battere il cuore di gioia e mi fa sopportare l’angoscia della presente oppressione in cui vivi, la quale mi toglie di godere le gioie sublimi di questi grandi momenti. Il signor Marco Minghetti, già ministro a Roma ed ora capitano nell’armata piemontese, avrà la gentilezza di consegnarti questo foglio quando entrerà in Verona con l’esercito liberatore. Tu lo conosci per fama, e gratissima ti sarà certo la sua personale conoscenza; né dubito gli farai le più cordiali accoglienze, anche come persona alla quale io professo la più cordiale stima e amicizia. Così, potessi abbracciarti io nel giorno della tua liberazione.” Purtroppo la disfatta di Novara toglie ogni speranza alla donna, che saputo del ferimento di Massimo d’Azeglio, si adopera a farlo ricoverare a Bologna per assisterlo personalmente. Durante i combattimenti non ha più notizie del fratello, la cui casa è stata catturata dagli austriaci e trasformata nel Quartier Generale di Verona. Gli austriaci vogliono barattare il permesso di scrivere al fratello con la libertà di parola di Nina, ma ella rifiuta rispondendo: “Dal nemico non accetto favori.” Successivamente, durante il periodo di repressione austriaca, Maria Teresa a Ronzano, località vicino Bologna dove è andata a vivere, ospita e protegge nella sua casa molti tra i rifugiati, tra cui si notavano il poeta Aleardo Aleardi e il giovane mazziniano Alberto Mario. Questi vengono scortati dalla stessa Maria Teresa fino in Toscana nascosti nella sua carrozza. Il triste esito delle sollevazioni del ’48 però la fa cadere in uno stato di acuta depressione, che la costringe ad abbandonare la lotta per dedicarsi alla propria cura. In quel periodo subisce un profondo cambiamento, come se avesse bandito per sempre la sua attività politica nei più profondi recessi della memoria. Il marito, preoccupato per lei cerca di interessarla ad alcuni scavi etruschi, durante i quali riprende il contatto con la poetessa Giannina Milli e ricomincia a operare segretamente nel nome di una rivolta patriottica.
Gli Austriaci , respinti al di là del Mincio, abbandonano anche Ronzano e grande è quindi la gioia di Maria Teresa. Tuttavia Verona accoglie l’esercito austriaco e impedisce agli alleati italo – francesi di entrare in città; la città rimane chiusa, e ogni tentativo di rafforzare la situazione è inutile. Poi, l’inaspettata e assurda pace di Villafranca fra Napoleone III e Francesco Giuseppe muta in disperazione l’iniziale euforia di Nina. Con quell’accordo si rinvia sine die la liberazione di Verona, e per di più l’esercito austriaco, col sostegno delle truppe russe, è diventato nuovamente minaccioso. L’asma bronchiale, ormai cronica, la infastidisce e la rende nervosa. Le cattive condizioni di salute influiscono negativamente sui suoi giudizi, per cui è portata a considerare privi del necessario vigore i provvedimenti che il governo provvisorio bolognese va emanando. Solo la partenza di Garibaldi per l’impresa dei Mille fa esultare ancora di gioia Maria Teresa. In lei non si spegne mai l’amore per l’Italia; sebbene ormai non si muove più da Ronzano, non si declina la sua fama, tanto che il suo salotto è sempre frequentato dai più alti spiriti del tempo. Tormentata da acute nevralgie, ha sempre un sorriso per tutti. Aleardo Aleardi e Paolo Mantegazza la proclamano degna del nome Alighieri; Carducci ne ama e ammira l’animo e l’ingegno nobilissimi e rari.
MORTE 26/9/1881 La morte l’accoglie a sessantanove anni. Una immensa folla segue il suo feretro che venne tumulato nel cimitero di Bologna. Sulla lapide scrivono: “Era stata benedetta e ammirata in Italia e fuori per virtù rare d’intelletto e per operosa devozione alla libertà di patria”.
La descrivono così gli amici: “Agile e snella balla perfettamente e con grazia. E’ di folta, bruna e magnifica capigliatura inanellata. I suoi occhi cerulei sono vivacissimi e insieme di un’espressione soave. Purissime e plastiche le linee sopraccigliari, la fronte spaziosa.
martedì 22 novembre 2011
Teresa Berra Kramer
Nata a Milano dall’avvocato Domenico Berra e da Carolina Frapolli.
E' una dama implicata nei moti milanesi del 1821, fu molto attiva nella congiura delle donne lombardo-venete per l’unità d’Italia. Sposa Carlo Kramer, uomo di famiglia tedesca, ma si stabilisce a Milano dove è impegnata nell’industria tessile lombarda. Poi nel 1821 si allontana da Milano e si dirige verso Parigi e la Svizzera, fa ritorno nel 1826 e vi rimane fino al ’51, poiché si dedica all’educazione del figlio Edoardo e fa l’animatrice in un salotto repubblicano.
Affermata sostenitrice di Mazzini, poteva svolgere la necessaria azione di supporto al movimento degli esuli anche dalla villa di Lugano dove viveva con il marito, non interessato alla politica.
Nel 1869, alla morte del figlio, decide di destinare tutte le sue sostanze per la creazione a Cremasella di Brianza della Pia Fondazione Edoardo Kramer finalizzata all’assistenza degli invalidi del lavoro, ma anche all’istituzione di asili per l’infanzia locale.Fu inoltre generosa sostenitrice delle società di mutuo soccorso lombarde, ma per la morte del figlio dovette soccombere all’immenso dolore, così che Giuseppe Mazzini le scrisse una lettera datata 31 Agosto 1869 nella quale le faceva le più sentite condoglianze e le ricordava la loro viva e antica amicizia, spingendola ad avere fede non nel Dio dei Cristiani che salva o danna, ma nel Dio che ha dato alla vita, a tutte le vite. Mazzini le consiglia di superare il dolore cercando uno scopo e dedicandosi al bene comune.Queste le parole che senz’altro contribuirono a stimolare Teresa verso attività di impegno sociale:
"Cara Teresa, concedete a me pure, fra le tante che avete ricevuto, il diritto di mandarvi una parola di condoglianza. La perdita irreparabile che avete fatta m’ha fatto sentire più viva l’antica amicizia, il cortese asilo preparatomi, la visita a Londra e tutti i ricordi d’un tempo nel quale sentivamo in ogni cosa vitale concordemente non esistono che due cose reali nel mondo: gli affetti e il culto delle idee. Abbiate le due cose a un tempo. Egli amava l’Italia e aveva combattuto e lavorato per essa. Continuate, continuate l’opera sua. Perdonate che io mi avventi in consiglio. E’ il privilegio dell’età. Se mai potessi in qualche modo giovarvi, ricordate che avete un amico antico nel vostro Giuseppe Mazzini."
E' una dama implicata nei moti milanesi del 1821, fu molto attiva nella congiura delle donne lombardo-venete per l’unità d’Italia. Sposa Carlo Kramer, uomo di famiglia tedesca, ma si stabilisce a Milano dove è impegnata nell’industria tessile lombarda. Poi nel 1821 si allontana da Milano e si dirige verso Parigi e la Svizzera, fa ritorno nel 1826 e vi rimane fino al ’51, poiché si dedica all’educazione del figlio Edoardo e fa l’animatrice in un salotto repubblicano.
Affermata sostenitrice di Mazzini, poteva svolgere la necessaria azione di supporto al movimento degli esuli anche dalla villa di Lugano dove viveva con il marito, non interessato alla politica.
Nel 1869, alla morte del figlio, decide di destinare tutte le sue sostanze per la creazione a Cremasella di Brianza della Pia Fondazione Edoardo Kramer finalizzata all’assistenza degli invalidi del lavoro, ma anche all’istituzione di asili per l’infanzia locale.Fu inoltre generosa sostenitrice delle società di mutuo soccorso lombarde, ma per la morte del figlio dovette soccombere all’immenso dolore, così che Giuseppe Mazzini le scrisse una lettera datata 31 Agosto 1869 nella quale le faceva le più sentite condoglianze e le ricordava la loro viva e antica amicizia, spingendola ad avere fede non nel Dio dei Cristiani che salva o danna, ma nel Dio che ha dato alla vita, a tutte le vite. Mazzini le consiglia di superare il dolore cercando uno scopo e dedicandosi al bene comune.Queste le parole che senz’altro contribuirono a stimolare Teresa verso attività di impegno sociale:
"Cara Teresa, concedete a me pure, fra le tante che avete ricevuto, il diritto di mandarvi una parola di condoglianza. La perdita irreparabile che avete fatta m’ha fatto sentire più viva l’antica amicizia, il cortese asilo preparatomi, la visita a Londra e tutti i ricordi d’un tempo nel quale sentivamo in ogni cosa vitale concordemente non esistono che due cose reali nel mondo: gli affetti e il culto delle idee. Abbiate le due cose a un tempo. Egli amava l’Italia e aveva combattuto e lavorato per essa. Continuate, continuate l’opera sua. Perdonate che io mi avventi in consiglio. E’ il privilegio dell’età. Se mai potessi in qualche modo giovarvi, ricordate che avete un amico antico nel vostro Giuseppe Mazzini."
lunedì 21 novembre 2011
Lauretta Felice Cipriani
Lauretta Felice Cipriani, vedova Parra, nota soprattutto come moglie del patriota Giuseppe Montanelli (1813 - 1862), nasce a Port of Prince nell'isola di Trinidad il 12 febbraio 1795 da Giovanni Antonio e Sofia Lieutaud. Giovanissima viene condotta a Livorno presso lo zio Anton Giulio Cipriani, perché si occupi della sua educazione e sistemazione; studierà fino al 1812 presso il Conservatorio di Ripoli, in via della Scala a Firenze, condotto dalle Suore Montalve. Nel 1814 sposa Giuseppe di Lupo Parra, possidente di San Prospero, presso Pisa; dal matrimonio nasceranno Antonio, Pietro, Emilia e Sofia. Prenderà parte alla vita culturale e mondana di Pisa, frequentando i salotti cittadini. Nel 1821 avrà una appassionata relazione con Costantino Caradja, di origine fanariota, giovane figlio dell'Ospodaro Ioan Caradja, che si diceva fuggito dalla Valacchia con ingenti ricchezze, grazie all' appoggio di Metternich, e rifugiatosi a Livorno. Lauretta si adoprerà per la causa greca e penserà di partire con Costantino per la Morea, ma la tratterrà l'affetto per i figli. Rimasta vedova nel 1822, abiterà a Palazzo Grassi e sarà a lungo in conflitto con i cognati per sostenere il diritto di una donna di allevare ed educare la prole. Conoscerà a Pisa il principe russo Nicolaj Dolgorukij, già generale nella guerra patriottica del 1812, che la aiuterà nelle cause contro i cognati e le farà amare la pittura l'arte. Abile nel disegno, conoscitrice della musica, pianista e apprezzata cantante, sarà amica di Giacomo Leopardi, che frequenterà a Pisa nell'autunno del 1827 e la citerà più volte nelle sue lettere, e resterà per anni in contatto con Alessandro Poerio. Nel 1830 - 1831 è a Parigi, riponendo grandi speranze in Luigi Filippo d'Orléans. Tornata, delusa, in Italia, conoscerà a Pisa Giuseppe Montanelli, compagno di studio dei figli, poi sposato segretamente nel 1848, al ritorno del patriota dalla prigionia dopo la partecipazione alla battaglia di Curtatone.Donna colta e vivace, sensibile alle cause nazionali, partecipa attivamente alle politiche risorgimentali; in età matura terrà un suo salotto politico e letterario nel Palazzo Lupo Parra, accanto al Caffè dell' Ussero nel lungarno pisano. Cugina di Leonetto Cipriani, futuro Governatore delle Romagne, sarà con lui in perpetuo conflitto di idee e di carattere , appoggiata nelle sue posizioni dallo stesso Montanelli. A fianco del marito durante il Governo provvisorio toscano del 1849 e poi nei dieci anni d'esilio a Parigi, avrà influenza sulle posizioni politiche di lui, lo appoggerà nella visione federalista, lo faciliterà nei contatti con i napoleonidi e ne sarà valida collaboratrice nell'attività di giornalista e di scrittore , a partire dal periodico "L'Italia" e per la redazione delle opere composte lontano dal suo paese, come documenta la ricca corrispondenza. Auspicherà a lungo un ruolo politico primario per Montanelli, incoraggiandolo nel 1859 nei contatti e colloqui con Napoleone III e, dopo l'Unità d'Italia, nella nuova candidatura a deputato. Rimasta vedova nel 1862 trascorre gli ultimi anni di vita a Fucecchio, riordinando l'archivio e gli scritti editi e inediti del marito. Muore a Firenze il 5 agosto 1869.
