Enrico Cernuschi nacque a Milano il 19 febbraio 1821. Il padre Claudio dirigeva dal 1814 un negozio di importazione coloniali a Milano e i due zii furono i fondatori nel 1840 di un’impresa tessile, la Cernuschi e Gos, una delle più notevoli dell’area monzese, specializzata nella produzione di “coperte con cascami di seta e cotone”. Dopo gli studi di giurisprudenza a Pavia, Enrico Cernuschi partecipò in modo attivo agli atti insurrezionali di Milano del 1848. Caduto a Milano il Governo provvisorio, partecipò a Roma alla insurrezione contro lo Stato Pontificio. La disfatta del nuovo stato repubblicano provocò la dispersione di numerosi patrioti, tra i quali lo stesso Cernuschi che fu imprigionato a Civitavecchia. Difendendosi davanti al "Consiglio di Guerra", chiese di essere esiliato in Francia in quanto proscritto sia dall'Austria che dal Governo Pontificio.A Parigi, inizialmente, si mantenne con lavori di traduzione e copiatura, ottenendo nel 1852 un impiego al Crédit Mobilier, dove dimostrò a pieno le sue qualità e il suo valore e da cui nacquero le premesse della sua successiva fortuna finanziaria. Fu tra i protagonisti nel periodo di trasformazione del mondo bancario. Nei dodici anni in cui Cernuschi lavorò al Crédit Mobilier vennero effettuate operazioni finanziarie prodigiose, che fruttarono enormi ricchezze, di cui beneficiò anche Cernuschi. La carriera di Cernuschi si interruppe nel 1859 probabilmente a seguito dell’attentato a Napoleone III da parte di Felice Orsini, ex carbonaro e ex mazziniano che Cernuschi aveva conosciuto ai tempi della repubblica Romana. Dal 1859 al 1870 visse un’intensa attività di uomo d’affari e d’impegno civile. Approfondisce gli studi di economia e pubblica la sua prima opera “la Meccanica degli Scambi” Tra il 1869 e 1870 fonda la Banque de Paris; nel 1871 si alleò con la Banque de crédit et depôt des Pays Bas, che nel 1872 si fusero in Paribas. Nel 1870 ottenne la cittadinanza francese.Rientrato in politica nel 1871, acquistò un consistente pacchetto di azioni del giornale “Le Siècle”, di ispirazione democratica per combattere il plebiscito. Espulso dalla Francia, si recò in Svizzera, per rientrarvi solo dopo il crollo dell’Impero e la proclamazione della Repubblica. Nel corso della battaglia in difesa della Comune divenne membro di rilievo della sussistenza e profuse intensa attività giornalistica. Nel 1871 Cernuschi lasciò la Francia con Theodore Duret, critico d’arte legato agli Impressionisti, e raggiunse il Giappone nel 1872, punto di partenza di un lungo viaggio in Cina, Mongolia, Giava e India. Cernuschi acquistò bronzi, sete dipinte, porcellane, libri illustrati, oggetti d’arte. Ritornato a Parigi organizzò tra il 1873 e il 1874 una grande mostra di opere orientali al Palais de l’Industrie, che accompagnò il primo congresso internazionale degli orientalisti. Fece costruire in Avenue Velasquez, nel Parc Monceau, un palazzo in stile rinascimentale dove abitò e in cui ospitò le collezioni d’arte giapponese e cinese, e le collezioni d’arte europea, ora disperse.
Dal 1873 Enrico Cernuschi si dedicò all’amministrazione del patrimonio accumulato, e alle questioni economico monetarie, impiegandosi in una battaglia per il bimetallismo sorretta da decine di pubblicazioni. Fu invitato come oratore in Inghilterra, Germania, Stati Uniti e altri paesi del mondo, tra cui l’Italia. Nel 1881 fu designato dalla Francia come rappresentante della Repubblica alla conferenza monetaria internazionale di Parigi.Alla sua morte avvenuta a Mentone l’11 maggio 1896, Enrico Cernuschi nominò suo erede il fratello Costantino, ma lasciò la casa di Avenue Velasquez con le collezioni d’arte che conteneva alla Città di Parigi, il cui valore fu stimato in allora in un milione e 113 mila franchi. Lasciò ai Martinitt 100.000 lire italiane.
venerdì 30 settembre 2011
La Battaglia della Bicocca
Di solito le ricorrenze, le celebrazioni, le feste di paese rievocano vittorie, trionfi, conquiste. Novara, invece, andando controcorrente, ricorda anche quest’anno il 154° anniversario di una durissima sconfitta: era il 23 marzo del 1848, e presso le cascine della Bicocca, a Novara, si fronteggiano l’esercito austriaco e quello piemontese. In principio la battaglia si trascina stanca, è un continuo arretrare e avanzare dei due eserciti. Tutto è ancora possibile, i giochi sono aperti…
Lasciamo per un momento i due schieramenti, ancora intenti a studiarsi, ritornando a undici giorni prima, il 12 marzo, quando Carlo Alberto, cedendo alle pressioni dei suoi consiglieri, dichiara guerra all’Austria. Una follia, sembrerebbe: c’è un re, Carlo Alberto, poco entusiasta della faccenda, e che, forse non sentendosi all’altezza di guidare l’esercito piemontese, nomina come comandante un rivoluzionario polacco, il generale Chrzanowski; c’è un esercito altrettanto poco entusiasta, che vive la nomina di Chrzanowski come uno sfregio all’autorità sabauda e al prestigio dell’esercito stesso, e in cui molti, fra ufficiali e soldati, sono “contrari, se non addirittura ostili alla guerra” (secondo una testimonianza di Gioberti); infine, dall’altra parte, c’è ancora lui, ora ottantatreenne ma sempre temibile, con alle spalle una grande esperienza e tante vittorie: il comandante dell’esrcito austriaco, Radetzky, alla sua ventiseiesima battaglia.
L’esercito piemontese si era concentrato sul medio Ticino, pronto a dislocare le sue forze verso Mortara, nel caso di una attacco da Pavia, o verso Novara, nel caso di un attacco da Milano. Come è noto, Radetzky decise per Novara, ma senza far capire che questo era il suo vero obiettivo. L’esercito piemontese se ne rese conto troppo tardi, e rispose in modo confuso, senza coordinazione, concentrando le sue truppe verso la cittadina piemontese fra il 21 e il 22 marzo, e lasciando quasi scoperta la destra del Po, il che avrebbe lasciato al nemico la strada spianata verso Torino in caso di difficoltà. E le difficoltà ci furono. Siamo tornati ora a quelle ore, fra le 11 del mattino e le 17 di sera, del 23 marzo 1848: gli austriaci sono guidati dal solo generale D’Aspré, e il loro primo attacco non causa grandi danni. Se lo Stato Maggiore dell’esercito piemontese fosse stato più deciso nel lanciare un tempestivo contrattacco, gli austriaci potevano essere sconfitti: ora, non soltanto ciò non accadde, ma ad aggravare la situazione ci fu il generale Ramorino, che pensò bene di allontanarsi dal luogo dello scontro con un numero consistente di uomini. Immaginate un po’: c’è un esercito alleggerito delle sue forze, lasciato in una situazione di stallo, in attesa che accada qualcosa. Ed ecco ciò che avviene: Radetzky, dopo l’uscita di scena di Ramorino, attacca dai lati e chiude in una morsa i piemontesi. Le cascine della Bicocca vengono perse e riconquistate più volte, ma alle 18 la battaglia è definitivamente perduta. Per ognuna delle due armate quella giornata costò quasi 5.000 uomini, fra morti, feriti, prigionieri e dispersi. Carlo Alberto non può fare altro che chiedere a Radetzy un armistizio, ma il comandante austriaco risponde con condizioni talmente dure da significare una sola cosa: resa incondizionata. Per Carlo Alberto rimane soltanto una cosa da fare, abdicare a favore del figlio Vittorio Emanuele II: ciò avvenne a Palazzo Bellini, alle 21.15, come conclusione di una giornata maledetta.
Questa sconfitta cambiò il corso del Risorgimento italiano. Come ha ricordato ultimamente anche Ciampi, in visita a Novara lo scorso novembre, quell’evento tragico fu una lezione importante, perché insegnò al Piemonte che se si voleva vincere l’impero asburgico era necessario prima un consolidamento delle istituzioni, una riorganizzazione dell’esercito, l’appoggio diplomatico delle grandi potenze europee. Dieci anni dopo, grazie anche a questa sconfitta, fu raggiunto l’obiettivo: l’unificazione dell’Italia.
Lasciamo per un momento i due schieramenti, ancora intenti a studiarsi, ritornando a undici giorni prima, il 12 marzo, quando Carlo Alberto, cedendo alle pressioni dei suoi consiglieri, dichiara guerra all’Austria. Una follia, sembrerebbe: c’è un re, Carlo Alberto, poco entusiasta della faccenda, e che, forse non sentendosi all’altezza di guidare l’esercito piemontese, nomina come comandante un rivoluzionario polacco, il generale Chrzanowski; c’è un esercito altrettanto poco entusiasta, che vive la nomina di Chrzanowski come uno sfregio all’autorità sabauda e al prestigio dell’esercito stesso, e in cui molti, fra ufficiali e soldati, sono “contrari, se non addirittura ostili alla guerra” (secondo una testimonianza di Gioberti); infine, dall’altra parte, c’è ancora lui, ora ottantatreenne ma sempre temibile, con alle spalle una grande esperienza e tante vittorie: il comandante dell’esrcito austriaco, Radetzky, alla sua ventiseiesima battaglia.
L’esercito piemontese si era concentrato sul medio Ticino, pronto a dislocare le sue forze verso Mortara, nel caso di una attacco da Pavia, o verso Novara, nel caso di un attacco da Milano. Come è noto, Radetzky decise per Novara, ma senza far capire che questo era il suo vero obiettivo. L’esercito piemontese se ne rese conto troppo tardi, e rispose in modo confuso, senza coordinazione, concentrando le sue truppe verso la cittadina piemontese fra il 21 e il 22 marzo, e lasciando quasi scoperta la destra del Po, il che avrebbe lasciato al nemico la strada spianata verso Torino in caso di difficoltà. E le difficoltà ci furono. Siamo tornati ora a quelle ore, fra le 11 del mattino e le 17 di sera, del 23 marzo 1848: gli austriaci sono guidati dal solo generale D’Aspré, e il loro primo attacco non causa grandi danni. Se lo Stato Maggiore dell’esercito piemontese fosse stato più deciso nel lanciare un tempestivo contrattacco, gli austriaci potevano essere sconfitti: ora, non soltanto ciò non accadde, ma ad aggravare la situazione ci fu il generale Ramorino, che pensò bene di allontanarsi dal luogo dello scontro con un numero consistente di uomini. Immaginate un po’: c’è un esercito alleggerito delle sue forze, lasciato in una situazione di stallo, in attesa che accada qualcosa. Ed ecco ciò che avviene: Radetzky, dopo l’uscita di scena di Ramorino, attacca dai lati e chiude in una morsa i piemontesi. Le cascine della Bicocca vengono perse e riconquistate più volte, ma alle 18 la battaglia è definitivamente perduta. Per ognuna delle due armate quella giornata costò quasi 5.000 uomini, fra morti, feriti, prigionieri e dispersi. Carlo Alberto non può fare altro che chiedere a Radetzy un armistizio, ma il comandante austriaco risponde con condizioni talmente dure da significare una sola cosa: resa incondizionata. Per Carlo Alberto rimane soltanto una cosa da fare, abdicare a favore del figlio Vittorio Emanuele II: ciò avvenne a Palazzo Bellini, alle 21.15, come conclusione di una giornata maledetta.