domenica 20 novembre 2011
Politica interna di Cavour
La prima guerra d’indipendenza si era conclusa con una bruciante sconfitta. Il Regno di Sardegna seppe però risollevarsi rapidamente. Il decennio che va dal 1849 al 1859 rappresentò per esso un periodo di grande sviluppo economico e politico. A guidare queste trasformazioni fu Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861). La collaborazione fra Cavour ed il re Vittorio Emanuele II non fu sempre facile, ma portò a risultati straordinari.Secondo Cavour solo il Regno di Sardegna era in grado di realizzare l’unità d’Italia. E ciò perché era un paese libero, non sottomesso all’Austria come, di fatto, erano tutti gli altri Stati italiani : il Ducato di Parma, quello di Modena, il Granducato di Toscana, il Regno delle Due Sicilie e lo stesso Stato pontificio. Inoltre il Regno di Sardegna godeva di prestigio internazionale e poteva coinvolgere la Francia e l’Inghilterra a sostegno dell’unità d’Italia. Dopo la prima guerra d’indipendenzail Regno di Sardegna visse un periodo di grande sviluppo economico e politico.
Cavour volle attuare una politica
di separazione dello Stato dalla Chiesa Una delle idee fondamentali di Cavour era la separazione della Chiesa dallo Stato. In questo Cavour seguiva un celebre principio : libera Chiesa in libero Stato. Quindi mirò soprattutto a rafforzare e a rendere più moderna l’economia del regno. Le idee di libero commercio, che nella prima metà del secolo avevano avuto attuazione soprattutto in Inghilterra, si stavano diffondendo in tutta Europa. Furono stipulati trattati commerciali, soprattutto con l’Inghilterra, ed in pochi anni il commercio con l’estero triplicò. La rete ferroviaria del Piemonte divenne la più estesa d’Italia, 850 chilometri. Furono realizzati canali d’irrigazione che permisero di sviluppare l’agricoltura, specie la coltivazione del riso. E furono aperte nuove banche. Tutto ciò non fece ancora del Piemonte una regione industrializzata, ma ne fece la regione più progredita d’Italia.
Tutta l’Italia guardava sempre più al Piemonte. Molti patrioti giunsero a Torino per sfuggire alle polizie dei loro Stati. Nel frattempo, i tentativi che in quegli anni andavano compiendo i mazziniani fallivano uno dopo l’altro. Nell’Italia meridionale, i mazziniani organizzarono con il napoletano Carlo Pisacane un’insurrezione. Nel 1857, imbarcatosi a Genova con alcuni compagni, liberò circa 300 prigionieri reclusi nel carcere dell’isola di Ponza. Poi sbarcò a Sapri dove la popolazione del luogo non collaborò affatto. Anzi, credendo che si trattasse di gente pericolosa, avvisò la polizia. Attaccato dalle guardie borboniche e dai contadini, Pisacane fu sopraffatto e si uccise, i suoi uomini alcuni furono massacrati altri finirono in carcere.Tutta l’Italia fu scossa dal fallimento di queste azioni. E la maggior parte degli Italiano incominciò a pensare che questa non fosse la strada giusta per giungere all’unità d’Italia. L’unica soluzione era quella di affidare al Regno di Sardegna il compito di realizzare l’unificazione d’Italia. Nel 1857 fu fondata a Torino la Società Nazionale Italiana.
Il suo motto era : << Italia e Vittorio Emanuele >>. Quest’associazione era strettamente legata ai piani del monarchico Cavour, ma riuscì a reclutare fra i suoi membri molti democratici e repubblicani fra cui Giuseppe Garibaldi. Tra la gente divenne sempre più popolare il progetto di unità d’Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele II.
Cavour volle attuare una politica
di separazione dello Stato dalla Chiesa Una delle idee fondamentali di Cavour era la separazione della Chiesa dallo Stato. In questo Cavour seguiva un celebre principio : libera Chiesa in libero Stato. Quindi mirò soprattutto a rafforzare e a rendere più moderna l’economia del regno. Le idee di libero commercio, che nella prima metà del secolo avevano avuto attuazione soprattutto in Inghilterra, si stavano diffondendo in tutta Europa. Furono stipulati trattati commerciali, soprattutto con l’Inghilterra, ed in pochi anni il commercio con l’estero triplicò. La rete ferroviaria del Piemonte divenne la più estesa d’Italia, 850 chilometri. Furono realizzati canali d’irrigazione che permisero di sviluppare l’agricoltura, specie la coltivazione del riso. E furono aperte nuove banche. Tutto ciò non fece ancora del Piemonte una regione industrializzata, ma ne fece la regione più progredita d’Italia.
Tutta l’Italia guardava sempre più al Piemonte. Molti patrioti giunsero a Torino per sfuggire alle polizie dei loro Stati. Nel frattempo, i tentativi che in quegli anni andavano compiendo i mazziniani fallivano uno dopo l’altro. Nell’Italia meridionale, i mazziniani organizzarono con il napoletano Carlo Pisacane un’insurrezione. Nel 1857, imbarcatosi a Genova con alcuni compagni, liberò circa 300 prigionieri reclusi nel carcere dell’isola di Ponza. Poi sbarcò a Sapri dove la popolazione del luogo non collaborò affatto. Anzi, credendo che si trattasse di gente pericolosa, avvisò la polizia. Attaccato dalle guardie borboniche e dai contadini, Pisacane fu sopraffatto e si uccise, i suoi uomini alcuni furono massacrati altri finirono in carcere.Tutta l’Italia fu scossa dal fallimento di queste azioni. E la maggior parte degli Italiano incominciò a pensare che questa non fosse la strada giusta per giungere all’unità d’Italia. L’unica soluzione era quella di affidare al Regno di Sardegna il compito di realizzare l’unificazione d’Italia. Nel 1857 fu fondata a Torino la Società Nazionale Italiana.
Il suo motto era : << Italia e Vittorio Emanuele >>. Quest’associazione era strettamente legata ai piani del monarchico Cavour, ma riuscì a reclutare fra i suoi membri molti democratici e repubblicani fra cui Giuseppe Garibaldi. Tra la gente divenne sempre più popolare il progetto di unità d’Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele II.
sabato 19 novembre 2011
GIOVANNI CHIASSI
GIOVANNI CHIASSI
Nacque a Mantova nel 1827.
Nel 1848, allo scoppio della guerra contro l'Austria, a 21 anni, si arruolo' nellesercito e combatte' al fianco di Nino Bixio a Governolo. Sempre nel 1848, dopo la sconfitta di Custoza, si rifiuto' di deporre le armi e si uni' a Garibaldi che continuava a combattere nell'area di Varese. Nel 1849, a 22 anni, corse in difesa della Repubblica Romana e quando Roma cadde sotto il fuoco delle truppe francese, cerco' di andare verso la Repubblica di Venezia, ma lungo il tragitto si ammalo'. Ritorno' in Lombardia, aderendo alla Giovine Italia di Mazzini, e preparo' la congiura di Mantova insieme al Tazzoli. Scoperta l'attivita' dei congiurati antiaustriaci, nel 1852, a 25 anni, riusci' a fuggire mentre gli altri suoi compagni vennero giustiziati a Belfiore. Dopo essere andato a Genova e in Svizzera, venne coinvolto da Mazzini nel tentativo di far passare un convoglio di armi. Scoperto venne di nuovo condannato e torno' in esilio. Nel 1854, a 27 anni, inizio' a preparare una sollevazione insurrezionale in Valtellina, insieme a Felice Orsini. Anche questa volta riusci' a fuggire e giunse a Londra. Tornato in Italia nel 1859, a 32 anni, si arruolo' tra i Cacciatori delle Alpi e combatte' a Varese e a San Fermo, al fianco di Garibaldi e della colonna Medici. Nel 1860, a 33 anni, si dimise dall'esercito pur di prendere parte alla spedizione dei Mille. Due anni dopo prosegui' la sua attivita' di cospiratore insurrezionale per il Trentino. Nel 1865, quanto aveva 38 anni, venne eletto deputato in Parlamento ma nel 1866, a 39 anni prese di nuovo le armi per andare a combattere la III Guerra d'indipendenza. Mori' a Bezzecca il 21 luglio 1866.
Nacque a Mantova nel 1827.
Nel 1848, allo scoppio della guerra contro l'Austria, a 21 anni, si arruolo' nellesercito e combatte' al fianco di Nino Bixio a Governolo. Sempre nel 1848, dopo la sconfitta di Custoza, si rifiuto' di deporre le armi e si uni' a Garibaldi che continuava a combattere nell'area di Varese. Nel 1849, a 22 anni, corse in difesa della Repubblica Romana e quando Roma cadde sotto il fuoco delle truppe francese, cerco' di andare verso la Repubblica di Venezia, ma lungo il tragitto si ammalo'. Ritorno' in Lombardia, aderendo alla Giovine Italia di Mazzini, e preparo' la congiura di Mantova insieme al Tazzoli. Scoperta l'attivita' dei congiurati antiaustriaci, nel 1852, a 25 anni, riusci' a fuggire mentre gli altri suoi compagni vennero giustiziati a Belfiore. Dopo essere andato a Genova e in Svizzera, venne coinvolto da Mazzini nel tentativo di far passare un convoglio di armi. Scoperto venne di nuovo condannato e torno' in esilio. Nel 1854, a 27 anni, inizio' a preparare una sollevazione insurrezionale in Valtellina, insieme a Felice Orsini. Anche questa volta riusci' a fuggire e giunse a Londra. Tornato in Italia nel 1859, a 32 anni, si arruolo' tra i Cacciatori delle Alpi e combatte' a Varese e a San Fermo, al fianco di Garibaldi e della colonna Medici. Nel 1860, a 33 anni, si dimise dall'esercito pur di prendere parte alla spedizione dei Mille. Due anni dopo prosegui' la sua attivita' di cospiratore insurrezionale per il Trentino. Nel 1865, quanto aveva 38 anni, venne eletto deputato in Parlamento ma nel 1866, a 39 anni prese di nuovo le armi per andare a combattere la III Guerra d'indipendenza. Mori' a Bezzecca il 21 luglio 1866.
venerdì 18 novembre 2011
Giovanni Nicotera
Tra i personaggi del Risorgimento napoletano c’è anche Giovanni Nicotera.
Giovanni Nicotera nasce a Sambiase il 9 Settembre del 1828.
Egli aderì alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini; combattè a Napoli nel Maggio 1848 e insieme a Garibaldi, nel 1849 durante la Repubblica romana, partecipò anche alla spedizione di Sapri con Carlo Pisacane.Fu gravemente ferito e arrestato, processato e condannato a morte, ma la pena fu tramutata in ergastolo per l’intervento del goverso inglese..