Questa sconfitta cambiò il corso del Risorgimento italiano. Come ha ricordato ultimamente anche Ciampi, in visita a Novara lo scorso novembre, quell’evento tragico fu una lezione importante, perché insegnò al Piemonte che se si voleva vincere l’impero asburgico era necessario prima un consolidamento delle istituzioni, una riorganizzazione dell’esercito, l’appoggio diplomatico delle grandi potenze europee. Dieci anni dopo, grazie anche a questa sconfitta, fu raggiunto l’obiettivo: l’unificazione dell’Italia.
giovedì 29 settembre 2011
ELEONORA FONSECA PIMENTEL
Un'intellettuale tra rivoluzione e giornalismo
Una vita piena, vibrante, percorsa con passo fermo senza mai retrocedere, inseguendo ideali che la trasformarono da semplice donna intellettuale ad eroina della Rivoluzione Partenopea del 1799 e giornalista e direttrice di indiscusso talento. Così, in sintesi, si potrebbe riassumere la vita di Eleonora Fonseca Pimentel, personaggio del XVII secolo, la cui intelligenza ed estro rimangono nella storia.
A darle i natali nel 1752 fu Roma, dove nacque, in via di Ripetta, dai portoghesi Clemente e Caterina Lopez per poi trasferirsi nel 1760 a Napoli. Sotto la guida dello zio, l’abate Lopez, la futura rivoluzionaria studiò greco, latino, matematica, fisica, chimica, botanica, mineralogia, astronomia, economia e diritto pubblico. Studi che sarebbero sfociati in opere, traduzioni e dissertazioni in cui già faceva capolino la concezione dello Stato di Eleonora, con idee decisamente in controtendenza per l’epoca riguarda al suo fondamento e fine.Nel 1778 sposò un generale dell’esercito napoletano, Pasquale Tria De Solis. Ma il matrimonio fu presto rovinato dalla violenza del marito, il quale, tra l’altro, le procurò un aborto per percosse. Nel 1786 si arrivò così alla separazione.
Fino all’inizio circa della Rivoluzione Francese, Eleonora mantenne ottimi rapporti con i sovrani di Napoli. Da un lato, la poetessa componeva per loro poesie, odi e sonetti, dall’altro Ferdinando IV sapute le ristrettezze economiche della poetessa, legate alla separazione del marito, le aveva procurato un sussidio mensile, facendola figurare come bibliotecaria della regina Maria Carolina.
Ma con lo scoppio della rivoluzione francese, i re decisero di mutare la loro politica, mettendo un freno al movimento delle riforme e intraprendendo la via della reazione. Eleonora non chinò il capo ma, invece, si gettò nell’impegno politico per la libertà e il miglioramento delle condizioni di vita delle classi disagiate. Insomma, passò all’opposizione diventando una fervente giacobina, tanto è che arrivò al punto di introdurre durante un ricevimento a Corte alcune copie in italiano del testo della Costituzione approvato dall’Assemblea francese.Nel 1972, quando i francesi giunsero a Napoli con una flotta per ottenere il riconoscimento della Repubblica francese, Eleonora venne invitata tra gli ospiti e finì sui registri della polizia borbonica. Nel 1798 venne perquisita la sua abitazione, nella quale vennero rinvenute della copie dell’Encyclopèdie di Diderot, che ne causarono l’arresto. Nel 1799, anno della Rivoluzione Partenopea, i Lazzaroni insorsero e aprirono le porte della carceri dalle quali, insieme ai prigionieri politici, uscirono anche delinquenti comuni e prigionieri politici.
Riacquistata così la libertà, entrò, insieme ad altri giacobini, nel Comitato Centrale. Il Comitato decise di fare pressione sul generale Championnet perché affrettasse la sua avanzata su Napoli, anche per arrestare il dilagare dell’anarchia tra la plebe.Il 20 gennaio di quell’anno, la Pimentel, alla testa di molte donne, entrò nel castello di San Elmo. Due giorni dopo i patrioti piantarono l’albero della libertà e dichiararono decaduta la dinastia borbonica, proclamando la Repubblica Napoletana “sotto la protezione della grande nazione francese”.Ma a Fonseca Pimentel va anche il merito di aver creato un giornale portavoce ufficiale del Governo Provvisorio ma allo stesso tempo indipendente. Si trattava del ‘Monitore Napoletano’, giornale al centro della stampa democratico –giacobina – che ebbe vita breve, dal febbraio all’agosto 1799, ma intensa. Eleonora, anima del giornale, riuscì ad affiancare alla linea di sostegno al Governo anche una linea critica nei giudizi e propositiva.
Nei suoi articoli di fondo, traspariva la preoccupazione di coinvolgere le classi umili di Napoli e della campagna, fino ad allora avverse alla Repubblica. Proprio per questo esortava a fare dei periodici scritti in dialetto, cercando quel ponte linguistico che potesse avvicinare a loro.
Nel maggio del 1799 l’esercito francese si allontanò da Napoli per andare nell’Italia settentrionale. I patrioti rimasero in balia di se stessi. Sono quelli i giorni in cui dal Monitore Fonseca Pimentel esorta a non disperare e rivela il suo desiderio di realizzare l’unità d’Italia. Ma da lì a breve le truppe del Cardinale Ruffo, inviate dai Borbone, a riconquistare Napoli arrivarono alle porte della città. La giornalista si rifugiò a Sant’Elmo e finì nelle liste dei capitolati per i quali era garantito l’espatrio.
Con la fine della Repubblica venne arrestata e il 20 agosto venne impiccata con l’accusa di avere parlato e scritto contro il re violando la capitolazione. Prima di salire sul patibolo, sembra che la rivoluzionaria abbia bevuto il caffè e pronunciato il famoso verso di Virgilio: “"Forsan et haec olim meminisse juvabit" (Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo).
Sembra che il popolo abbia cercato, invano, di convincere la donna a gridare "Viva il re". Degli otto condannati, la Pimentel fu l'ultima e, prima di porgere il collo al boia, salutò i suoi compagni già morti. Il corpo della Pimentel fu sepolto, nei pressi del luogo dell'esecuzione in Piazza Mercato, nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli, nella Sala del Capitolo Maggiore.
Ma, prima della sepoltura, il cadavere venne, per una giornata intera, lasciato penzoloni, a ludibrio del popolo. Fu questa l'ultima ed atroce offesa recata ad una delle donne più intelligenti, vive e colte del XVIII secolo.
mercoledì 28 settembre 2011
Regaldi Giuseppe
REGALDI Giueppe Poeta estemporaneo piemontese, n. a Varallo (Vercelli) nel 1809, m. a Bo- logna nel 1883. Fin da giovane viaggiò per l'Italia e all'estero, invitato da molte accademie d'improvvisazione; esiliato nel 1849 per il suo fervente patriottismo, si recò in Grecia, in Egitto, in Oriente, raccogliendo materiali per libn di memo- rie e di viaggi, che costituiscono la parte migliore della sua produzione. Grati- ficato con la cattedra universitaria di storia, insegnò a Cagliari e successiv Imo alla morte, a Bologna, dove ebbe allievo il Pascoli , Il viaggio. In Sicilia il Regaldi venne, già noto in tutta Italia e all'estero, alle soglie dell'autunno del 1841, per esibirsi nei teatri e nei circoli culturali nella sua attività di improvvisatore: e per più di un anno girovagò per l'isola, soggiornando in molte località, ovunque visitandone i monumenti e osservandone le peculiari attrattive. Approdò a Palermo - proveniente da Napoli - il 12 settembre, e a Palermo si legò d'amicizia con Francesco Crispi, direttore allora de "L'Oreteo"; fu quindi a Trapani, ad Agrigento, ad Acireale, a Catania, dove nell'aprile del 1842 fu ospite del principe di Biscari; si spostò quin- di a Caltagirone, a Scicli, a Modica, a Siracusa; in ottobre attraversò lo Stretto, per esibirsi a Reggio, ma in novembre era ancora a Messina, donde qualche mese più tardi faceva definitivo ritorno in continente.
martedì 27 settembre 2011
Giacomo Margotti
Don Giacomo Margotti nasce l'11 maggio 1823, si laurea in studi filosofici e diviene seminarista a Ventimiglia; nel 1845 ottiene il dottorato presso l'università di Genova.
Nel 1848, insieme al Vescovo di Ivrea Moreno, il Professor Audisio ed il Marchese Birago, fonda a Torino il quotidiano "L'Armonia", di cui è la vera anima e brillante direttore; tanto brillante da suscitare il duro disappunto della Torino sabauda: senza troppi complimenti si tenta di sopraffarlo con multe, chiusure coatte ed ogni genere di vessazione (tra cui un tentato omicidio contro la sua persona nel 1856), fino alla definitiva chiusura del quotidiano, ordinata da Cavour nel 1859.
Ma il tenace sacerdote non si dà per vinto e riesce a spuntarla nuovamente, prima dalle colonne de "Il Piemonte", poi nuovamente dal ristabilito "L'Armonia" che, per volere del Beato Pio IX, viene rinominato "L'Unità Cattolica", nel giorno di Natale del 1863.
Fu il principale artefice del motto "nè eletti nè elettori" (del 1864, successivamente rielaborato dal Beato Pio IX nel principio del "non expedit"), naturale evoluzione dell'atteggiamento di totale chiusura del parlamento sabaudo, che addirittura annullò la sua trionfale elezione alla Camera del 1857 per il curioso reato di "abuso di armi spirituali", neologismo politico dello scaltro Cavour che non aveva certo bisogno di una opposizione intelligente che fosse ostile alla sua linea anti-clericale (ed estese tale provvedimento aberrante ed anti-liberale ad una ventina di sacerdoti neo-eletti).
Dei suoi numerosi scritti, di cui ci perviene quasi niente ma che comunque bastano a tracciare lunghe ombre di dubbi sull'operato di alcuni pater patriae, voglio ricordare il monumentale "Memorie per la storia dei nostri tempi" (in 6 volumi, del 1863), assolutamente introvabile anche nelle biblioteche nazionali (e ciò, mi si consenta, allunga ulteriormente le succitate ombre), di cui chi scrive sta faticosamente ricostruendo l'iter storico, nella speranza di poterlo poi ripubblicare in serie limitata; poi anche "Considerazioni sulla separazione dello Stato dalla Chiesa in Piemonte" (1855); "Le vittorie della Chiesa nei primi anni del Pontificato di Pio IX" (1857); Le consolazioni del S. P. Pio IX" (1863); "Pio IX e il suo episcopato nelle diocesi di Spoleto e d'Imola" (1877).
Nel 1848, insieme al Vescovo di Ivrea Moreno, il Professor Audisio ed il Marchese Birago, fonda a Torino il quotidiano "L'Armonia", di cui è la vera anima e brillante direttore; tanto brillante da suscitare il duro disappunto della Torino sabauda: senza troppi complimenti si tenta di sopraffarlo con multe, chiusure coatte ed ogni genere di vessazione (tra cui un tentato omicidio contro la sua persona nel 1856), fino alla definitiva chiusura del quotidiano, ordinata da Cavour nel 1859.
Ma il tenace sacerdote non si dà per vinto e riesce a spuntarla nuovamente, prima dalle colonne de "Il Piemonte", poi nuovamente dal ristabilito "L'Armonia" che, per volere del Beato Pio IX, viene rinominato "L'Unità Cattolica", nel giorno di Natale del 1863.
Fu il principale artefice del motto "nè eletti nè elettori" (del 1864, successivamente rielaborato dal Beato Pio IX nel principio del "non expedit"), naturale evoluzione dell'atteggiamento di totale chiusura del parlamento sabaudo, che addirittura annullò la sua trionfale elezione alla Camera del 1857 per il curioso reato di "abuso di armi spirituali", neologismo politico dello scaltro Cavour che non aveva certo bisogno di una opposizione intelligente che fosse ostile alla sua linea anti-clericale (ed estese tale provvedimento aberrante ed anti-liberale ad una ventina di sacerdoti neo-eletti).
Dei suoi numerosi scritti, di cui ci perviene quasi niente ma che comunque bastano a tracciare lunghe ombre di dubbi sull'operato di alcuni pater patriae, voglio ricordare il monumentale "Memorie per la storia dei nostri tempi" (in 6 volumi, del 1863), assolutamente introvabile anche nelle biblioteche nazionali (e ciò, mi si consenta, allunga ulteriormente le succitate ombre), di cui chi scrive sta faticosamente ricostruendo l'iter storico, nella speranza di poterlo poi ripubblicare in serie limitata; poi anche "Considerazioni sulla separazione dello Stato dalla Chiesa in Piemonte" (1855); "Le vittorie della Chiesa nei primi anni del Pontificato di Pio IX" (1857); Le consolazioni del S. P. Pio IX" (1863); "Pio IX e il suo episcopato nelle diocesi di Spoleto e d'Imola" (1877).
Mario Alberto
Mario Alberto, patriota e scrittore italiano (Lendinara, Rovigo, 1825-1883). Studente nell'università di Padova, partecipò alla manifestazione antiaustriaca dell'8 febbraio 1848 e poi alla prima guerra d'Indipendenza. Mazziniano, Collaborò alla preparazione della spedizione del Pisacane a Sapri e al tentativo insurrezionale repubblicano genovese del giugno 1857, in conseguenza del quale fu arrestato (insieme alla fidanzata, l'inglese Jessie White), rimanendo poi in carcere per alcuni mesi. Espulso dal Piemonte, si recò dapprima in Inghilterra (dove si sposò con la White), e poi negli Stati Uniti, dove tenne insieme alla moglie un ciclo di conferenze a favore della causa nazionale italiana. Tornato in Italia nel luglio 1859, dovette nuovamente esulare a Lugano, dove collaborò alla direzione della rivista mazziniana Pensiero e azione, prendendo poi parte con i garibaldini alla liberazione del Mezzogiorno. Passato su posizioni federalistiche per l'influenza del Cattaneo, fu tra i collaboratori principali della fiorentina Nuova Europa (1861-1864), prese parte alla campagna garibaldina del 1866, svolgendo in seguito un'intensa attività giornalistica (diresse la Provincia di Mantova, 1880, la Rivista repubblicana e la Lega della democrazia, 1880-1883). Tra i suoi scritti: Camicia rossa (1875), Teste e figure(1877) e le raccolte pubblicate postume: Scritti letterari e artistici (1884), Scritti politici (1901).
lunedì 26 settembre 2011
GIULIA COLBERT FALLETTI DI BAROLO
Il volto che a prima vista poteva sembrare scialbo, si accendeva però di vivida luce quando lei cominciava a parlare, e allora tutta la persona brillava per bellezza e grazia.
LA DONNA
A prima vista, donna non di una particolare bellezza. Il suo volto può apparire scialbo, ma quando comincia a parlare si accende di una vivida luce che fa splendere e brillare tutta la sua persona.
Il suo carattere è forte e determinato e grazie a queste sue peculiarità riesce ad avere successo nelle sue imprese.
Dopo la morte del marito, figura di riferimento e punto di forza della marchesa, un periodo di sofferenza, in cui le è molto vicina Silvio Pellico, è la causa di un ulteriore consolidamento della sua personalità.
Altra esperienza che tempra il suo animo sono i compiti svolti come novizia laica nella confraternita della misericordia.
NASCITA
Nasce nel castello di Maulévrier in Vandea il 27 Giugno 1785 da una famiglia aristocratica.
Sua madre, la contessa Anne-Marie de Quengo de Crenolle, era imparentata con Luigi XVI; suo padre, il marchese Edouard Colbert di Maulévrier, discendeva dal ministro del re Sole.
Due fratelli.
L’INFANZIA
Infanzia non facile poiché la madre muore che lei ha quattro anni il 14 Luglio 1789, il giorno della presa della Bastiglia. Per l’importante nome della casata e le strette parentele con la corte francese, molti componenti della sua famiglia sono giustiziati in piazza pubblicamente. Il padre capisce che l’unico modo di sfuggire alla sanguinosa rivolta popolare è di rifugiarsi in Olanda mettendo, così, in salvo i suoi tre figli.
Ritorneranno in patria solo quando Napoleone mutò le leggi rivoluzionarie
FORMAZIONE
La situazione politico-sociale francese sta cambiando ma il marchese Edouard non si adegua alle novità e impartisce ai figli un’educazione molto tradizionalista, così Giulia cresce secondo i principi della religione e della monarchia assolutista.
IL MATRIMONIO
Sotto indicazione del padre sposa nel 1807 il marchese piemontese Carlo Tancredi Falletti. Poiché il Piemonte in quel periodo era unito allo Stato francese, non ci furono difficoltà burocratiche. Si stabiliscono a Torino ma passano gran parte dell’anno a Parigi o in viaggio per l’Olanda, il Belgio e la Germania. Non hanno figli
I SUOI LAVORI
Dalla Pasqua del 1816 il suo interesse per i poveri, gli emarginati, i malati si sposta sulle carceri, in particolari sulla condizione dei carcerati. Dopo una visita alle carceri Torinesi decide di dedicarsi al recupero delle carcerate, in quanto tra maschi e femmine, chi soffriva di più della vita carceraria erano proprio le recluse.Tuttavia ella vuole fornire un aiuto che non sia visto dalle povere come una elemosina, quindi entra a far parte della Confraternita della Misericordia (organizzazione caritatevole con lo scopo di assistere le detenute). Subito inizia a stringere rapporti di amicizia con le carcerate e si intrattiene in lunghi discorsi con loro per capire meglio la loro condizione e escogitare strategie di recupero efficaci da proporre alle autorità cittadine. Il 10 Marzo 1821 scoppia la rivoluzione piemontese dei trenta giorni per portare sul trono di una Italia unita Vittorio Emanuele I, la marchesina rifiuta di fuggire col marito per assistere le “sue” detenute prevedendo che i sollevamenti avrebbero aperto le carceri. Così succede, ma le detenute anziché gettarsi perdutamente nelle strade le si stringono attorno.
La marchesina chiede al nuovo re Carlo Felice di accelerare i tempi di una riforma carceraria. Il sovrano le mette quindi a disposizione un castello, detto poi delle Sforzate, per iniziare tale riforma.
Queste carceri riescono a far sì che la detenzione non conducesse ad un ulteriore abbrutimento e consente il recupero sociale delle infelici, mettendole nelle condizioni di imparare un mestiere per rifarsi una vita.
RAPPORTI CON SILVIO PELLICO
Silvio Pellico viene graziato dall’Austria e torna in patria nel 1830.
Al suo ritorno corrisponde l’inizio della sua opera più famosa “Le mie prigioni”, una delle prime copie viene inviata alla marchesa Colbert.
Ella è molto commossa per come egli ha saputo descrivere le condizioni di vita dei carcerati tanto che trova in lui una persona con la quale condividere le sue esperienze nelle carceri da lei fondate.
Pellico, come la marchesa, è lasciato in disparte dalla società per le sue idee politiche.
Dopo varie lettere decide di incontrare personalmente la marchesa con la quale ha una piacevole discussione. Questo incontro è seguito da molti altri, quando Silvio comunica alla marchesa che un lavoro ben retribuito lo attende a Parigi, ella è molto turbata da questa sua decisione e gli propone una pensione annua per farlo restare a Torino e aiutarla nella rieducazione delle carcerate.
L’ultima invenzione di Giulia è il “Refugium Peccatorum”, un villino moderno senza cancelli o sbarre, aveva una biblioteca ed un’ottima cucina. Le rifugiate potevano andarsene quando volevano, ma nessuna lo faceva, perché per essere ammesse bisognava fare domanda e bisognava essere meritevole per restare in quel luogo. L’espulsione per demeriti è un deterrente talmente efficace che spinge le penitenti a migliorarsi di giorno in giorno per restare. Chi dopo una sufficiente permanenza decide di uscire è in grado di guadagnarsi con successo il vitto. Dopo la morte del marito, 4 settembre 1838, il loro legame si fa più forte, gli amici pensano ad un amore tra i due, ma il loro comportamento in pubblico non fornisce certezze.
LE SUE CARCERI
Le sue carceri erano edifici senza sbarre alle finestre dove vengono insegnati alle donne alcuni mestieri al fine di metterle nelle condizioni di potersi rifare una vita.
Le donne sono libere di andarsene, anche se questo non accadeva perché nessuno le aveva obbligate ad entrare in queste carceri, ma lo avevano chiesto loro.
La marchesa segue personalmente le sue carceri e stringe con le detenute forti rapporti di amicizia in quanto ella stessa si considera come una detenuta per essere meglio a contatto con questa realtà.
Nelle sue carceri non vigevano inutili severi regolamenti, perché questi aumentavano il dolore per la privazione della libertà e contribuivano a raggiungere gli obiettivi opposti a quelli che dovrebbe raggiungere un carcere, ovvero: amare e capire la necessità dell’ordine.
Bisogna prima guadagnare la fiducia delle carcerate, “far capire loro che le amiamo”, e poi avviare il recupero, altrimenti la carcerazione risulta fallimentare.
GIUDIZIO SUL QUARANTOTTO
Giulia sentiva la necessità di un cambiamento, ma non era d’accordo con le idee antireligiose e iconoclaste che animavano la maggioranza dei rivoluzionari. “Gli uomini dabbene”, che condurrebbero in modo migliore i moti del ’48 lasciano il posto a perversi, traditori di Carlo Alberto e Pio IX, smaniosi di innalzarsi sulle rovine altrui. Benché le cose continuino a precipitare ella spera in giusti cambiamenti. Giulia tuttavia, pur non sopportando le violenze antireligiose, crede fermamente nei grandi obiettivi della rivoluzione politica in atto.
domenica 25 settembre 2011
Giannina Milli
Nata a Teramo nel 1825, di ingegno precoce e facile memoria, improvvisava versi già a cinque anni. Il re di Napoli volle conoscerla e si impegnò a farla studiare in un collegio femminile. Non si applicò allo studio, lesse molto da sola e si affidò ad un maestro di canto. Più tardi si pose sotto la guida dell’improvvisatore novarese Regaldi che la incoraggiò.