Fu liberato nel 1860 per l’intervento di Garibaldi.
Nel 1862 fu al fianco di Garibaldi sull’ Aspromonte e nel 1866 contro l’Austria.
Morì il 13 Giugno 1894 a Vico Equense!
La città di Napoli gli ha dedicato una via, che si trova nei pressi di piazza del Plebiscito tra via Toledo e via Chiaia.
Giovanni Nicotera nasce a Sambiase il 9 Settembre del 1828.
Egli aderì alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini; combattè a Napoli nel Maggio 1848 e insieme a Garibaldi, nel 1849 durante la Repubblica romana, partecipò anche alla spedizione di Sapri con Carlo Pisacane.Fu gravemente ferito e arrestato, processato e condannato a morte, ma la pena fu tramutata in ergastolo per l’intervento del goverso inglese..
Fu liberato nel 1860 per l’intervento di Garibaldi.
Nel 1862 fu al fianco di Garibaldi sull’ Aspromonte e nel 1866 contro l’Austria.
Morì il 13 Giugno 1894 a Vico Equense!
La città di Napoli gli ha dedicato una via, che si trova nei pressi di piazza del Plebiscito tra via Toledo e via Chiaia.
giovedì 17 novembre 2011
Garibaldi in Uruguay
L'anelito alla libertà dei popoli ebbe per molti il banco di prova, anzi, la scuola di vita, nell'America Latina, dove Garibaldi, Culiolo e altri che rappresentavano il fiore della gioventù italiana andarono a battersi contro quelle tirannidi. A Montevideo si formò nel 1843 la gloriosa Legione Italiana, e l'eco dei suoi atti di eroismo varcò l'oceano e infiammò altri giovani. Tra questi, un maddalenino, Antonio Susini, nipote del sindaco dell'isola, fuggì di casa e corse ad arruolarsi nella Legione, divenendo amico di Garibaldi e raggiungendo in breve per il suo valore il comando in capo della compagine italiana in Uruguay. Ma intanto, come scrive Garibaldi nelle sue Memorie: "L'insofferenza delle popolazioni italiane al dominio straniero, che fosse al colmo, già era manifesto in tutte le corrispondenze che giungevano nel Plata. L'idea del ritorno in patria e la speranza di poter offrire il nostro braccio alla sua redenzione da molto tempo facevan palpitare l'anime nostre".
E così nella primavera 1848, due gruppi di Italiani si imbarcarono per l'Europa carichi di un inarrestabile e struggente "furor patrio". Del secondo faceva parte, insieme con Garibaldi ed altri 60 uomini, Giovan Battista Culiolo.
Nell'anno che seguì lo sbarco dei reduci a Genova, fino alla difesa di Roma, Culiolo (Maggior Leggero, cioè il nome di battaglia) non abbandonò mai il suo Generale. Chi fosse esattamente il Maggior Leggero lo si può ricostruire attraverso l'opera del suo Biografo Umberto Beseghi e le parole di profondo affetto di Garibaldi nelle Memorie.
Nacque a La Maddalena il 17 settembre 1813 da Silvestro e Rosa Fienga.
"lLa sua libera educazione infantile - scrive il Beseghi - avvenuta senza freni e senza restrizioni fra scogli e dirupi, scalzo e succintamente vestito, alla caccia di gabbiani, di falchi e di aquile, gli avevano creato lo spirito indomito del guerriero amante della libertà, temprato a tutti gli ardimenti".
Non aveva compiuto gli 11 anni quando si arruolò in Marina; per la sua straordinaria agilità e sveltezza gli fu dato il nome di "leggero". Dopo 15 anni di servizio nella regia armata, ottenne il grado di marinaio di 1° classe. Il 3 marzo 1839, avendo la sua nave fatto scalo a Montevideo, Leggiero disertò per seguire Garibaldi, di cui aveva inteso le gesta. Egli aveva anche appreso sulla nave gli ideali e i programmi della Giovine Italia; si rivolse perciò alla locale sezione comandata da Giovan Battista Cuneo, che lo arruolò nella 1° Legione Italiana. Insieme con Antonio Susini, fu imbarcato sulla piccola flotta di Garibaldi e si batté da prode in tutte le battaglie che questa, sempre impari di forze, dovette sostenere. Quando finivano le munizioni, Leggero gettava nei cannoni tutta la ferraglia che riusciva a racimolare e sparava sventagliate di ferri vecchi sui nemici.Tornato in Italia partecipò con Garibaldi a tutte le campagne col gradi di capitano: essi misero in atto, per la prima volta in Europa, la tattica della guerriglia imparata e sperimentata in America, che aveva il potere di gettare scompiglio e panico tra le file austriache abituate all'ordine classico della strategia militare del tempo. A Morazzone si videro 1.300 garibaldini scatenati mettere in fuga 18.000 austriaci!
Leggero seguì il generale in Svizzera, poi a Nizza e a Genova: qui venne arrestato e condannato a morte per la sua diserzione dalla nave Regina a Montevideo. Ma poco dopo, per interessamento di Garibaldi lo ritroviamo col grado di maggiore alle sue dirette dipendenze.Il 27 aprile 1849 il Maggior Leggero entra in Roma alla testa dell'avanguardia garibaldina. Nella battaglia fu un leone: i suoi uomini rimasero galvanizzati dalla sua agilità, dalla fantasia dei suoi attacchi, dall'irruenza con cui affrontava più nemici per volta in corpo a corpo furibondi; e quindi la compagnia fu tra quelle che maggiormente contribuirono alla fuga delle truppe francesi verso Civitavecchia.La Repubblica Romana parve per un breve tratto essere salva. Ma Austria, Spagna e Regno di Napoli le si coalizzano contro: Garibaldi comandò una spedizione contro Napoli e il Maggior Leggero fu alla testa della 4° Centuria. Poi venne la battaglia decisiva di Roma, il 3 giugno, con il famoso episodio di Villa Corsini o Casino dei Quattro Venti, in cui costrinse i francesi alla fuga.
Ma la posizione conquistata non è sostenibile per un pugno di uomini contro un esercito: il Colonnello Masina cade morto; nel cannoneggiamento terribile, viene ferito Goffredo Mameli, l'altro eroico sardo. Leggero resiste fino a notte inoltrata, quando deve ritirarsi ferito a sua volta al corpo, alla testa, a una mano. Ma raggiunse Garibaldi e con lui continuò a combattere per la difesa della porta di S. Pancrazio, finché cadde nuovamente ferito ad un piede. Seguì la necessaria ritirata dei garibaldini e il Maggior Leggero fu creduto morto. Invece si nascose, così ridotto, e soltanto il 29 giugno, cioè dopo 15 giorni, si presentò mezzo morto all'ospedale romano. Lo ricucirono alla meglio; ma il 14 luglio fuggì e si nascose di nuovo, perché il suo unico pensiero era quello di cercare di raggiungere il suo Generale. Gli ci vollero altri 14 giorni per essere in grado di stare in piedi, ma appena ciò fu possibile, partì a cavallo sulle tracce dell'armata garibaldina in fuga, seguendo la pista di uomini sfiniti, sfuggendo all'inseguimento delle pattuglie nemiche senza soste, giorno e notte.
Ritrovò Garibaldi, con Anità già morente, il 1° agosto e ne seguì tutto il calvario fino alla maledetta pineta di Ravenna.: lì erano soli: l'"Eroe dei Due Mondi" nel momento più tragico della sua vita ebbe vicino soltanto il Maggior Leggero, che lo guidò tra boschi e acquitrini fino alla fattoria dei Raviglia, pianse con lui quando Anita spirò alle 19,45 del 4 agosto 1849. Poi, con infinita dolcezza lo sollevò da quel corpo dal quale non pareva non volersi staccare più, e dicendogli piano "Per i tuoi figli... per l'Italia", lo trascinò via, nella fuga. Dicono i testimoni che Garibaldi era affranto, spento, sfinito e che, "appoggiato al silenzioso e costante camerata delle sue battaglie, s'avviò nel buio affidandosi alla fedeltà delle sue guide".Quando, dopo la storica fuga attraverso l'Italia, Garibaldi e Leggero furono arrestati a Chiavari, ebbe inizio per entrambi l'esilio amaro.Fu concessa a Garibaldi una brevissima visita a Nizza per riabbracciare la madre e i figlioletti, poi fu imbarcato col suo inseparabile amico sulla nave Tripoli, diretta per il porto di Tunisi; a loro si unì un'altro garibaldino esule, Luigi Cocelli. Le autorità piemontesi avevano premura di liberarsi di quegli scomodi esuli: appena giunta la nave a Cagliari, il popolo, informato per chissà quali vie della sua presenza a bordo, sbucò fuori da ogni lato per festeggiare Garibaldi. Il Tripoli non attraccò neppure e proseguì per il porto africano, ma qui giunto, il bey rifiutò di far sbarcare il prigioniero. Si dovette far ritorno a Cagliari e l'imbarazzo del governo fu grande.Accadde a questo punto uno di quegli strani giochi del destino che spesso fanno pensare come ogni cosa venga predisposta in una specie di soprammondo; comandava il Tripoli il tenente di vascello Francesco Millelire, della nobile Famiglia maddalenina, e questi convinse le autorità a trasferire Garibaldi nella sua isola, in attesa che si chiarisse la destinazione finale dell'esilio.In effetti la scelta per quel poco simpatico intervallo era tra le due Isole minori sarde, S. Pietro e La Maddalena, ma la prima venne ritenuta troppo vicina a Cagliari, ove non erano sopiti fermenti e malumori tra la popolazione e si preferì accogliere il suggerimento del Millelire. Ai tre prigionieri si aggiunse un quarto garibaldino, Raffaele Teggia; poi il Tripoli fece rotta per l'Arcipelago settentrionale e li sbarcò il 25 settembre 1849 a Cala Gavetta consegnandoli alla responsabilità del comandante militare, tenente colonnello Falchi.Ad accogliere gli esuli al loro arrivo c'era l'intera popolazione: non fu un accogliere, fu un abbraccio a qualcuno che si era lungamente atteso. Il Maggior Leggero, maddalenino, tornava a casa dopo tanti anni9 di disagi e di sofferenze; Garibaldi era l'eroe, il capo, la guida di tutti i figli che se ne erano andati per raggiungere con lui un sogno grande, ma anche di tutti i compagni di mare che navigando ne sentivano narrare le gesta e gli ideali, e di tutte le donne che si sentivano rappresentate nell'ombra di Anita, popolana ed eroica, morta per amore.C'era il sindaco di La Maddalena Nicolò Susini e suo fratello Francesco , il padre di quell'Antonio a cui Garibaldi, partendo da Montevideo, aveva affidato il comando e l'onore della Legione Italiana. Quindi era tra amici più sicuri del vincolo di sangue. E poi c'erano pescatori e marinai, suoi simili, suoi compagni.Subito dopo l'arrivo, i Susini chiesero al tenente colonnello Falchi di poter ospitare Garibaldi e i suoi; ma l'ufficiale non si sentiva di perdere di vista l'importantissimo prigioniero. Perciò si decise che questi avrebbe dormito nell'abitazione del Falchi, che sorgeva su Cala Gavetta, dove oggi ha sede la Guardia di Finanza, e sarebbe stato libero per l'intera giornata di muoversi nell'isola, sulla sua parola d'onore di non allontanarsene per alcun motivo. In tal modo0, Garibaldi visse quei giorni ospite fisso della famiglia Susini e dei Maddalenini, tranne che di notte. Gli altri tre, ebbero dimora presso la famiglia Raffo, sotto la sorveglianza discreta di un certo Paracca.I Susini abitavano sulla piazza del Mercato - di fronte all'attuale Municipio - ed avevano la vigna con una casetta al "Barabò", sul passo della Moneta, proprio di fronte a Caprera. Era stagione di vendemmia e, dal giorno del suo arrivo, Garibaldi si unì agli amici in quel lavoro e si lasciò prendere, con l'immediato e naturale abbandono che gli era proprio, dalla vita semplice e serena di quella gente. Dopo tanto dolore, il silenzio della vigna, il calore dell'amicizia, il moto eterno e distaccato del mare gli ridavano fiducia. Andava a caccia e pesca con Pietro e Nicolò Susini, fratelli di Antonio, poi tornavano a casa e le donne preparavano il pranzo con le loro prede; giocava a bocce con gli uomini de La Maddalena, girava per le vie salutato da tutti, da tutti invitato a mangiare qualcosa insieme, osservava il gioco dei bambini e il lavoro delle donne sulle soglie. E' famoso l'episodio del salvataggio di quattro uomini in mare che Garibaldi operò con straordinario sangue freddo e tempestività e che gli attirò ancor di più l'amore degli isolani.Mentre scorrevano i giorni a la Maddalena, la diplomazia Piemontese, pressata anche dall'Austria e dalla Francia, si dava da fare per trovare una soluzione all'esilio del prigioniero e dobbiamo dire che l'esito fu straordinariamente celere: infatti il 24 ottobre, dopo un solo mese, Garibaldi fu imbarcato sul piroscafo Colombo, diretto a Gibilterra e di qui a Tangeri. Il suo primo incontro con l'arcipelago era finito.