Diede la sua prima accademica il 24 giugno 1847 e fu un trionfo; da allora continuò ad improvvisare in molte città italiane.Trascinata dal suo amore patrio ebbe a cuore la causa unitaria nazionale, per questo i suoi versi furono vietati e fu minacciata di prigionia. Dopo la prima guerra di indipendenza riprese a girare l’Italia, considerata ormai la più grande poetessa improvvisatrice italiana e nel 1859 a Milano fu ricevuta dal Manzoni.Nel 1865, tramite la giovane americana Francesca Alexander, che frequentava il suo salotto, volle conoscere Beatrice, la poetessa pastora che incontrò all’Abetone.
Aveva stabilito la sua residenza a Firenze dove abitava con la famiglia (madre, sorella e fratello) dietro la chiesa di S. Lorenzo. Il suo salotto era centro intellettuale frequentato da A. Vannucci, G. Giuliani, P. Villari. Fu amica della contessa Maffei che la considerava sua figlia diletta e con lei mantenne una lunga corrispondenza.Nel 1860, per interessamento di alcune signore di varie città italiane che raccolsero un capitale da assegnare alla più meritevole tra le donne italiane, le fu decretata una pensione annua che, in seguito, da lei prese nome e continuò ad essere assegnata a donne benemerite nelle lettere.Nel 1865 il ministro della pubblica istruzione la nominò ispettrice nelle scuole normali ed elementari di Livorno, poi a Napoli e nelle Puglie. Nel 1872 fu chiamata a dirigere la scuola normale magistrale a Roma.Furono fatte edizioni diverse delle sue Poesie estemporanee, pubblicate in varie città d’Italia tra gli anni 1852 e 1867.Nel 1876 sposò Ferdinando Cassone e con lui, provveditore agli studi, si trasferì a Caserta.Morì l’8 ottobre 1888.
Diede la sua prima accademica il 24 giugno 1847 e fu un trionfo; da allora continuò ad improvvisare in molte città italiane.Trascinata dal suo amore patrio ebbe a cuore la causa unitaria nazionale, per questo i suoi versi furono vietati e fu minacciata di prigionia. Dopo la prima guerra di indipendenza riprese a girare l’Italia, considerata ormai la più grande poetessa improvvisatrice italiana e nel 1859 a Milano fu ricevuta dal Manzoni.Nel 1865, tramite la giovane americana Francesca Alexander, che frequentava il suo salotto, volle conoscere Beatrice, la poetessa pastora che incontrò all’Abetone.
Aveva stabilito la sua residenza a Firenze dove abitava con la famiglia (madre, sorella e fratello) dietro la chiesa di S. Lorenzo. Il suo salotto era centro intellettuale frequentato da A. Vannucci, G. Giuliani, P. Villari. Fu amica della contessa Maffei che la considerava sua figlia diletta e con lei mantenne una lunga corrispondenza.Nel 1860, per interessamento di alcune signore di varie città italiane che raccolsero un capitale da assegnare alla più meritevole tra le donne italiane, le fu decretata una pensione annua che, in seguito, da lei prese nome e continuò ad essere assegnata a donne benemerite nelle lettere.Nel 1865 il ministro della pubblica istruzione la nominò ispettrice nelle scuole normali ed elementari di Livorno, poi a Napoli e nelle Puglie. Nel 1872 fu chiamata a dirigere la scuola normale magistrale a Roma.Furono fatte edizioni diverse delle sue Poesie estemporanee, pubblicate in varie città d’Italia tra gli anni 1852 e 1867.Nel 1876 sposò Ferdinando Cassone e con lui, provveditore agli studi, si trasferì a Caserta.Morì l’8 ottobre 1888.
sabato 24 settembre 2011
Commento a Marzo 1821
Commento a Marzo 1821 di Alessandro Manzoni
Nella poesia Marzo 1821 Alessandro Manzoni esprime i suoi sentimenti contrari alla dipendenza degli italiani da popoli stranieri. Il Risorgimento è l'epoca in cui il popolo italiano prende coscienza di poter diventare un unico stato che può riprendersi la sua terra e cacciare oltre i confini tutti gli stranieri che hanno oppresso le genti. Manzoni sottolinea il fatto che tutta l'Italia, da nord a sud, é pronta alla lotta contro chi calpesta il suolo italiano. Ogni italiano vuole la libertà dalla lunga schiavitù degli stranieri ed pronto, per la sua patria, a combattere e persino a morire.
Essere un patriota vuol dire avere l'orgoglio della propria terra, combattere per lei, morire per lei, sacrificare la propria vita per un futuro migliore. Manzoni pensa che si sta avvicinando il giorno del riscatto, della rivincita. Sarà un giorno felice perché gli italiani potranno essere liberi sotto la bandiera tricolore, termineranno le prepotenze degli stranieri e la cultura e la lingua italiana trionferanno. Saranno giorni tristissimi, invece, per coloro che per vigliaccheria e paura non hanno partecipato a questa lotta di liberazione: quando racconteranno ai loro figli la lotta per la patria dovranno dire loro dispiaciuti: “Io non c'ero” suscitando vergogna e disprezzo.
In questa ode che Manzoni pubblica nel 1848 il poeta vuole esortare gli italiani ad essere uniti e a combattere per i loro ideali.
Manzoni aveva già parlato dell'oppressione del popolo italiano nel suo romanzo: “I promessi sposi” ambientato nel ‘600 quando il Nord Italia era invaso dagli Spagnoli. Descrivendo la prepotenza di Don Rodrigo, Manzoni crea un parallelo con l'epoca in cui scrive, l'800, secolo in cui la Lombardia era dominata dall'impero austriaco.
Nella stessa epoca il compositore Giuseppe Verdi musicando l'opera “Il Nabucco ” parla della voglia di libertà degli ebrei oppressi dai Babilonesi.
Nel 1873, Verdi rimase molto impressionato dalla morte del compatriota Alessandro Manzoni, come Verdi, si era impegnato per l'unità di Italia avvenuta pochi anni prima, e condivideva dunque con lui i valori tipici del Risorgimento , di giustizia e libertà. La sua morte gli fornì dunque l'occasione per realizzare la Messa da Requiem.
Il requiem, che Verdi offrì alla città di Milano , fu eseguito in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874 , nella Chiesa di San Marco sempre a Milano. Il successo fu enorme e la fama della composizione superò presto i confini nazionali.
Nella poesia Marzo 1821 Alessandro Manzoni esprime i suoi sentimenti contrari alla dipendenza degli italiani da popoli stranieri. Il Risorgimento è l'epoca in cui il popolo italiano prende coscienza di poter diventare un unico stato che può riprendersi la sua terra e cacciare oltre i confini tutti gli stranieri che hanno oppresso le genti. Manzoni sottolinea il fatto che tutta l'Italia, da nord a sud, é pronta alla lotta contro chi calpesta il suolo italiano. Ogni italiano vuole la libertà dalla lunga schiavitù degli stranieri ed pronto, per la sua patria, a combattere e persino a morire.
Essere un patriota vuol dire avere l'orgoglio della propria terra, combattere per lei, morire per lei, sacrificare la propria vita per un futuro migliore. Manzoni pensa che si sta avvicinando il giorno del riscatto, della rivincita. Sarà un giorno felice perché gli italiani potranno essere liberi sotto la bandiera tricolore, termineranno le prepotenze degli stranieri e la cultura e la lingua italiana trionferanno. Saranno giorni tristissimi, invece, per coloro che per vigliaccheria e paura non hanno partecipato a questa lotta di liberazione: quando racconteranno ai loro figli la lotta per la patria dovranno dire loro dispiaciuti: “Io non c'ero” suscitando vergogna e disprezzo.
In questa ode che Manzoni pubblica nel 1848 il poeta vuole esortare gli italiani ad essere uniti e a combattere per i loro ideali.
Manzoni aveva già parlato dell'oppressione del popolo italiano nel suo romanzo: “I promessi sposi” ambientato nel ‘600 quando il Nord Italia era invaso dagli Spagnoli. Descrivendo la prepotenza di Don Rodrigo, Manzoni crea un parallelo con l'epoca in cui scrive, l'800, secolo in cui la Lombardia era dominata dall'impero austriaco.
Nella stessa epoca il compositore Giuseppe Verdi musicando l'opera “Il Nabucco ” parla della voglia di libertà degli ebrei oppressi dai Babilonesi.
Nel 1873, Verdi rimase molto impressionato dalla morte del compatriota Alessandro Manzoni, come Verdi, si era impegnato per l'unità di Italia avvenuta pochi anni prima, e condivideva dunque con lui i valori tipici del Risorgimento , di giustizia e libertà. La sua morte gli fornì dunque l'occasione per realizzare la Messa da Requiem.
Il requiem, che Verdi offrì alla città di Milano , fu eseguito in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874 , nella Chiesa di San Marco sempre a Milano. Il successo fu enorme e la fama della composizione superò presto i confini nazionali.
venerdì 23 settembre 2011
La Stenografia in Senato
Caprera, 16 dicembre 1877
Desidero che l'utilissima scoperta del professor Michela sia messa in opera.
Giuseppe Garibaldi"
Questa lettera è uno dei tanti riconoscimenti che salutarono il sistema stenografico ideato dal professor Antonio Michela Zucco, messo a punto dopo decenni di studi per trovare soluzioni che superassero l'ostacolo dei modesti mezzi tecnici disponibili nella seconda metà dell'Ottocento.
All'inizio della XIII legislatura del Regno il Presidente del Senato, Sebastiano Tecchio, nominò una Commissione composta dai senatori Errante, Zini e Massarani per valutare l'idoneità del nuovo sistema alla resocontazione dei lavori del Senato, allora affidata a volenterosi stenografi manuali, soprattutto provenienti dalle scarse fila dei giornalisti parlamentari disponibili per tale lavoro. Si intendeva impostare nel miglior modo possibile l'ufficio della resocontazione ufficiale dei lavori parlamentari. Il 30 gennaio 1880 i membri della Commissione presentarono al Presidente una relazione entusiasta e fu decisa l'adozione della macchina da parte del Senato del Regno.