E così nella primavera 1848, due gruppi di Italiani si imbarcarono per l'Europa carichi di un inarrestabile e struggente "furor patrio". Del secondo faceva parte, insieme con Garibaldi ed altri 60 uomini, Giovan Battista Culiolo.
Nell'anno che seguì lo sbarco dei reduci a Genova, fino alla difesa di Roma, Culiolo (Maggior Leggero, cioè il nome di battaglia) non abbandonò mai il suo Generale. Chi fosse esattamente il Maggior Leggero lo si può ricostruire attraverso l'opera del suo Biografo Umberto Beseghi e le parole di profondo affetto di Garibaldi nelle Memorie.
Nacque a La Maddalena il 17 settembre 1813 da Silvestro e Rosa Fienga.
"lLa sua libera educazione infantile - scrive il Beseghi - avvenuta senza freni e senza restrizioni fra scogli e dirupi, scalzo e succintamente vestito, alla caccia di gabbiani, di falchi e di aquile, gli avevano creato lo spirito indomito del guerriero amante della libertà, temprato a tutti gli ardimenti".
Non aveva compiuto gli 11 anni quando si arruolò in Marina; per la sua straordinaria agilità e sveltezza gli fu dato il nome di "leggero". Dopo 15 anni di servizio nella regia armata, ottenne il grado di marinaio di 1° classe. Il 3 marzo 1839, avendo la sua nave fatto scalo a Montevideo, Leggiero disertò per seguire Garibaldi, di cui aveva inteso le gesta. Egli aveva anche appreso sulla nave gli ideali e i programmi della Giovine Italia; si rivolse perciò alla locale sezione comandata da Giovan Battista Cuneo, che lo arruolò nella 1° Legione Italiana. Insieme con Antonio Susini, fu imbarcato sulla piccola flotta di Garibaldi e si batté da prode in tutte le battaglie che questa, sempre impari di forze, dovette sostenere. Quando finivano le munizioni, Leggero gettava nei cannoni tutta la ferraglia che riusciva a racimolare e sparava sventagliate di ferri vecchi sui nemici.Tornato in Italia partecipò con Garibaldi a tutte le campagne col gradi di capitano: essi misero in atto, per la prima volta in Europa, la tattica della guerriglia imparata e sperimentata in America, che aveva il potere di gettare scompiglio e panico tra le file austriache abituate all'ordine classico della strategia militare del tempo. A Morazzone si videro 1.300 garibaldini scatenati mettere in fuga 18.000 austriaci!
Leggero seguì il generale in Svizzera, poi a Nizza e a Genova: qui venne arrestato e condannato a morte per la sua diserzione dalla nave Regina a Montevideo. Ma poco dopo, per interessamento di Garibaldi lo ritroviamo col grado di maggiore alle sue dirette dipendenze.Il 27 aprile 1849 il Maggior Leggero entra in Roma alla testa dell'avanguardia garibaldina. Nella battaglia fu un leone: i suoi uomini rimasero galvanizzati dalla sua agilità, dalla fantasia dei suoi attacchi, dall'irruenza con cui affrontava più nemici per volta in corpo a corpo furibondi; e quindi la compagnia fu tra quelle che maggiormente contribuirono alla fuga delle truppe francesi verso Civitavecchia.La Repubblica Romana parve per un breve tratto essere salva. Ma Austria, Spagna e Regno di Napoli le si coalizzano contro: Garibaldi comandò una spedizione contro Napoli e il Maggior Leggero fu alla testa della 4° Centuria. Poi venne la battaglia decisiva di Roma, il 3 giugno, con il famoso episodio di Villa Corsini o Casino dei Quattro Venti, in cui costrinse i francesi alla fuga.
Ma la posizione conquistata non è sostenibile per un pugno di uomini contro un esercito: il Colonnello Masina cade morto; nel cannoneggiamento terribile, viene ferito Goffredo Mameli, l'altro eroico sardo. Leggero resiste fino a notte inoltrata, quando deve ritirarsi ferito a sua volta al corpo, alla testa, a una mano. Ma raggiunse Garibaldi e con lui continuò a combattere per la difesa della porta di S. Pancrazio, finché cadde nuovamente ferito ad un piede. Seguì la necessaria ritirata dei garibaldini e il Maggior Leggero fu creduto morto. Invece si nascose, così ridotto, e soltanto il 29 giugno, cioè dopo 15 giorni, si presentò mezzo morto all'ospedale romano. Lo ricucirono alla meglio; ma il 14 luglio fuggì e si nascose di nuovo, perché il suo unico pensiero era quello di cercare di raggiungere il suo Generale. Gli ci vollero altri 14 giorni per essere in grado di stare in piedi, ma appena ciò fu possibile, partì a cavallo sulle tracce dell'armata garibaldina in fuga, seguendo la pista di uomini sfiniti, sfuggendo all'inseguimento delle pattuglie nemiche senza soste, giorno e notte.
Ritrovò Garibaldi, con Anità già morente, il 1° agosto e ne seguì tutto il calvario fino alla maledetta pineta di Ravenna.: lì erano soli: l'"Eroe dei Due Mondi" nel momento più tragico della sua vita ebbe vicino soltanto il Maggior Leggero, che lo guidò tra boschi e acquitrini fino alla fattoria dei Raviglia, pianse con lui quando Anita spirò alle 19,45 del 4 agosto 1849. Poi, con infinita dolcezza lo sollevò da quel corpo dal quale non pareva non volersi staccare più, e dicendogli piano "Per i tuoi figli... per l'Italia", lo trascinò via, nella fuga. Dicono i testimoni che Garibaldi era affranto, spento, sfinito e che, "appoggiato al silenzioso e costante camerata delle sue battaglie, s'avviò nel buio affidandosi alla fedeltà delle sue guide".Quando, dopo la storica fuga attraverso l'Italia, Garibaldi e Leggero furono arrestati a Chiavari, ebbe inizio per entrambi l'esilio amaro.Fu concessa a Garibaldi una brevissima visita a Nizza per riabbracciare la madre e i figlioletti, poi fu imbarcato col suo inseparabile amico sulla nave Tripoli, diretta per il porto di Tunisi; a loro si unì un'altro garibaldino esule, Luigi Cocelli. Le autorità piemontesi avevano premura di liberarsi di quegli scomodi esuli: appena giunta la nave a Cagliari, il popolo, informato per chissà quali vie della sua presenza a bordo, sbucò fuori da ogni lato per festeggiare Garibaldi. Il Tripoli non attraccò neppure e proseguì per il porto africano, ma qui giunto, il bey rifiutò di far sbarcare il prigioniero. Si dovette far ritorno a Cagliari e l'imbarazzo del governo fu grande.Accadde a questo punto uno di quegli strani giochi del destino che spesso fanno pensare come ogni cosa venga predisposta in una specie di soprammondo; comandava il Tripoli il tenente di vascello Francesco Millelire, della nobile Famiglia maddalenina, e questi convinse le autorità a trasferire Garibaldi nella sua isola, in attesa che si chiarisse la destinazione finale dell'esilio.In effetti la scelta per quel poco simpatico intervallo era tra le due Isole minori sarde, S. Pietro e La Maddalena, ma la prima venne ritenuta troppo vicina a Cagliari, ove non erano sopiti fermenti e malumori tra la popolazione e si preferì accogliere il suggerimento del Millelire. Ai tre prigionieri si aggiunse un quarto garibaldino, Raffaele Teggia; poi il Tripoli fece rotta per l'Arcipelago settentrionale e li sbarcò il 25 settembre 1849 a Cala Gavetta consegnandoli alla responsabilità del comandante militare, tenente colonnello Falchi.Ad accogliere gli esuli al loro arrivo c'era l'intera popolazione: non fu un accogliere, fu un abbraccio a qualcuno che si era lungamente atteso. Il Maggior Leggero, maddalenino, tornava a casa dopo tanti anni9 di disagi e di sofferenze; Garibaldi era l'eroe, il capo, la guida di tutti i figli che se ne erano andati per raggiungere con lui un sogno grande, ma anche di tutti i compagni di mare che navigando ne sentivano narrare le gesta e gli ideali, e di tutte le donne che si sentivano rappresentate nell'ombra di Anita, popolana ed eroica, morta per amore.C'era il sindaco di La Maddalena Nicolò Susini e suo fratello Francesco , il padre di quell'Antonio a cui Garibaldi, partendo da Montevideo, aveva affidato il comando e l'onore della Legione Italiana. Quindi era tra amici più sicuri del vincolo di sangue. E poi c'erano pescatori e marinai, suoi simili, suoi compagni.Subito dopo l'arrivo, i Susini chiesero al tenente colonnello Falchi di poter ospitare Garibaldi e i suoi; ma l'ufficiale non si sentiva di perdere di vista l'importantissimo prigioniero. Perciò si decise che questi avrebbe dormito nell'abitazione del Falchi, che sorgeva su Cala Gavetta, dove oggi ha sede la Guardia di Finanza, e sarebbe stato libero per l'intera giornata di muoversi nell'isola, sulla sua parola d'onore di non allontanarsene per alcun motivo. In tal modo0, Garibaldi visse quei giorni ospite fisso della famiglia Susini e dei Maddalenini, tranne che di notte. Gli altri tre, ebbero dimora presso la famiglia Raffo, sotto la sorveglianza discreta di un certo Paracca.I Susini abitavano sulla piazza del Mercato - di fronte all'attuale Municipio - ed avevano la vigna con una casetta al "Barabò", sul passo della Moneta, proprio di fronte a Caprera. Era stagione di vendemmia e, dal giorno del suo arrivo, Garibaldi si unì agli amici in quel lavoro e si lasciò prendere, con l'immediato e naturale abbandono che gli era proprio, dalla vita semplice e serena di quella gente. Dopo tanto dolore, il silenzio della vigna, il calore dell'amicizia, il moto eterno e distaccato del mare gli ridavano fiducia. Andava a caccia e pesca con Pietro e Nicolò Susini, fratelli di Antonio, poi tornavano a casa e le donne preparavano il pranzo con le loro prede; giocava a bocce con gli uomini de La Maddalena, girava per le vie salutato da tutti, da tutti invitato a mangiare qualcosa insieme, osservava il gioco dei bambini e il lavoro delle donne sulle soglie. E' famoso l'episodio del salvataggio di quattro uomini in mare che Garibaldi operò con straordinario sangue freddo e tempestività e che gli attirò ancor di più l'amore degli isolani.Mentre scorrevano i giorni a la Maddalena, la diplomazia Piemontese, pressata anche dall'Austria e dalla Francia, si dava da fare per trovare una soluzione all'esilio del prigioniero e dobbiamo dire che l'esito fu straordinariamente celere: infatti il 24 ottobre, dopo un solo mese, Garibaldi fu imbarcato sul piroscafo Colombo, diretto a Gibilterra e di qui a Tangeri. Il suo primo incontro con l'arcipelago era finito.
mercoledì 16 novembre 2011
Stemma nobiliare della famiglia Garibaldi
Giuseppe Garibaldi
(Nizza il 4 luglio 1807 - Caprera 2 giugno 1882)
Giuseppe Garibaldi
viene considerato, con Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini e Camillo Benso, padre della patria.
Garibaldi
Il cognome sembra coniato a posta per lui, o meglio sembrerebbe che il mitico eroe faccia onore al proprio cognome.
Garibaldi è composto da
"gaira" o "gaiza" = "Lancia"
e da
"Baldo" o "baltha" = "audace, coraggioso".
In altre parole Lanciare Coraggioso.
GIUSEPPE
Il nome deriva dall'ebraico Josef e significa "aggiungi ancora". E' il nome maschile più diffuso in Italia.
Giueseppe Garibaldi
Fu il condottiero della spedizione dei Mille avvenuta nel 1860, spedizione che conquistò l'intero Regno delle Due Sicilie. Vedi elenco dei "Mille" garibaldini.
Stemma nobiliare della famiglia Garibaldi dallo stemmario Spreti
Albero nodrito su terrazzo tutto al naturale su troncato di rosso e di azzurro - leone rampante di oro contro l'albero sul terrazzo su azzurro
martedì 15 novembre 2011
MANFREDO FANTI
Manfredo Fanti è nato a Carpi (MO) il 26 febbraio 1806 ed è ricordato quale patriota ed organizzatore dell'esercito italiano.Laureato in matematica, divenne ufficiale del Genio nell'esercito del duca di Mantova; disertò per partecipare ai moti insurrezionali a Rimini (25 marzo 1831) contro le truppe pontificie. Gli insorti però furono vinti e Fanti fu fatto prigioniero. Ricuperata la libertà dapprima emigrò in Francia, poi in Spagna, ed infine ritornò all'inizio della prima guerra di Indipendenza, partecipando alla difesa di Brescia, Milano ed Alessandria. Divenne comandante di brigata e, in pace, deputato al parlamento subalpino.Dopo la disfatta di Novara ed l'abdicazione di Carlo Alberto, nel 1849 Fanti assunse il comando della divisione Lombarda ospitata malvolentieri in Piemonte perché nel comportamento del suo generale, il piemontese Gerolamo Ramorino si volle vedere una delle cause della disfatta di Novara: processato quale reo di disobbedienza fu condannato a morte e fucilato. In attesa che la divisione venisse disciolta, il Fanti le fece giurare fedeltà a Vittorio Emanuele II il 28 marzo 1849. Dal Po furono inviati a Bobbio dove, delusi (perché mai avevano prestato un giuramento in quanto ingaggiati tacitamente per tre anni o fino alla fine della guerra), i soldati ebbero diserzioni e sbandamento.Durante il Sacco di Genova perpetrato dal La Marmora, il Fanti era stato invitato dall'Avezzana a soccorrere Genova ed i mazziniani con la sua divisione. Egli fu dapprima titubante ed insicuro ("io piemontese non porterò le armi contro il Piemonte") e tale era anche la massa di soldati ed ufficiali. Quando scesero a Chiavari furono accolti calorosamente pensando che andassero a Genova utilizzando alcune navi che li aspettavano in rada; ma lui stesso scelse di non venire per rimanere fedele al giuramento prestato, in contraddizione con i principi per i quali era nata la sua divisione. Il Fanti fu tuttavia accusato da La Marmora che lo sospettò di voler accorrere a Genova. Fu processato ed assolto.Nel 1855, preferì tornare alle armi partecipando alla guerra di Crimea, e poi alla seconda guerra di Indipendenza, contribuendo alla vittoria a Magenta, Palestro, San Martino. Tornato alla politica cooperò con Cavour per l'annessione dell'Italia centrale (Toscana, Parma, Modena e Romagna) finché ebbe l'incarico di riorganizzare l'esercito del nuovo stato italiano.Per prima cosa, fondò l'Accademia a Modena di scuola militare e poi, divenuto nel 1860 ministro della guerra e della marina, favorì l'occupazione delle Marche e dell'Umbria fino ad interessarsi della campagna finale del sud con l'incarico di capo di stato maggiore. Negli ultimi anni dopo l'unità d'Italia, occupò sempre mansioni direttive quali ministro della guerra, diplomatico in Francia, senatore. Morì a Firenze il 5 aprile 1865.
lunedì 14 novembre 2011
SANTA MARINELLA FU FONDATA GRAZIE A GARIBALDI
Fu Giuseppe Garibaldi, l’Eroe dei Due Mondi, a consigliare il principe Baldassarre Odescalchi di trasformare il tratto di spiaggia antistante il suo castello in una località di villeggiatura. Nacque così Santa Marinella, destinata a un rapido e fortunato sviluppo.
Lo stemma, moderno, presenta un’ancora e una bella rocca in riva al mare. Un richiamo alle antiche origini è la scritta "Ad Punicum", riferita al porto di Caere che si trovava nel suo territorio e testimonia, con il suo nome, stretti legami con i Cartaginesi e la loro stessa presenza sul luogo, già documentata dal non lontano Santuario di Pyrgi. Qui in epoca romana sorsero numerose ville marittime, tra cui quella appartenuta al senatore Cn. Domizio Annio Ulpiano.
Il Ristorante "il Generale"
Noi non siamo esperti di storia, dunque non ci avventureremo in discorsi sulla figura e l'opera di Giuseppe Garibaldi ma possiamo darvi qualche piccola notizia del perchè il ristorante Il Generale a Caiazzo e perchè proprio questo nome così affascinante ed eroico. Il 18 settembre del 1860 i Cacciatori Bolognesi, un battaglione di giovani garibaldini di poco più di 300 unità al comando Giovan Battista Cattabeni, aveva incautamente varcato il Volturno e occupato Caiazzo.Si trattò di una grave imprudenza perché dal giorno successivo, le truppe borboniche , preponderanti in un rapporto di quattro ad uno assediarono la città in una sanguinosa battaglia di 3 giorni. Di ritorno da Palermo Garibaldi si rese conto che quella sconfitta poteva compromettere le sorti dell’intera spedizione: sia per la gravità delle perdite subite; sia perché quel parziale successo ridavano animo all’esercito di Francesco II.Comprese anche, però, che la lunga ed eroica resistenza dei Cacciatori Bolognesi aveva ritardato e complicato i piani dello stato maggiore borbonico di quel tanto che a lui bastava per riorganizzare e dislocare nel migliore dei modi le forze di cui disponeva, in vista dello scontro finale.Nei primi due giorni del mese di ottobre, nella storica battaglia del volturno, il Generale otterrà la sua più grande vittoria militare e segnerà la fine del regno delle Due Sicilie. Quei giorni saranno ricordati come quelli che decisero l’unità d’Italia. Dunque: “il Generale” è il generale per antonomasia: Giuseppe Garibaldi. Perché.Cercavamo un nome che avesse sia a che fare con Caiazzo e la provincia di Caserta, ma che fosse tale da assumere valenze ulteriori, che fosse significativo anche e soprattutto al di fuori degli angusti confini di Terra di Lavoro, se è vero che qui sono accaduti fatti così importanti per L’Italia intera.
Cercavamo un nome che parlasse del Mediterraneo, che rappresentasse l’animo avventuroso, la genialità, le passioni che distinguono le genti che popolano le sue sponde.
Questo è l’itinerario che ci ha portati ad incontrare il nome di Giuseppe Garibaldi. Scegliendolo riproponiamo la sua realtà e il suo mito, la sua nobiltà e le sue contraddizioni, il suo coraggio e le sue rinunce.
Cercavamo un nome che parlasse del Mediterraneo, che rappresentasse l’animo avventuroso, la genialità, le passioni che distinguono le genti che popolano le sue sponde.
Questo è l’itinerario che ci ha portati ad incontrare il nome di Giuseppe Garibaldi. Scegliendolo riproponiamo la sua realtà e il suo mito, la sua nobiltà e le sue contraddizioni, il suo coraggio e le sue rinunce.
domenica 13 novembre 2011
L’agguato di San Biagio
Era una fredda mattinata di marzo del 1858. Infreddoliti e un pò assonnati, i gendarmi borbonici se ne stavano acquattati fra i cespugli di San Biagio ai lati del sentiero che, da Campanelli, saliva a Furnia per poi proseguire verso Patia, Jimmella e San Giovanni in Fiore. Di fronte a loro, poco più in basso, distinguevano, nella luce incerta dell’alba, la sagoma della "Chiesuola", la piccola icona che ospitava il povero quadro del santo al quale faceva riferimento il toponimo.
Erano lì da alcune ore da quando in paese si era sparsa rapidamente la notizia dell’ultima, efferata strage di alcuni pastori di Tenimento che erano stati attaccati e depredati, la sera prima, da una banda di masnadieri. Le modalità dell’impresa e la crudeltà mostrata dai briganti non lasciavano dubbi: si trattava, quasi sicuramente, della banda di Zirricu, il crudele fuorilegge che infestava la zona.
Da molto tempo si sapeva che la feroce accozzaglia di briganti trovava rifugio nel bosco di Eydo, ma, nonostante numerose battute, non si era mai riusciti a intercettare e sgominare la banda, anche perché i fuorilegge conoscevano a menadito la zona e potevano contare su una fitta rete di informatori e complici che, all’occorrenza, li metteva a conoscenza delle mosse dei gendarmi. Questa volta, però, contando sul fatto che la notizia dell’ultima bravata era giunta in paese in un baleno e che i banditi non potevano esserne a conoscenza, i gendarmi pensarono di cogliere di sorpresa i criminali. Sicuramente, per raggiungere il bosco di Eydo e mettersi al sicuro Zirricu e soci avrebbero percorso quel sentiero e, dunque, sarebbe stato facile tendere loro un agguato proprio a San Biagio.