Da allora la macchina Michela (nella foto sopra, la prima versione) è stata la testimone sicura e fedele della vita parlamentare italiana che passava nell'Aula e nelle Commissioni del Senato del Regno prima, della Repubblica poi.Quando cominciò ad operare, nell'infuocato clima parlamentare del periodo compreso tra i governi Cairoli, Depretis, Crispi, registrò le discussioni sull'abolizione della tassa sul macinato, sulla legge speciale per Roma capitale, sulla legge elettorale senza scrutinio di lista, sulla legge relativa al lavoro dei fanciulli, sulla riforma universitaria. Un bel disegno su «l'Illustrazione italiana» dell'11 gennaio 1894 mostra la macchina in azione durante la discussione sulle pensioni civili e militari.E così via, legislatura dopo legislatura, la storia d'Italia è passata sui tasti della Michela: il Regno, la I guerra mondiale, il Fascismo, la II guerra mondiale, la Repubblica, tutte le leggi finora varate.A riprova del rilievo assunto negli anni dal sistema, anche a livello europeo, si osserva che una macchina stenografica Michela è esposta alla mostra permanente "Les grandes heures du Parlement", realizzata a Parigi per iniziativa dell'Assemblée Nationale, nello Château de Versailles.
La macchina Michela è rimasta pressoché invariata per oltre un secolo: dal 1974 è entrata in funzione una versione Vergoni, con lo stesso sistema Michela ma con un concetto di costruzione meccanica innovativo e dal 1982 una successiva versione elettronica, con la quale certamente è stato agevolato il lavoro degli stenografi, che proprio in questi anni ha permesso loro di conseguire ottimi risultati, sia in Senato come nei concorsi nazionali e mondiali.
Utilizzando la macchina Michela, che risponde perfettamente alle esigenze degli oratori, gli stenografi del Senato hanno infatti conseguito ai campionati di stenografia tre titoli mondiali (1983, 1985 e 1995) e, per i 20 anni cui hanno partecipato (1977-1996), tutti i titoli italiani.
Note tecniche
La macchina "Michela" attualmente in uso, pur continuando a basarsi su meccanismi non troppo dissimili da quelli dei primi esemplari, ha adottato via via le più aggiornate tecnologie informatiche, fino a divenire uno dei più veloci meccanismi di inserimento dati oggi esistente.
Attualmente utilizza il medesimo software per la decrittazione delle note stenografiche in uso presso il Congresso degli Stati Uniti, adattato alla lingua italiana dopo lunghi e approfonditi studi, analogamente a quanto avvenuto per le altre principali lingue europee (spagnolo, francese e tedesco). Il programma in questione è dotato di efficacissimi algoritmi di intelligenza artificiale e rappresenta la punta di diamante della tecnologia: viene utilizzato, ad esempio, nel Senato canadese per realizzare anche la sottotitolazione per non udenti del canale televisivo parlamentare.
Oltre che in ambito parlamentare (insieme agli Stati Uniti ed al Canada sono da ricordare il Parlamento federale australiano, il Senato argentino e diversi Parlamenti regionali tedeschi) tale sistema è utilizzato nell'ambito del sistema giudiziario, delle forze militari e delle imprese televisive statunitensi, nonché dal Fondo monetario internazionale e da numerose società di resocontazione e sottotitolazione britanniche.
Desidero che l'utilissima scoperta del professor Michela sia messa in opera.
Giuseppe Garibaldi"
Questa lettera è uno dei tanti riconoscimenti che salutarono il sistema stenografico ideato dal professor Antonio Michela Zucco, messo a punto dopo decenni di studi per trovare soluzioni che superassero l'ostacolo dei modesti mezzi tecnici disponibili nella seconda metà dell'Ottocento.
All'inizio della XIII legislatura del Regno il Presidente del Senato, Sebastiano Tecchio, nominò una Commissione composta dai senatori Errante, Zini e Massarani per valutare l'idoneità del nuovo sistema alla resocontazione dei lavori del Senato, allora affidata a volenterosi stenografi manuali, soprattutto provenienti dalle scarse fila dei giornalisti parlamentari disponibili per tale lavoro. Si intendeva impostare nel miglior modo possibile l'ufficio della resocontazione ufficiale dei lavori parlamentari. Il 30 gennaio 1880 i membri della Commissione presentarono al Presidente una relazione entusiasta e fu decisa l'adozione della macchina da parte del Senato del Regno.
Da allora la macchina Michela (nella foto sopra, la prima versione) è stata la testimone sicura e fedele della vita parlamentare italiana che passava nell'Aula e nelle Commissioni del Senato del Regno prima, della Repubblica poi.Quando cominciò ad operare, nell'infuocato clima parlamentare del periodo compreso tra i governi Cairoli, Depretis, Crispi, registrò le discussioni sull'abolizione della tassa sul macinato, sulla legge speciale per Roma capitale, sulla legge elettorale senza scrutinio di lista, sulla legge relativa al lavoro dei fanciulli, sulla riforma universitaria. Un bel disegno su «l'Illustrazione italiana» dell'11 gennaio 1894 mostra la macchina in azione durante la discussione sulle pensioni civili e militari.E così via, legislatura dopo legislatura, la storia d'Italia è passata sui tasti della Michela: il Regno, la I guerra mondiale, il Fascismo, la II guerra mondiale, la Repubblica, tutte le leggi finora varate.A riprova del rilievo assunto negli anni dal sistema, anche a livello europeo, si osserva che una macchina stenografica Michela è esposta alla mostra permanente "Les grandes heures du Parlement", realizzata a Parigi per iniziativa dell'Assemblée Nationale, nello Château de Versailles.
La macchina Michela è rimasta pressoché invariata per oltre un secolo: dal 1974 è entrata in funzione una versione Vergoni, con lo stesso sistema Michela ma con un concetto di costruzione meccanica innovativo e dal 1982 una successiva versione elettronica, con la quale certamente è stato agevolato il lavoro degli stenografi, che proprio in questi anni ha permesso loro di conseguire ottimi risultati, sia in Senato come nei concorsi nazionali e mondiali.
Utilizzando la macchina Michela, che risponde perfettamente alle esigenze degli oratori, gli stenografi del Senato hanno infatti conseguito ai campionati di stenografia tre titoli mondiali (1983, 1985 e 1995) e, per i 20 anni cui hanno partecipato (1977-1996), tutti i titoli italiani.
Note tecniche
La macchina "Michela" attualmente in uso, pur continuando a basarsi su meccanismi non troppo dissimili da quelli dei primi esemplari, ha adottato via via le più aggiornate tecnologie informatiche, fino a divenire uno dei più veloci meccanismi di inserimento dati oggi esistente.
Attualmente utilizza il medesimo software per la decrittazione delle note stenografiche in uso presso il Congresso degli Stati Uniti, adattato alla lingua italiana dopo lunghi e approfonditi studi, analogamente a quanto avvenuto per le altre principali lingue europee (spagnolo, francese e tedesco). Il programma in questione è dotato di efficacissimi algoritmi di intelligenza artificiale e rappresenta la punta di diamante della tecnologia: viene utilizzato, ad esempio, nel Senato canadese per realizzare anche la sottotitolazione per non udenti del canale televisivo parlamentare.
Oltre che in ambito parlamentare (insieme agli Stati Uniti ed al Canada sono da ricordare il Parlamento federale australiano, il Senato argentino e diversi Parlamenti regionali tedeschi) tale sistema è utilizzato nell'ambito del sistema giudiziario, delle forze militari e delle imprese televisive statunitensi, nonché dal Fondo monetario internazionale e da numerose società di resocontazione e sottotitolazione britanniche.
giovedì 22 settembre 2011
Le 5 giornate di Milano
Le Cinque Giornate di Milano videro l'insurrezione del popolo milanese contro gli occupanti austriaci del maresciallo Radetzky.
Il 18 marzo 1848, all'annuncio di imminenti riforme, la folla si diresse verso il palazzo del governo dove cominciarono gli scontri. O'Donnell concesse la guardia civica, mentre in giornata gli austriaci occuparono con la forza il municipio.
La resistenza dei milanesi, organizzata con efficienza grazie a una fitta rete di barricate e di contatti tra i quartieri della città, fu coronata dal successo: il 20 marzo quasi tutto il centro era nelle mani degli insorti e la situazione apparve a Radetzky così grave da richiedere un armistizio, peraltro rifiutato dai patrioti grazie alla determinazione di Cattaneo. Il 21 marzo giunsero da Torino le prime notizie di un possibile intervento del Piemonte, incoraggiato dai moderati lombardi; nello stesso giorno si costituiva il governo provvisorio, mentre le milizie civiche si apprestavano a espugnare porta Tosa (da allora detta porta Vittoria), che cadde il giorno successivo, costringendo Radetzky alla ritirata. Il 23 marzo Carlo Alberto emanava un proclama annunziante l'intervento piemontese che segnava, di fatto, l'avvio della Prima guerra d'indipendenza.
Un tuffo nel passato per ricordare e "rivivere" quanto accadde a Milano nel marzo del 1848 durante le “Cinque Giornate”. Con la memoria dei moti milanesi non si deve dimenticare l’orgoglio, la voglia di riscatto e lo spirito di rivalsa che mosse i nostri concittadini contro gli invasori austriaci.
Durante le storiche Cinque Giornate di Milano, i milanesi furono protagonisti di un evento straordinario, che ha lasciato un segno indelebile nella storia della città, della Nazione e dell’Europa intera. I milanesi, uomini e donne di ogni età, classe sociale o condizione culturale, si riscattarono da uno straniero arrogante e dominatore, combattendo con coraggio e coesione.
Da quel lontano 1848 naturalmente Milano è cambiata, ma le criticità, anche se diverse, ci sono ancora. Per questo, dovremmo cercare dentro noi stessi quello stesso spirito di rivalsa, farlo rivivere e reagire, con uguale determinazione, ai problemi di oggi.
Storia di libertà. "A 160 anni dai moti che hanno delineato in maniera indelebile i tratti distintivi e identitari di Milano, è opportuno ripensare a quelle giornate, a quei personaggi e situazioni al di là della loro indiscussa rilevanza storica, oltre il loro profondo significato simbolico, vivido esempio della volontà di un popolo di riappropriarsi della propria terra, della propria indipendenza e libertà - commenta l’assessore Massimiliano Orsatti -. In questo grande avvenimento c’è già tutto lo spirito della Milano migliore: la capacità di unire risorse e forze per conseguire grandi obiettivi e raggiungere traguardi importanti".
Il 18 marzo 1848, all'annuncio di imminenti riforme, la folla si diresse verso il palazzo del governo dove cominciarono gli scontri. O'Donnell concesse la guardia civica, mentre in giornata gli austriaci occuparono con la forza il municipio.
La resistenza dei milanesi, organizzata con efficienza grazie a una fitta rete di barricate e di contatti tra i quartieri della città, fu coronata dal successo: il 20 marzo quasi tutto il centro era nelle mani degli insorti e la situazione apparve a Radetzky così grave da richiedere un armistizio, peraltro rifiutato dai patrioti grazie alla determinazione di Cattaneo. Il 21 marzo giunsero da Torino le prime notizie di un possibile intervento del Piemonte, incoraggiato dai moderati lombardi; nello stesso giorno si costituiva il governo provvisorio, mentre le milizie civiche si apprestavano a espugnare porta Tosa (da allora detta porta Vittoria), che cadde il giorno successivo, costringendo Radetzky alla ritirata. Il 23 marzo Carlo Alberto emanava un proclama annunziante l'intervento piemontese che segnava, di fatto, l'avvio della Prima guerra d'indipendenza.