Ed ecco all’alba spuntare giù in fondo, a mezza costa, la comitiva dei briganti armati fino ai denti e carica di bottino. Avanzavano lentamente per la stanchezza e per il peso delle ruberie che si trascinavano dietro sicuri, anche questa volta, di farla franca. I gendarmi trattennero il fiato, puntarono gli schioppi e si preparano ad accoglierli a fucilate. Attesero qualche minuto: ancora pochi metri e i criminali sarebbero stati a tiro. Poche schioppettate sarebbero state sufficienti a porre fine alla carriera di uno dei più spietati criminali che aveva terrorizzato le nostre contrade e della sua feroce combriccola. Era orami questione di attimi. All’improvviso, quando tutti trattenevano il fiato e le dita sui grilletti erano pervase da uno strano formicolio, uno starnuto ruppe quel silenzio irreale e dal fucile del malcapitato gendarme partì accidentalmente un colpo. Colti alla sprovvista tutti gli altri scaricarono le loro armi in direzione del gruppo di briganti che si gettarono lestamente a terra. Fu questione di un secondo, poi i bricconi si levarono prestamente e si diedero ad una fuga precipitosa lungo il pendio verso Campanelli. I gendarmi si gettarono all’inseguimento, ma era oramai chiaro che, almeno il grosso della banda l’avrebbe fatta franca. Mentre tutti correvano a precipizio lungo la scarpata, uno dei gaglioffi inciampò, cadde a terra, urlò di dolore. Cercò di rialzarsi, ma ricadde: si era fratturato una gamba. In quelle condizioni sarebbe certamente caduto in mano dei gendarmi che lo avrebbero torturato, fatto cantare, rivelare il nascondiglio della banda. Si vide allora il terribile Zirricu tornare indietro precipitosamente armato di una grossa scure. Si avvicinò al malcapitato compagno che implorava aiuto e, con un colpo netto, gli recise il capo. Poi afferrò il macabro trofeo, lo infilò lestamente in un sacco e se la diede a gambe sotto gli occhi attoniti e atterriti dei gendarmi. Qualche tempo dopo il suo stesso capo, troncato dalla mannaia di un compare fellone passato dalla parte della legge, venne esposto per due giorni su un cippo in piazza Umberto a monito per la popolazione.
Erano lì da alcune ore da quando in paese si era sparsa rapidamente la notizia dell’ultima, efferata strage di alcuni pastori di Tenimento che erano stati attaccati e depredati, la sera prima, da una banda di masnadieri. Le modalità dell’impresa e la crudeltà mostrata dai briganti non lasciavano dubbi: si trattava, quasi sicuramente, della banda di Zirricu, il crudele fuorilegge che infestava la zona.
Da molto tempo si sapeva che la feroce accozzaglia di briganti trovava rifugio nel bosco di Eydo, ma, nonostante numerose battute, non si era mai riusciti a intercettare e sgominare la banda, anche perché i fuorilegge conoscevano a menadito la zona e potevano contare su una fitta rete di informatori e complici che, all’occorrenza, li metteva a conoscenza delle mosse dei gendarmi. Questa volta, però, contando sul fatto che la notizia dell’ultima bravata era giunta in paese in un baleno e che i banditi non potevano esserne a conoscenza, i gendarmi pensarono di cogliere di sorpresa i criminali. Sicuramente, per raggiungere il bosco di Eydo e mettersi al sicuro Zirricu e soci avrebbero percorso quel sentiero e, dunque, sarebbe stato facile tendere loro un agguato proprio a San Biagio.
Ed ecco all’alba spuntare giù in fondo, a mezza costa, la comitiva dei briganti armati fino ai denti e carica di bottino. Avanzavano lentamente per la stanchezza e per il peso delle ruberie che si trascinavano dietro sicuri, anche questa volta, di farla franca. I gendarmi trattennero il fiato, puntarono gli schioppi e si preparano ad accoglierli a fucilate. Attesero qualche minuto: ancora pochi metri e i criminali sarebbero stati a tiro. Poche schioppettate sarebbero state sufficienti a porre fine alla carriera di uno dei più spietati criminali che aveva terrorizzato le nostre contrade e della sua feroce combriccola. Era orami questione di attimi. All’improvviso, quando tutti trattenevano il fiato e le dita sui grilletti erano pervase da uno strano formicolio, uno starnuto ruppe quel silenzio irreale e dal fucile del malcapitato gendarme partì accidentalmente un colpo. Colti alla sprovvista tutti gli altri scaricarono le loro armi in direzione del gruppo di briganti che si gettarono lestamente a terra. Fu questione di un secondo, poi i bricconi si levarono prestamente e si diedero ad una fuga precipitosa lungo il pendio verso Campanelli. I gendarmi si gettarono all’inseguimento, ma era oramai chiaro che, almeno il grosso della banda l’avrebbe fatta franca. Mentre tutti correvano a precipizio lungo la scarpata, uno dei gaglioffi inciampò, cadde a terra, urlò di dolore. Cercò di rialzarsi, ma ricadde: si era fratturato una gamba. In quelle condizioni sarebbe certamente caduto in mano dei gendarmi che lo avrebbero torturato, fatto cantare, rivelare il nascondiglio della banda. Si vide allora il terribile Zirricu tornare indietro precipitosamente armato di una grossa scure. Si avvicinò al malcapitato compagno che implorava aiuto e, con un colpo netto, gli recise il capo. Poi afferrò il macabro trofeo, lo infilò lestamente in un sacco e se la diede a gambe sotto gli occhi attoniti e atterriti dei gendarmi. Qualche tempo dopo il suo stesso capo, troncato dalla mannaia di un compare fellone passato dalla parte della legge, venne esposto per due giorni su un cippo in piazza Umberto a monito per la popolazione.
sabato 12 novembre 2011
Il brigantaggio post unitario
Il primo episodio di reazione al nuovo ordine costituito e al nuovo re d’Italia si verificò nei primi giorni di luglio del 1861 quando orde di briganti percorsero "impunemente, a mano armata, gridando Viva Francesco II, con la bandiera bianca alzata", come scrive in una lettera l’Intendente di Crotone al Governatore della Provincia di Calabria Ultra II° il territorio caccurese. Nella notte tra il 6 ed il 7 dello stesso mese, i rivoltosi inalberarono una bandiera bianca borbonica sul campanile della Chiesa Madre di Santa Maria delle Grazie. In paese accorse immediatamente la Guardia Nazionale di San Giovanni in Fiore e, subito dopo, una colonna mobile dell’Armata italiana. Intanto insorsero anche Savelli, e Cotronei e la rivolta si estese a tutto il Marchesato. La rivolta caccurese, comunque, quantunque domata, continuava a preoccupare il comandante del distaccamento Magni inviato in paese, tanto che lo stesso, il giorno 10, richiese l’intervento della squadriglia della Guardia Nazionale mobilizzata di San Giovanni in Fiore. Il giorno dopo il tenente Magni si recò ad Altilia ed i briganti, nella notte, attaccarono Caccuri, ma vennero respinti. La colonna dell’esercito italiano rimase a Caccuri per molto tempo e da qui mosse spesso contro le orde di briganti che attaccavano ripetutamente la vicina Cotronei dove il 14 agosto la popolazione, unita ai rivoltosi, respinse più volte i soldati che tentavano di penetrarvi per ristabilire l’ordine. Intanto il 15 agosto il generale Cialdini emanò la norme che concedevano benefici ai briganti che si presentavano spontaneamente, ma già il 3 dello stesso mese tre briganti reazionari caccuresi, Rocco e Vincenzo Gabriele Perri e Vincenzo Mancuso, si erano presentati al sindaco per usufruire dell’amnistia del generale Della Chiesa. Il pericolo corso dal paese e la necessità di garantire in futuro l’ordine pubblico, portò alla costituzione, anche a Caccuri, del ruolo permanente della Guardia Nazionale mobilizzata in base alla legge del 4 agosto 1861. Vennero così arruolate 8 guardie caccuresi di età compresa tra i 22 e i 31 anni. Essi erano: Domenico Falbo, Achille Gigliotti, Giovanni Ruggero, Santo Aiello, Giuseppe Falbo, Gaetano Marino, Ferdinando Belcastro e Luigi Allevato. L’esercito rimase a Caccuri per molti mesi, poi, pian piano, le rivolte furono sedate e l’opposizione al nuovo governo passò dalla lotta armata ai mugugni ed alle critiche. L’ultimo episodio di cui si ha notizia è il processo intentato ad Angelo Segreto detto Panicauro (Pan caldo) di 53 anni, mulattiere, accusato di "pubblico discorso col reo fine di eccitare il disprezzo ed il malcontento contro il governo" e condannato dalla Pretura di Savelli il 6 settembre del 1865.
venerdì 11 novembre 2011
BRIGANTAGGIO A CACCURI DAL 1815 al 1861
Dopo un breve periodo di relativa calma che coincise con il ritorno sul trono di Napoli dei Borboni, il brigantaggio, divenuto oramai un male endemico, riesplose più forte che mai nelle nostre contrade. Per la verità gli episodi criminali non erano mai del tutto cessati e bande di taglia gole continuavano a scorrazzare per la zona devastando e saccheggiando anche subito dopo il 1815, ma fu dopo il 1820 che il "brigantaggio politico", come insofferenza al regime borbonico, prese di nuovo ad intrecciarsi con le ordinarie vicende di criminalità comune.La notte del 18 febbraio del 1827 Giuseppe Meluso, detto il Nivaro, assieme ad altri suoi compagni, ingaggiò un conflitto a fuoco con la Guardia urbana di Caccuri. A circa un anno di distanza, il 6 luglio del 1826, assieme al compaesano Ignazio Foglia e a Tommaso Grande di Casino (l’attuale Castelsilano) attaccò la Guardia urbana di quest’ultimo paesino. Il processo per questi fatti si celebrò il 5 dicembre del 1834 e si chiuse con la condanna del Meluso che, però, riuscì a rifugiarsi a Corfù dove si nascose facendosi chiamare Battistino Belcastro. Da lì tornerà in Calabria al seguito dei Bandiera e riuscirà a sfuggire anche all’agguato della Stragola. Nel 1842 la Guardia urbana di Cerenzia, coadiuvata dai guardiani del barone Barracco, sgominò la banda del brigante Panazzo di Casabona che, da anni, imperversava nella zona ed aveva come base operativa una piccola valle in territorio di Caccuri che, ancora oggi, porta il suo nome.
Il 1844 fu l’anno della spedizione dei Bandiera alla quale il Meluso era stato aggregato per la perfetta conoscenza dei luoghi. Nel 1847 si celebrò il processo contro il caccurese Francesco Saverio Segreto che, insieme ad un gruppo di altri briganti, aveva tentato di assassinare il gendarme reale Bartolomeo Bucchianico e la guardia urbana caccurese Vincenzo Cosenza nel corso di un agguato teso loro in località Tenimento.
L’anno dopo vennero catturati tre noti briganti caccuresi: Vincenzo Miliè, Filippo Pellegrini e Andrea Lacaria. Qualche anno dopo si realizzò l’Unità d’Italia ed il brigantaggio politico cambiò ancora una volta bersaglio.
Il 1844 fu l’anno della spedizione dei Bandiera alla quale il Meluso era stato aggregato per la perfetta conoscenza dei luoghi. Nel 1847 si celebrò il processo contro il caccurese Francesco Saverio Segreto che, insieme ad un gruppo di altri briganti, aveva tentato di assassinare il gendarme reale Bartolomeo Bucchianico e la guardia urbana caccurese Vincenzo Cosenza nel corso di un agguato teso loro in località Tenimento.
L’anno dopo vennero catturati tre noti briganti caccuresi: Vincenzo Miliè, Filippo Pellegrini e Andrea Lacaria. Qualche anno dopo si realizzò l’Unità d’Italia ed il brigantaggio politico cambiò ancora una volta bersaglio.
giovedì 10 novembre 2011
Jessie White Mario
Il fascino che si coglie nella figura di Jessie White Mario, una donna di origini inglesi che seguì Garibaldi nelle sue imprese per oltre vent'anni, apre una finestra sui personaggi femminili del nostro Risorgimento, che molte volte ricoprirono parte attiva nel corso degli eventi, offrendo un contributo assai generoso e coraggioso alla causa dell'indipendenza italiana, e che spesso, nei testi storici, si ha poca occasione di porre sotto lente di ingrandimento.