Un tuffo nel passato per ricordare e "rivivere" quanto accadde a Milano nel marzo del 1848 durante le “Cinque Giornate”. Con la memoria dei moti milanesi non si deve dimenticare l’orgoglio, la voglia di riscatto e lo spirito di rivalsa che mosse i nostri concittadini contro gli invasori austriaci.
Durante le storiche Cinque Giornate di Milano, i milanesi furono protagonisti di un evento straordinario, che ha lasciato un segno indelebile nella storia della città, della Nazione e dell’Europa intera. I milanesi, uomini e donne di ogni età, classe sociale o condizione culturale, si riscattarono da uno straniero arrogante e dominatore, combattendo con coraggio e coesione.
Da quel lontano 1848 naturalmente Milano è cambiata, ma le criticità, anche se diverse, ci sono ancora. Per questo, dovremmo cercare dentro noi stessi quello stesso spirito di rivalsa, farlo rivivere e reagire, con uguale determinazione, ai problemi di oggi.
Storia di libertà. "A 160 anni dai moti che hanno delineato in maniera indelebile i tratti distintivi e identitari di Milano, è opportuno ripensare a quelle giornate, a quei personaggi e situazioni al di là della loro indiscussa rilevanza storica, oltre il loro profondo significato simbolico, vivido esempio della volontà di un popolo di riappropriarsi della propria terra, della propria indipendenza e libertà - commenta l’assessore Massimiliano Orsatti -. In questo grande avvenimento c’è già tutto lo spirito della Milano migliore: la capacità di unire risorse e forze per conseguire grandi obiettivi e raggiungere traguardi importanti".
SBARCO A SESTO CALENDE
SBARCO A SESTO CALENDE
Al di là delle memorie legate ai campi di battaglia, Garibaldi e i suoi uomini hanno lasciato tracce di sé in numerose altre località del Varesotto.
Basti ricordare lo sbarco dei Cacciatori delle Alpi a Sesto Calende il 23 maggio 1859, immortalato sull'onda della memoria dal pittore-soldato Eleuterio Pagliano in un celebre quadro ad olio conservato ai Musei Civici di Varese. E' un quadro gigantesco, con un campo di tela alto due metri e trenta per sei di lunghezza. L'autore, fervente patriota già sulle barricate di Milano nel marzo 1848, fissa con scrupolo ritrattistico i protagonisti dello sbarco, i volti e le figure di settantatrè volontari garibaldini, descritti nell'attimo in cui i barconi attraccano nel porticciolo.
Dai caseggiati del lungolago, rischiarati da una fresca luce mattutina, la gente osserva incuriosita. Sullo sfondo occhieggia la sagoma familiare del Monte Rosa.
Il grosso della truppa attende di mettere piede a terra, un garibaldino già sbarcato gioca con un cane, un altro consulta le carte topografiche, un terzo sventola il Tricolore. C'è nell'aria un'atmosfera d'attesa, quasi di ansia per le imprese che si vanno a compiere.
LA LOCANDA DEL GENERALE
Una legenda numerata sul retro della tela svela l'identità dei patrioti.
Ecco Nino Bixio, i generali Medici, Sacchi e Cosenz, i pittori Sebastiano De Albertis, Girolamo Induno e lo stesso Pagliano, il bergamasco Francesco Nullo, il medico Agostino Bertani che sarà l'anima organizzativa della futura spedizione dei Mille. C'è anche Ippolito Nievo, il letterato che ha già scritto il suo capolavoro, “Le confessioni di un italiano”, ma preferisce seguire Garibaldi piuttosto che sedersi sugli allori letterari.
E poi la truppa, studenti, avvocati, carrettieri, bottegai. Ritto sul pontile, con l'inseparabile poncho gettato sulle spalle, il generale guarda lontano appoggiandosi al fucile. Il quadro è una testimonianza d'eccezione, una cronaca soffusa di nostalgico romanticismo.
Altre tracce il nizzardo e i suoi lasciarono nelle due spedizioni prealpine a Induno Olona, Arcisate e in Valceresio. Il sito Internet di un noto ristorante di Induno spiega che Giuseppe Garibaldi passò dal paese nel 1848 trovando ospitalità nell'unica locanda, dove tornò poi nel 1859. Gli indunesi, tuttavia, non vollero ricordare questo passaggio del generale con l'intitolazione di una via o di un monumento, perché a quanto pare le truppe garibaldine affamate saccheggiarono le case.
In realtà, spiega il sito, tutto si ridusse al furto di un asino. Nel luogo in cui sorgeva la vecchia osteria che ospitò l'eroe dei due mondi, sorse quella che oggi è la Locanda Garibaldi.
Il monumento al Garibaldino
A Varese, resta a ricordare la sanguinosa battaglia di Biumo Inferiore, il monumento ai Cacciatori delle Alpi.Una bella ricerca storica con cui gli alunni della 3A della scuola media statale Dante Alighieri vinsero un viaggio premio nel 2003, spiega che il monumento è la riproduzione in bronzo dell'opera scolpita in pietra dall'artista di Viggiù Luigi Leone Buzzi.
Il monumento, alto otto metri e largo tre, fu inaugurato il 26 maggio 1867 nella piazza San Martino davanti alle scuole comunali (oggi tribunale) che, per l'occasione, fu ribattezzata piazza Cacciatori delle Alpi. L'opera fu poi collocata in piazza Podestà il 26 maggio 1901.
Garibaldi fu sempre legato da un sincero e ricambiato affetto al territorio varesino. Fu eletto deputato al Parlamento del nuovo Regno d'Italia per il collegio Varese-Cuvio.
Al di là delle memorie legate ai campi di battaglia, Garibaldi e i suoi uomini hanno lasciato tracce di sé in numerose altre località del Varesotto.
Basti ricordare lo sbarco dei Cacciatori delle Alpi a Sesto Calende il 23 maggio 1859, immortalato sull'onda della memoria dal pittore-soldato Eleuterio Pagliano in un celebre quadro ad olio conservato ai Musei Civici di Varese. E' un quadro gigantesco, con un campo di tela alto due metri e trenta per sei di lunghezza. L'autore, fervente patriota già sulle barricate di Milano nel marzo 1848, fissa con scrupolo ritrattistico i protagonisti dello sbarco, i volti e le figure di settantatrè volontari garibaldini, descritti nell'attimo in cui i barconi attraccano nel porticciolo.
Dai caseggiati del lungolago, rischiarati da una fresca luce mattutina, la gente osserva incuriosita. Sullo sfondo occhieggia la sagoma familiare del Monte Rosa.
Il grosso della truppa attende di mettere piede a terra, un garibaldino già sbarcato gioca con un cane, un altro consulta le carte topografiche, un terzo sventola il Tricolore. C'è nell'aria un'atmosfera d'attesa, quasi di ansia per le imprese che si vanno a compiere.
LA LOCANDA DEL GENERALE
Una legenda numerata sul retro della tela svela l'identità dei patrioti.
Ecco Nino Bixio, i generali Medici, Sacchi e Cosenz, i pittori Sebastiano De Albertis, Girolamo Induno e lo stesso Pagliano, il bergamasco Francesco Nullo, il medico Agostino Bertani che sarà l'anima organizzativa della futura spedizione dei Mille. C'è anche Ippolito Nievo, il letterato che ha già scritto il suo capolavoro, “Le confessioni di un italiano”, ma preferisce seguire Garibaldi piuttosto che sedersi sugli allori letterari.
E poi la truppa, studenti, avvocati, carrettieri, bottegai. Ritto sul pontile, con l'inseparabile poncho gettato sulle spalle, il generale guarda lontano appoggiandosi al fucile. Il quadro è una testimonianza d'eccezione, una cronaca soffusa di nostalgico romanticismo.
Altre tracce il nizzardo e i suoi lasciarono nelle due spedizioni prealpine a Induno Olona, Arcisate e in Valceresio. Il sito Internet di un noto ristorante di Induno spiega che Giuseppe Garibaldi passò dal paese nel 1848 trovando ospitalità nell'unica locanda, dove tornò poi nel 1859. Gli indunesi, tuttavia, non vollero ricordare questo passaggio del generale con l'intitolazione di una via o di un monumento, perché a quanto pare le truppe garibaldine affamate saccheggiarono le case.
In realtà, spiega il sito, tutto si ridusse al furto di un asino. Nel luogo in cui sorgeva la vecchia osteria che ospitò l'eroe dei due mondi, sorse quella che oggi è la Locanda Garibaldi.
Il monumento al Garibaldino
A Varese, resta a ricordare la sanguinosa battaglia di Biumo Inferiore, il monumento ai Cacciatori delle Alpi.Una bella ricerca storica con cui gli alunni della 3A della scuola media statale Dante Alighieri vinsero un viaggio premio nel 2003, spiega che il monumento è la riproduzione in bronzo dell'opera scolpita in pietra dall'artista di Viggiù Luigi Leone Buzzi.
Il monumento, alto otto metri e largo tre, fu inaugurato il 26 maggio 1867 nella piazza San Martino davanti alle scuole comunali (oggi tribunale) che, per l'occasione, fu ribattezzata piazza Cacciatori delle Alpi. L'opera fu poi collocata in piazza Podestà il 26 maggio 1901.
Garibaldi fu sempre legato da un sincero e ricambiato affetto al territorio varesino. Fu eletto deputato al Parlamento del nuovo Regno d'Italia per il collegio Varese-Cuvio.
mercoledì 21 settembre 2011
Rosa Vercellana , contessa di Mirafiori e Fontanafredda
Che Vittorio Emanuele non corrispondesse né fisicamente , né tantomeno caratterialmente al tipico esponente della casa di Savoia , balza decisamente all' occhio , tanto che il D' Azeglio mise in giro la fola , campata in aria , che il vero principe fosse morto a Firenze all' età di due anni in un incendio , che veramente ci fù , e che costò la vita alla nutrice , che morì per le ustioni riportate , e fosse stato sostituito dal figlio di un macellaio , un certo Tanaca , che avrebbe rinunciato alla paternità , per vederlo salire al trono di Sardegna.A parte le leggende , l' unica cosa che lo accomunava ai predecessori era la passione per la caccia , non solo per quella al cervo o al capriolo , anche e soprattutto quella alle gonnelle di giovani contadine , fugaci amori campestri (al giorno d' oggi diremmo volgarmente sveltine) , di cui nessuno si lamentò mai , un contributo alla futura dote della ragazza tacitava il fatto , lasciando tutti soddisfatti.La relazione con la bella Rosina era cominciata cosí, durante una giornata di caccia , il principe , aveva l' abitudine di frequentare trattorie e di intrattenersi affabilmente con tutti , parlando in dialetto , la lingua che usava correntemente anche a corte , riservando il francese per le occasioni importanti (l'Italiano non lo parlò mai correntemente) incontrò ,, nei pressi di Racconigi Teresa Luisa Rosa Maria Vercellana , chiamata in paese “la Bella Rusin”, nulla avrebbe fatto supporre un esito diverso dal solito , tranne il fatto che gli incontri furono alquanto ripetuti.Dopo qualche tempo infatti la famiglia di lei sollecitò al re un contributo , affinché la ragazza potesse rifarsi una vita sposando un sergente dell' esercito , inaspettatamente Vittorio Emanuele reagí , il malcapitato aspirante venne mandato in Sardegna , e Rosina fu sistemata convenientemente a Torino.