Dopo l'incontro tra i due a Nizza, divenne l’infermiera dei garibaldini, e con estremo entusiasmo, abbracciò questo compito al seguito dell'eroe dei Mille, pronta a sfidare ogni sorta di pericolo, anche a rischiare la prigione e la vita, per seguire il Generale.
Jessie White, nacque a Gosport, vicino Portsmouth, nel 1832, da un’abbiente famiglia di armatori, che in seguito si trovarono in difficoltà, dovute alla comparsa delle navi a vapore, che rendevano ormai compassati i loro velieri.Ebbe un'infanzia dura:i suoi genitori avevano due valori guida nella loro esistenza: la preghiera ed il lavoro, ma questa obbligata sottomissione, alimentò ben presto nella giovane Jessie, uno spirito ribelle.Sotto l'aspetto gentile, albergava in lei una forza incredibile, un'indole polemica e passionale, nonchè una certa vena autoritaria ed intollerante.Frequentò poi una delle migliori scuole di Londra e nel 1852, (anno in cui avvenne il colpo di stato del futuro Napoleone III) all’età di vent'anni, terminati gli studi, domandò al padre di potersi trasferire a Parigi per frequentare la Sorbona, ove prese parte a circolistudenteschi liberali e repubblicani.Si recò in seguito a Nizza, accompagnando un'amica di famiglia, Emma Roberts, lì conobbe Garibaldi che era tornato nella sua città natale, dopo l'esilio a New York, causato dalla caduta della Repubblica romana.Ella conosceva a fondo i problemi italiani, dolendosi fortemente per la sconfitta del '49 ad opera francese.La giovane, durante il periodo alla Sorbona, aveva maturato anche una profonda ammirazione per Mazzini, cosa che non trovò mai consenziente Garibaldi, ma vedendola così intensamente animata, la ragazza riuscì ad ottenere che nel caso di azione, egli l'avrebbe immediatamente chiamata, mentre lei nel frattempo avrebbe studiato medicina per poter soccorrere i feriti.Ella prestò servizio nelle corsie degli ospedali, studiò trattati di medicina, organizzando al contempo conferenze per perorare la causa italiana.A Londra cercò di farsi ammettere alla facoltà di medicina, ma incassò sempre rifiuti, perché la società inglese non accettava all'epoca che una donna potesse diventare medico.Nel 1856, Jessie, che aveva tenuto anche fitta corrispondenza con Mazzini, si recò a Genova per incontrarsi proprio col medesimo e definire i particolari dell'insurrezione.Ella tornò poi a Londra per raccogliere fondi per l'impresa e scrisse a Garibaldi, spiegandogli il progetto mazziniano ed invitandolo ad unirsi ad esso, ma egli non le dette l'assenso sperato.Jessie però non si perse d'animo, e si accordò col "Daily News" per inviare delle corrispondenze, girando la Penisola.A Genova, la donna accrebbe la sua altissima stima ed ammirazione per Mazzini e divenne amica di tutti i patrioti.Tornata a Londra per richiedere nuovamente ed infruttuosamente l'ammissione alla facoltà di medicina, fu presto di ritorno in Italia, nel 1857.Qui si recò prontamente a trovare Mazzini, nascosto in casa di un patriota che lo ospitava:era il giovane veneto Alberto Mario, che diverrà in seguito suo marito.La spedizione di Sapri si concluse con un fallimento e la morte di Carlo Pisacane(il quale precedentemente aveva consegnato a Jessie stessa il suo diario), così come naufragò l’insurrezione mazziniana del 29 giugno 1857, e così il 4 luglio, tutti i cospiratori furono arrestati, tra cui la White stessa e Alberto Mario.Appena liberata, venne espulsa, e andò prima a Ginevra e poi a Londra.Alberto Mario la raggiunse a Gosport, presso la casa paterna della ragazza, ed ivi la prese in moglie.Alla fine del 1857 la White Mario si recò col marito a trovare Mazzini in esilio a Londra.Alla fine del 1858 i due coniugi raggiunsero New York per far propaganda alla causa italiana ed il "New York Herald" dedicò un articolo alla conferenza di Jessie, nel corso della quale ella si scagliò durissima contro la monarchia piemontese.Nel 1859, la notizia che Napoleone III era in procinto di intervenire contro l'Austria in favore dei piemontesi, fece sì che i coniugi Mario si imbarcassero immediatamente da New York per seguire Garibaldi, ma purtroppo giunsero troppo tardi, poichè era stato già firmato l'armistizio di Villafranca:furono arrestati primainVeneto e poi a Ferrara e Bologna.Considerati spie liberali, furono imprigionati per un mese e poi furono espulsi dal paese.Ripararono in Svizzera, dove il marito poté finalmente frequentare Carlo Cattaneo, di cui aveva sposato il pensiero, ritenendo ormai troppo vaghe e fumose le idee mazziniane.
Nel maggio del 1860, all’indomani della spedizione dei Mille, Jessie che era tornata a Genova, il 10 giugno si imbarcò per Palermo sulla nave “Washington”colma di volontari, medici italiani e stranieri pronti ad unirsi all’impresa dell’eroe.La donna, in presenza di Garibaldi, domandò di poter organizzare un corpo di ambulanze per “l’esercito nazionale”.Infermiera dei garibaldini, Jessie divenne sempre più popolare fra le truppe, per la sua resistenza fisica ed il suo ottimismo.I coniugi Mario, seguirono il Generale dalla Sicilia sino a Napoli, sfidando con spirito intrepido le cannonate borboniche, tanto che, a campagna finita, i napoletani donarono due medaglie d’oro alla donna in segno di gratitudine.Jessie aprì anche il primo ospedale garibaldino, facendosi aiutare dall’associazione inglese delle Signore di Garibaldi, istituita a Londra dalla contessa di Shaftesbury.Garibaldi il 4 settembre 1860, fece il suo ingresso trionfale a Napoli ed ancora una volta, la White fu presente all’evento.Quando il 1° ottobre, si svolse la battaglia decisiva sul Volturno, Jessie giunse temerariamente con la sua ambulanza sulla linea di conflitto.Fu uno degli scontri più cruenti di quelli dei Mille, ma la ragazza non temeva la visione della morte, piuttosto, ciò che la colpì intimamente ed amaramente fu l’incontro a Teano, con cui il suo Generale consegnò a Vittorio Emanuele II le terre liberate.Nel 1861, la White era già famosa:scrisse su molti giornali, il “Daily Star”, lo “Scotsman”, e la “Naciòn”di Buenos Aires ed essi dedicavano alla sua figura grande attenzione.Nel 1862, Jessie non fece in tempo a raggiungere Garibaldi che era partito alla conquista di Roma.Il 29 agosto di quell’anno, in Aspromonte, i regolari piemontesi sparando sui garibaldini, ferirono il condottiero, e quando la giovane riuscì a raggiungere il luogo della battaglia, era già tutto finito, ma anche in questo caso, indomita raggiunse la fortezza del Varignano dove il Generale era stato portato prigioniero, per assistere il dottor Zanotti che rimuoveva la pallottola dal piede destro dell’eroe.Nel 1864, Garibaldi compì il suo famoso viaggio in terra inglese, che grazie all’efficacissima propaganda della White, si rivelò un vero trionfo.Nello stesso anno, Jessie e Alberto Mario si trasferirono a vivere a Firenze, dove la donna aveva intessuto fitta rete di rapporti con tutto il mondo repubblicano e mazziniano.Nel 1865 Jessie rimase molto impressionata dall’invito che il presidente americano Lincoln rivolse a Garibaldi, per domandargli di assumere il comando dell’esercito dell’Unione contro i secessionisti del Sud, ed ella su questo tema, scrisse il pamphlet “La schiavitù e la guerra civile americana”.Nel 1866, la donna corse sino in Trentino per seguire la campagna di Garibaldi fino al famoso “Obbedisco”, che l’eroe pronunciò, perché gli italiani, più volte battuti, rinunciarono a combattere oltre.Nel 1867, Jessie seguì ancora Garibaldi nell’impresa romana e, mentre si maturava la tragedia di Mentana, ella si recò a recuperare il corpo di Enrico Cairoli ucciso a Villa Glori.Venne allora fatta prigioniera dai francesi, vedendo tristemente scorrere cinquanta vetture cariche di garibaldini catturati.L’8 settembre del medesimo anno, seguì Garibaldi, Benedetto Cairoli ed altri fedelissimi al Congresso internazionale di Ginevra, cui partecipò anche lo scrittore russo Dostoevskij.
Nel 1870, Jessie seguì ancora una volta il Generale in Francia, a Digione, nel corso della guerra franco-prussiana, conclusasi con la sconfitta e la cattura di Napoleone III.
La White tornò poi in Italia e da quel momento, all’età di quarant’anni, decise di rinunciare all’azione e di scrivere:scrisse indefessamente, malgrado la menomazione che in seguito la colpì, una paralisi alle tre dita della mano destra.Scrisse per la “Nuova Antologia” e per molti quotidiani e riviste, si dedicò agli studi, ai libri, alle memorie di una vita , ponendo in essere poi l’immenso desiderio di realizzare una biografia del suo eroe.All’inizio del 1881 cominciò a lavorare alla biografia di Garibaldi ed essa uscì a Milano, edita da Treves, negli stessi giorni della morte del Generale, che si spense a Caprera il 2 giugno 1882.Nei mesi successivi alla scomparsa di Garibaldi, la biografia di Jessie incontrò un enorme successo.Ma Treves, domandò alla White di approfondire quella “Vita di Garibaldi” per plasmare uno straordinario ritratto del Risorgimento, analizzando anche tutti i personaggi che erano gravitati intorno all’eroe, dando vita così ad una nuova opera che fu “Garibaldi e i suoi tempi”.
Jessie, conoscendo tutto di Garibaldi e dei garibaldini dopo averli seguiti per vent’anni, come loro infermiera, vide nell’azione del Generale, un disegno divino, una sorta di laica provvidenza.
Purtroppo, nella narrazione di questo ricco e vivido racconto, ella sorvolò alquanto sui contrasti tra Mazzini e Garibaldi, che pure meglio di chiunque altro aveva avuto sotto l’occhio di osservatrice privilegiata, e quasi finse che l’ala risorgimentale di sinistra non fosse stata travagliata da enormi dissidi.Il 2 giugno 1883 a Lendinara, dove nacque, si spense suo marito, Alberto Mario, ad un anno esatto dalla morte di Garibaldi.Jessie trascorse gli oltre vent’anni che gli sopravvisse in ristrettezze, insegnando inglese all’istituto di magistero femminile a Firenze, con la mano destra ormai quasi inutilizzabile, vivendo in un casa ricca di immagini ed un salotto in cui troneggiavano un ritratto con dedica di Garibaldi, quello di Carducci che aveva pubblicato le opere di suo marito, quello di Agostino Bertani e due dell’amato consorte, girando per la sua dimora con indosso la camicia rossa garibaldina e portando sul petto le medaglie ricevute nel corso delle varie campagne.
Nel 1906, Jessie White Mario morì a Firenze, e poi le sue ceneri furono condotte a Lendinara, ove riposano accanto a quelle del marito.Nella commemorazione che ne fece la “Nacìon” di Buenos Aires, venne ricordato che tra il 1866 ed il 1906, la donna scrisse 143 articoli e molti libri su Garibaldi.
Al momento del trapasso, ella stava scrivendo la storia dell’unificazione italiana che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere un’opera di divulgazione per il popolo.
“The birth of Modern Italy”, fu pubblicato postumo a Londra nel 1909, ed ottenne immenso successo, tanto che forse avrebbe reso ricca l’autrice, che invece morì povera.
Dopo l'incontro tra i due a Nizza, divenne l’infermiera dei garibaldini, e con estremo entusiasmo, abbracciò questo compito al seguito dell'eroe dei Mille, pronta a sfidare ogni sorta di pericolo, anche a rischiare la prigione e la vita, per seguire il Generale.
Jessie White, nacque a Gosport, vicino Portsmouth, nel 1832, da un’abbiente famiglia di armatori, che in seguito si trovarono in difficoltà, dovute alla comparsa delle navi a vapore, che rendevano ormai compassati i loro velieri.Ebbe un'infanzia dura:i suoi genitori avevano due valori guida nella loro esistenza: la preghiera ed il lavoro, ma questa obbligata sottomissione, alimentò ben presto nella giovane Jessie, uno spirito ribelle.Sotto l'aspetto gentile, albergava in lei una forza incredibile, un'indole polemica e passionale, nonchè una certa vena autoritaria ed intollerante.Frequentò poi una delle migliori scuole di Londra e nel 1852, (anno in cui avvenne il colpo di stato del futuro Napoleone III) all’età di vent'anni, terminati gli studi, domandò al padre di potersi trasferire a Parigi per frequentare la Sorbona, ove prese parte a circolistudenteschi liberali e repubblicani.Si recò in seguito a Nizza, accompagnando un'amica di famiglia, Emma Roberts, lì conobbe Garibaldi che era tornato nella sua città natale, dopo l'esilio a New York, causato dalla caduta della Repubblica romana.Ella conosceva a fondo i problemi italiani, dolendosi fortemente per la sconfitta del '49 ad opera francese.La giovane, durante il periodo alla Sorbona, aveva maturato anche una profonda ammirazione per Mazzini, cosa che non trovò mai consenziente Garibaldi, ma vedendola così intensamente animata, la ragazza riuscì ad ottenere che nel caso di azione, egli l'avrebbe immediatamente chiamata, mentre lei nel frattempo avrebbe studiato medicina per poter soccorrere i feriti.Ella prestò servizio nelle corsie degli ospedali, studiò trattati di medicina, organizzando al contempo conferenze per perorare la causa italiana.A Londra cercò di farsi ammettere alla facoltà di medicina, ma incassò sempre rifiuti, perché la società inglese non accettava all'epoca che una donna potesse diventare medico.Nel 1856, Jessie, che aveva tenuto anche fitta corrispondenza con Mazzini, si recò a Genova per incontrarsi proprio col medesimo e definire i particolari dell'insurrezione.Ella tornò poi a Londra per raccogliere fondi per l'impresa e scrisse a Garibaldi, spiegandogli il progetto mazziniano ed invitandolo ad unirsi ad esso, ma egli non le dette l'assenso sperato.Jessie però non si perse d'animo, e si accordò col "Daily News" per inviare delle corrispondenze, girando la Penisola.A Genova, la donna accrebbe la sua altissima stima ed ammirazione per Mazzini e divenne amica di tutti i patrioti.Tornata a Londra per richiedere nuovamente ed infruttuosamente l'ammissione alla facoltà di medicina, fu presto di ritorno in Italia, nel 1857.Qui si recò prontamente a trovare Mazzini, nascosto in casa di un patriota che lo ospitava:era il giovane veneto Alberto Mario, che diverrà in seguito suo marito.La spedizione di Sapri si concluse con un fallimento e la morte di Carlo Pisacane(il quale precedentemente aveva consegnato a Jessie stessa il suo diario), così come naufragò l’insurrezione mazziniana del 29 giugno 1857, e così il 4 luglio, tutti i cospiratori furono arrestati, tra cui la White stessa e Alberto Mario.Appena liberata, venne espulsa, e andò prima a Ginevra e poi a Londra.Alberto Mario la raggiunse a Gosport, presso la casa paterna della ragazza, ed ivi la prese in moglie.Alla fine del 1857 la White Mario si recò col marito a trovare Mazzini in esilio a Londra.Alla fine del 1858 i due coniugi raggiunsero New York per far propaganda alla causa italiana ed il "New York Herald" dedicò un articolo alla conferenza di Jessie, nel corso della quale ella si scagliò durissima contro la monarchia piemontese.Nel 1859, la notizia che Napoleone III era in procinto di intervenire contro l'Austria in favore dei piemontesi, fece sì che i coniugi Mario si imbarcassero immediatamente da New York per seguire Garibaldi, ma purtroppo giunsero troppo tardi, poichè era stato già firmato l'armistizio di Villafranca:furono arrestati primainVeneto e poi a Ferrara e Bologna.Considerati spie liberali, furono imprigionati per un mese e poi furono espulsi dal paese.Ripararono in Svizzera, dove il marito poté finalmente frequentare Carlo Cattaneo, di cui aveva sposato il pensiero, ritenendo ormai troppo vaghe e fumose le idee mazziniane.
Nel maggio del 1860, all’indomani della spedizione dei Mille, Jessie che era tornata a Genova, il 10 giugno si imbarcò per Palermo sulla nave “Washington”colma di volontari, medici italiani e stranieri pronti ad unirsi all’impresa dell’eroe.La donna, in presenza di Garibaldi, domandò di poter organizzare un corpo di ambulanze per “l’esercito nazionale”.Infermiera dei garibaldini, Jessie divenne sempre più popolare fra le truppe, per la sua resistenza fisica ed il suo ottimismo.I coniugi Mario, seguirono il Generale dalla Sicilia sino a Napoli, sfidando con spirito intrepido le cannonate borboniche, tanto che, a campagna finita, i napoletani donarono due medaglie d’oro alla donna in segno di gratitudine.Jessie aprì anche il primo ospedale garibaldino, facendosi aiutare dall’associazione inglese delle Signore di Garibaldi, istituita a Londra dalla contessa di Shaftesbury.Garibaldi il 4 settembre 1860, fece il suo ingresso trionfale a Napoli ed ancora una volta, la White fu presente all’evento.Quando il 1° ottobre, si svolse la battaglia decisiva sul Volturno, Jessie giunse temerariamente con la sua ambulanza sulla linea di conflitto.Fu uno degli scontri più cruenti di quelli dei Mille, ma la ragazza non temeva la visione della morte, piuttosto, ciò che la colpì intimamente ed amaramente fu l’incontro a Teano, con cui il suo Generale consegnò a Vittorio Emanuele II le terre liberate.Nel 1861, la White era già famosa:scrisse su molti giornali, il “Daily Star”, lo “Scotsman”, e la “Naciòn”di Buenos Aires ed essi dedicavano alla sua figura grande attenzione.Nel 1862, Jessie non fece in tempo a raggiungere Garibaldi che era partito alla conquista di Roma.Il 29 agosto di quell’anno, in Aspromonte, i regolari piemontesi sparando sui garibaldini, ferirono il condottiero, e quando la giovane riuscì a raggiungere il luogo della battaglia, era già tutto finito, ma anche in questo caso, indomita raggiunse la fortezza del Varignano dove il Generale era stato portato prigioniero, per assistere il dottor Zanotti che rimuoveva la pallottola dal piede destro dell’eroe.Nel 1864, Garibaldi compì il suo famoso viaggio in terra inglese, che grazie all’efficacissima propaganda della White, si rivelò un vero trionfo.Nello stesso anno, Jessie e Alberto Mario si trasferirono a vivere a Firenze, dove la donna aveva intessuto fitta rete di rapporti con tutto il mondo repubblicano e mazziniano.Nel 1865 Jessie rimase molto impressionata dall’invito che il presidente americano Lincoln rivolse a Garibaldi, per domandargli di assumere il comando dell’esercito dell’Unione contro i secessionisti del Sud, ed ella su questo tema, scrisse il pamphlet “La schiavitù e la guerra civile americana”.Nel 1866, la donna corse sino in Trentino per seguire la campagna di Garibaldi fino al famoso “Obbedisco”, che l’eroe pronunciò, perché gli italiani, più volte battuti, rinunciarono a combattere oltre.Nel 1867, Jessie seguì ancora Garibaldi nell’impresa romana e, mentre si maturava la tragedia di Mentana, ella si recò a recuperare il corpo di Enrico Cairoli ucciso a Villa Glori.Venne allora fatta prigioniera dai francesi, vedendo tristemente scorrere cinquanta vetture cariche di garibaldini catturati.L’8 settembre del medesimo anno, seguì Garibaldi, Benedetto Cairoli ed altri fedelissimi al Congresso internazionale di Ginevra, cui partecipò anche lo scrittore russo Dostoevskij.
Nel 1870, Jessie seguì ancora una volta il Generale in Francia, a Digione, nel corso della guerra franco-prussiana, conclusasi con la sconfitta e la cattura di Napoleone III.
La White tornò poi in Italia e da quel momento, all’età di quarant’anni, decise di rinunciare all’azione e di scrivere:scrisse indefessamente, malgrado la menomazione che in seguito la colpì, una paralisi alle tre dita della mano destra.Scrisse per la “Nuova Antologia” e per molti quotidiani e riviste, si dedicò agli studi, ai libri, alle memorie di una vita , ponendo in essere poi l’immenso desiderio di realizzare una biografia del suo eroe.All’inizio del 1881 cominciò a lavorare alla biografia di Garibaldi ed essa uscì a Milano, edita da Treves, negli stessi giorni della morte del Generale, che si spense a Caprera il 2 giugno 1882.Nei mesi successivi alla scomparsa di Garibaldi, la biografia di Jessie incontrò un enorme successo.Ma Treves, domandò alla White di approfondire quella “Vita di Garibaldi” per plasmare uno straordinario ritratto del Risorgimento, analizzando anche tutti i personaggi che erano gravitati intorno all’eroe, dando vita così ad una nuova opera che fu “Garibaldi e i suoi tempi”.
Jessie, conoscendo tutto di Garibaldi e dei garibaldini dopo averli seguiti per vent’anni, come loro infermiera, vide nell’azione del Generale, un disegno divino, una sorta di laica provvidenza.
Purtroppo, nella narrazione di questo ricco e vivido racconto, ella sorvolò alquanto sui contrasti tra Mazzini e Garibaldi, che pure meglio di chiunque altro aveva avuto sotto l’occhio di osservatrice privilegiata, e quasi finse che l’ala risorgimentale di sinistra non fosse stata travagliata da enormi dissidi.Il 2 giugno 1883 a Lendinara, dove nacque, si spense suo marito, Alberto Mario, ad un anno esatto dalla morte di Garibaldi.Jessie trascorse gli oltre vent’anni che gli sopravvisse in ristrettezze, insegnando inglese all’istituto di magistero femminile a Firenze, con la mano destra ormai quasi inutilizzabile, vivendo in un casa ricca di immagini ed un salotto in cui troneggiavano un ritratto con dedica di Garibaldi, quello di Carducci che aveva pubblicato le opere di suo marito, quello di Agostino Bertani e due dell’amato consorte, girando per la sua dimora con indosso la camicia rossa garibaldina e portando sul petto le medaglie ricevute nel corso delle varie campagne.
Nel 1906, Jessie White Mario morì a Firenze, e poi le sue ceneri furono condotte a Lendinara, ove riposano accanto a quelle del marito.Nella commemorazione che ne fece la “Nacìon” di Buenos Aires, venne ricordato che tra il 1866 ed il 1906, la donna scrisse 143 articoli e molti libri su Garibaldi.
Al momento del trapasso, ella stava scrivendo la storia dell’unificazione italiana che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere un’opera di divulgazione per il popolo.
“The birth of Modern Italy”, fu pubblicato postumo a Londra nel 1909, ed ottenne immenso successo, tanto che forse avrebbe reso ricca l’autrice, che invece morì povera.