Stando a quel che egli stesso raccontò a una sua ex amica , l'attrice Laura Bon , Vittorio Emanuele conobbe la Vercellana nel 1847 , 14 anni lei, 27 lui.
Rosina era nata a Mirafiori presso Stupinigi (altre fonti dicono nata a Moncalvo , nel Monferrato , altre ancora a Nizza Marittima) l' 11 Giugno 1833 , e abitava a Pinerolo coi suoi , Il padre , Giovanni Battista , era stato tamburo maggiore del regio esercito , ora è postiglione su una diligenza nel circondario di Casale , Vittorio Emanuele lo definirà “una perla d' uomo” , la ragazza di campagna avvicinò dunque il suo principe per ottenere la grazia al fratello Domenico , che si era meritato gli arresti (per altre fonti , l' occasione sarebbe stata una battuta di caccia nel Monferrato) , difficile che un soldato nei guai abbia mai avuto una patrona cosí persuasiva , la Rosina , per i canoni del tempo era una bellezza , un genuino prodotto delle valli piemontesi , Vittorio Emanuele aveva il gusto delle cose schiette , il vino , la caccia , la donna dei paesi suoi e il genio delle conquiste spicce.
Intorno a lui non troviamo infatti nessuna donna fatale , nessuna di quelle avventure esotiche per le quali altri romantici rampolli di antiche famiglie consumavano patrimoni e facoltà psichiche , nelle stazioni termali di mezza Europa , incrementando i memoriali e gli scandali , men che meno una di quelle dame politiche stile salotto culturale e mondano.Nel ramo cultura, Vittorio Emanuele arrivò fino al mondo del teatro, conquistando due attrici , Laura Bon (da cui hà una figlia , Emanuela Maria Alberta , registrata come figlia del conte Vittorio di Roverbella) ed Emma Ivon , che frequentò nelle capitali che precedettero Roma , la Bon a Torino , la Ivon a Firenze , ma furono relazioni discrete , senza grandi slanci di passione romantica da giovane Werter , né da scene di disperazione da parte delle attrici , che rimasero con lui in buoni rapporti .Si conoscono i nomi di molte altre donne , alcune figliarono (da cui la celebre frase , attribuita al solito D' Azeglio:Se continua così , più che il padre della patria , sarà il padre degli italiani) , ma ne ometto la lunga lista , dopo una ventina di nomi da varie fonti , hò rinunciato a completarla , dirò solo che un figlio naturale fù il futuro generale degli alpini Giacomo Etna.
Anche la contessa di Castiglione , pare abbia usufruito di parecchi “fugaci incontri” col Re , nei suoi carnet , piccole agende che spesso le dame tenevano legati ai polsi , ella registrava gli incontri di ogni giornata , contrassegnando i nomi con una lettera , a seconda del carattere dell' incontro , pare che la lettera F significasse “incontro carnale” , in questi carnet la lettera F non manca mai , dopo il nome del Re.Vittorio si era sposato nel 1842 , a 22 anni con Maria Adelaide , una Asburgo , fù naturalmente un matrimonio politico , il che non impedì loro di avere 6 figli .
La regina Maria Adelaide del resto era abituata a passar sopra alle evasioni piú o meno spicciole di questo marito , di cui certo si poteva criticare l' elastica morale , ma non certo la vitalità , e lo fece senza musonerie , senza farlo pesare , tanto che la gente , con la stessa simpatia che dimostrava al fedifrago , la chiamava santa , il diplomatico francese Ideville , riferì che un giorno , la regina incontrato uno dei figli di vittorio e Rosina durante una passeggiata nel castello di Stupinigi , lo prese tra le braccia , col volto inondato di lacrime.
Ma torniamo al momento in cui Rosina si stabilisce a Torino , il padre sarà stato una pasta d' uomo , ma arrivarono un sacco di parenti che la scortavano ovunque, tutti parati a festa , a teatro come al passeggio del Valentino , una vecchietta che aveva sempre venduto fiammiferi sotto i portici ( una fantomatica zia di Rosina?) parlava addirittura del re come di suo "nipote" Vittorio.
Il Re reagì subito , il clan di Pinerolo venne opportunamente ridimensionato dagli aiutanti del re , Rosina tuttavia riuscí a piazzare a corte un cugino, Natale Aghemo , che divenne conte e addirittura capo di gabinetto del re , la sua posizione cominciò a far pensare quando il re esonerò il generale Cigala , da trent'anni in servizio a corte , perché aveva rifiutato alla ragazza una vettura con lo stemma della real casa.Chi , al solito , mostrava di non accusare il colpo era la regina che aveva dato al re sei figli , e continuava a tirare avanti tra sorrisi e opere pie , ma fu proprio la scomparsa della moglie a mettere in crisi nel 55 il ménage di Vittorio e di Rosina , pare che il Re fosse stato veramente addolorato per la scomparsa della moglie , che aveva svolto il suo ruolo istituzionale da vera Asburgo , senza mai frapporre ostacoli alla politica e al buon nome del marito , che ora si trovava vedovo , con i ministri che cercavano di procurargli un nuovo matrimonio politicodinastico.
Dopo la brillante partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea , voluta dal Cavour , i sovrani di mezza Europa si mostravano interessati a imparentarsi col re di quel piccolo stato che , grazie al genio di Cavour e all'evolversi della situazione internazionale , stava espandendosi riscuotendo forti simpatie in ambito europeo.Napoleone III , voleva dare in moglie a Vittorio Emanuele II una principessa dei belgi, altri la vedova del suo stesso fratello Ferdinando , Elisabetta di Sassonia, anche la regina d'Inghilterra , che aveva invitato Vittorio Emanuele a Windsor per insignirlo dell'ordine della Giarrettiera , pur avendo espresso privatamente alcune riserve sul personaggio , avanzò la candidatura di sua figlia Mary.Malgrado i vantaggi che potevano derivargli da tali prestigiose alleanze dinastiche , Vittorio Emanuele si mostrò insensibile , a proposito della principessa inglese , ebbe poi a dire che la pur bellissima Mary “sapeva troppo di greco e di latino” manifestando cosí quell' allergia verso la donna colta , ma intrigante , o semplicemente accampante giudizi di opinione o di veto che nei Savoia era ereditaria , infatti , avevano escluso le donne dalla linea di successione sin dal XV secolo.
Vuoi per questi ancestrali timori , vuoi per il desiderio sempre legittimo , in un ex-marito , di conservare la libertà, o , molto probabilmente per l'attaccamento che egli portava ormai alla Rosina , Vittorio Emanuele se ne uscí dunque incolume dalla congiura matrimoniale montata dai suoi ministri.
Rosina cucinava per lui i cibi tradizionali della cucina piemontese , gli tagliava le unghie dei piedi , come tradizione nelle campagne , lo trattava con l' affetto e la deferenza delle mogli borghesi dell' epoca , il Re , nelle cene ufficiali , non toccava cibo , mettendo tutti i commensali in imbarazzo , detestava ogni forma di etichetta e , in fondo , si considerava un borghese , proprietario terriero , e lei lo faceva sentire tale.
Poco dopo Rosina si ebbe la sua contea di Mirafiori e Fontanafredda , titolo che trasmise ai due figli , Vittoria (1850-1919) ed Emanuele Alberto (1851-94).
La svolta matrimoniale avvenne nel 69 , a S. Rossore , in dicembre , il re si buscò una brutta polmonite , quando i suoi medici lo dettero per spacciato si risolse a quel matrimonio religioso cui anche il parroco di Mirafiori lavorava da tempo , la notte del 18 , alla presenza del principe ereditario, del principe di Carignano , del primo ministro Menabrea e di pochi intimi.
Quella notte Vittorio Emanuele ebbe due sacramenti , matrimonio e olio santo , quest'ultimo decisamente in anticipo , visto che l'anno seguente , il fatale 1870 di Porta Pia, egli entrò trionfalmente in Roma capitale dell'Italia unita.
Ovviamente fù un matrimonio morganatico , il che comportava la non ereditarietà , né delle proprietà , né , tantomeno , dei titoli.
Il successo della dinastia portava però nuovi obblighi , i coniugi Vittorio e Rosina non potevano far parlare di sé , erano l'unica famiglia reale rimasta al potere nella penisola , l'unico bersaglio, sotto gli occhi degli aristocratici che ora guardavano a loro , magari nostalgici di altre corti , e c'erano inoltre i repubblicani , l'opposizione, non ci si poteva permettere di offrire il fianco alle critiche.
La Rosina cosí non raggiunse il vertice , quel matrimonio civile , ovvero la corona d'Italia, a cui penso non abbia mai teso , anche se qualche storico pone il dubbio.
Alla contessa di Mirafiori , residente in una villa sulla Salaria che il re raggiungeva ogni giorno uscendo dalla foresteria del Quirinale , si addiceva ormai il più stretto riserbo , quando , con l'appoggio del ministro Nicotera , ella fece allontanare in quattro e quattr'otto da Roma una avventuriera che aveva fatto colpo sul figlio, non pochi giornali scrissero protestando , che la salvaguardia del contino di Mirafiori non giustificava un tale provvedimento ai danni di una straniera.
Seppe accettare la sua situazione di moglie ombra, poi, di vedova , al punto che la corona di fiori che inviava al Pantheon ogni anniversario della scomparsa di Vittorio Emanuele non recava alcun nome.
La contessa di Mirafiori morí a Pisa nell' 85 , in casa della figlia marchesa Spínola Grimaldi , fu sepolta a Mirafiori come una regina , con tanto di mausoleo a forma di piccolo Pantheon.
Nel '77 aveva avuto la soddisfazione di vedere pubblicata la notizia delle sue nozze morganatiche col primo re d'Italia sull'Almanacco di Gotha , e pare che il Nigra non sia stato estraneo alla cosa.
Vale la pena di ricordare i figli di Vittorio e della Rosina , all' anagrafe vengono denunciati come figli di ignoti , e gli viene attribuito il cognome Guerrieri , sono Vittoria nata il 1° Dicembre 1848 ed Emanuele Alberto nato il 4 Ottobre 1851.
Emanuele Alberto Guerrieri parteciperà insieme al padre alle operazioni militari della terza guerra d' indipendenza nel 1866 , fonda anche le rinomate Cantine di Fontanafredda , prestigiosa ditta vinicola ancora esistente , dimostrandosi un valente pioniere della viticultura piemontese.
Vittoria sposa nel 1868 il marchese Giacomo Filippo Spinola , primo aiutante di campo del Re.
I due figli verranno riconosciuti come legittimi dalla contessa di Mirafiori solo nel 1879 , trasmettendo il titolo al figlio di conte di Mirafiori e Fontanafredda.
Stando a quel che egli stesso raccontò a una sua ex amica , l'attrice Laura Bon , Vittorio Emanuele conobbe la Vercellana nel 1847 , 14 anni lei, 27 lui.
Rosina era nata a Mirafiori presso Stupinigi (altre fonti dicono nata a Moncalvo , nel Monferrato , altre ancora a Nizza Marittima) l' 11 Giugno 1833 , e abitava a Pinerolo coi suoi , Il padre , Giovanni Battista , era stato tamburo maggiore del regio esercito , ora è postiglione su una diligenza nel circondario di Casale , Vittorio Emanuele lo definirà “una perla d' uomo” , la ragazza di campagna avvicinò dunque il suo principe per ottenere la grazia al fratello Domenico , che si era meritato gli arresti (per altre fonti , l' occasione sarebbe stata una battuta di caccia nel Monferrato) , difficile che un soldato nei guai abbia mai avuto una patrona cosí persuasiva , la Rosina , per i canoni del tempo era una bellezza , un genuino prodotto delle valli piemontesi , Vittorio Emanuele aveva il gusto delle cose schiette , il vino , la caccia , la donna dei paesi suoi e il genio delle conquiste spicce.
Intorno a lui non troviamo infatti nessuna donna fatale , nessuna di quelle avventure esotiche per le quali altri romantici rampolli di antiche famiglie consumavano patrimoni e facoltà psichiche , nelle stazioni termali di mezza Europa , incrementando i memoriali e gli scandali , men che meno una di quelle dame politiche stile salotto culturale e mondano.Nel ramo cultura, Vittorio Emanuele arrivò fino al mondo del teatro, conquistando due attrici , Laura Bon (da cui hà una figlia , Emanuela Maria Alberta , registrata come figlia del conte Vittorio di Roverbella) ed Emma Ivon , che frequentò nelle capitali che precedettero Roma , la Bon a Torino , la Ivon a Firenze , ma furono relazioni discrete , senza grandi slanci di passione romantica da giovane Werter , né da scene di disperazione da parte delle attrici , che rimasero con lui in buoni rapporti .Si conoscono i nomi di molte altre donne , alcune figliarono (da cui la celebre frase , attribuita al solito D' Azeglio:Se continua così , più che il padre della patria , sarà il padre degli italiani) , ma ne ometto la lunga lista , dopo una ventina di nomi da varie fonti , hò rinunciato a completarla , dirò solo che un figlio naturale fù il futuro generale degli alpini Giacomo Etna.
Anche la contessa di Castiglione , pare abbia usufruito di parecchi “fugaci incontri” col Re , nei suoi carnet , piccole agende che spesso le dame tenevano legati ai polsi , ella registrava gli incontri di ogni giornata , contrassegnando i nomi con una lettera , a seconda del carattere dell' incontro , pare che la lettera F significasse “incontro carnale” , in questi carnet la lettera F non manca mai , dopo il nome del Re.Vittorio si era sposato nel 1842 , a 22 anni con Maria Adelaide , una Asburgo , fù naturalmente un matrimonio politico , il che non impedì loro di avere 6 figli .
La regina Maria Adelaide del resto era abituata a passar sopra alle evasioni piú o meno spicciole di questo marito , di cui certo si poteva criticare l' elastica morale , ma non certo la vitalità , e lo fece senza musonerie , senza farlo pesare , tanto che la gente , con la stessa simpatia che dimostrava al fedifrago , la chiamava santa , il diplomatico francese Ideville , riferì che un giorno , la regina incontrato uno dei figli di vittorio e Rosina durante una passeggiata nel castello di Stupinigi , lo prese tra le braccia , col volto inondato di lacrime.
Ma torniamo al momento in cui Rosina si stabilisce a Torino , il padre sarà stato una pasta d' uomo , ma arrivarono un sacco di parenti che la scortavano ovunque, tutti parati a festa , a teatro come al passeggio del Valentino , una vecchietta che aveva sempre venduto fiammiferi sotto i portici ( una fantomatica zia di Rosina?) parlava addirittura del re come di suo "nipote" Vittorio.
Il Re reagì subito , il clan di Pinerolo venne opportunamente ridimensionato dagli aiutanti del re , Rosina tuttavia riuscí a piazzare a corte un cugino, Natale Aghemo , che divenne conte e addirittura capo di gabinetto del re , la sua posizione cominciò a far pensare quando il re esonerò il generale Cigala , da trent'anni in servizio a corte , perché aveva rifiutato alla ragazza una vettura con lo stemma della real casa.Chi , al solito , mostrava di non accusare il colpo era la regina che aveva dato al re sei figli , e continuava a tirare avanti tra sorrisi e opere pie , ma fu proprio la scomparsa della moglie a mettere in crisi nel 55 il ménage di Vittorio e di Rosina , pare che il Re fosse stato veramente addolorato per la scomparsa della moglie , che aveva svolto il suo ruolo istituzionale da vera Asburgo , senza mai frapporre ostacoli alla politica e al buon nome del marito , che ora si trovava vedovo , con i ministri che cercavano di procurargli un nuovo matrimonio politicodinastico.
Dopo la brillante partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea , voluta dal Cavour , i sovrani di mezza Europa si mostravano interessati a imparentarsi col re di quel piccolo stato che , grazie al genio di Cavour e all'evolversi della situazione internazionale , stava espandendosi riscuotendo forti simpatie in ambito europeo.Napoleone III , voleva dare in moglie a Vittorio Emanuele II una principessa dei belgi, altri la vedova del suo stesso fratello Ferdinando , Elisabetta di Sassonia, anche la regina d'Inghilterra , che aveva invitato Vittorio Emanuele a Windsor per insignirlo dell'ordine della Giarrettiera , pur avendo espresso privatamente alcune riserve sul personaggio , avanzò la candidatura di sua figlia Mary.Malgrado i vantaggi che potevano derivargli da tali prestigiose alleanze dinastiche , Vittorio Emanuele si mostrò insensibile , a proposito della principessa inglese , ebbe poi a dire che la pur bellissima Mary “sapeva troppo di greco e di latino” manifestando cosí quell' allergia verso la donna colta , ma intrigante , o semplicemente accampante giudizi di opinione o di veto che nei Savoia era ereditaria , infatti , avevano escluso le donne dalla linea di successione sin dal XV secolo.
Vuoi per questi ancestrali timori , vuoi per il desiderio sempre legittimo , in un ex-marito , di conservare la libertà, o , molto probabilmente per l'attaccamento che egli portava ormai alla Rosina , Vittorio Emanuele se ne uscí dunque incolume dalla congiura matrimoniale montata dai suoi ministri.
Rosina cucinava per lui i cibi tradizionali della cucina piemontese , gli tagliava le unghie dei piedi , come tradizione nelle campagne , lo trattava con l' affetto e la deferenza delle mogli borghesi dell' epoca , il Re , nelle cene ufficiali , non toccava cibo , mettendo tutti i commensali in imbarazzo , detestava ogni forma di etichetta e , in fondo , si considerava un borghese , proprietario terriero , e lei lo faceva sentire tale.
Poco dopo Rosina si ebbe la sua contea di Mirafiori e Fontanafredda , titolo che trasmise ai due figli , Vittoria (1850-1919) ed Emanuele Alberto (1851-94).
La svolta matrimoniale avvenne nel 69 , a S. Rossore , in dicembre , il re si buscò una brutta polmonite , quando i suoi medici lo dettero per spacciato si risolse a quel matrimonio religioso cui anche il parroco di Mirafiori lavorava da tempo , la notte del 18 , alla presenza del principe ereditario, del principe di Carignano , del primo ministro Menabrea e di pochi intimi.
Quella notte Vittorio Emanuele ebbe due sacramenti , matrimonio e olio santo , quest'ultimo decisamente in anticipo , visto che l'anno seguente , il fatale 1870 di Porta Pia, egli entrò trionfalmente in Roma capitale dell'Italia unita.
Ovviamente fù un matrimonio morganatico , il che comportava la non ereditarietà , né delle proprietà , né , tantomeno , dei titoli.
Il successo della dinastia portava però nuovi obblighi , i coniugi Vittorio e Rosina non potevano far parlare di sé , erano l'unica famiglia reale rimasta al potere nella penisola , l'unico bersaglio, sotto gli occhi degli aristocratici che ora guardavano a loro , magari nostalgici di altre corti , e c'erano inoltre i repubblicani , l'opposizione, non ci si poteva permettere di offrire il fianco alle critiche.
La Rosina cosí non raggiunse il vertice , quel matrimonio civile , ovvero la corona d'Italia, a cui penso non abbia mai teso , anche se qualche storico pone il dubbio.
Alla contessa di Mirafiori , residente in una villa sulla Salaria che il re raggiungeva ogni giorno uscendo dalla foresteria del Quirinale , si addiceva ormai il più stretto riserbo , quando , con l'appoggio del ministro Nicotera , ella fece allontanare in quattro e quattr'otto da Roma una avventuriera che aveva fatto colpo sul figlio, non pochi giornali scrissero protestando , che la salvaguardia del contino di Mirafiori non giustificava un tale provvedimento ai danni di una straniera.
Seppe accettare la sua situazione di moglie ombra, poi, di vedova , al punto che la corona di fiori che inviava al Pantheon ogni anniversario della scomparsa di Vittorio Emanuele non recava alcun nome.
La contessa di Mirafiori morí a Pisa nell' 85 , in casa della figlia marchesa Spínola Grimaldi , fu sepolta a Mirafiori come una regina , con tanto di mausoleo a forma di piccolo Pantheon.
Nel '77 aveva avuto la soddisfazione di vedere pubblicata la notizia delle sue nozze morganatiche col primo re d'Italia sull'Almanacco di Gotha , e pare che il Nigra non sia stato estraneo alla cosa.
Vale la pena di ricordare i figli di Vittorio e della Rosina , all' anagrafe vengono denunciati come figli di ignoti , e gli viene attribuito il cognome Guerrieri , sono Vittoria nata il 1° Dicembre 1848 ed Emanuele Alberto nato il 4 Ottobre 1851.
Emanuele Alberto Guerrieri parteciperà insieme al padre alle operazioni militari della terza guerra d' indipendenza nel 1866 , fonda anche le rinomate Cantine di Fontanafredda , prestigiosa ditta vinicola ancora esistente , dimostrandosi un valente pioniere della viticultura piemontese.
Vittoria sposa nel 1868 il marchese Giacomo Filippo Spinola , primo aiutante di campo del Re.
I due figli verranno riconosciuti come legittimi dalla contessa di Mirafiori solo nel 1879 , trasmettendo il titolo al figlio di conte di Mirafiori e Fontanafredda.
martedì 20 settembre 2011
Marzo 1821
Soffermati sulla sponda sabbiosa del Ticino, guardato il fiume appena superato, pensando alla sorte cui stavano andando incontro, rassicurati dall'antico valore dell'Italia romana, hanno giurato: non accada mai più che questo fiume segni il confine tra due terre straniere; non ci siano più barriere all'interno dell'Italia.
L'hanno giurato: altri uomini valorosi da altre regioni d'Italia hanno risposto a quel giuramento; preparando di nascosto le spade che ora sollevano alla luce del sole. Si sono già stretti le mani e hanno pronunciato il giuramento: o moriremo insieme, o saremo uniti nella vittoria.
Chi riuscirà a dividere nel Po le acque dei suoi aft1uenti: la Dora Baltea, la Dora Riparia, il Tanaro e il suo aft1uente Bormida, in Ticino, l'arba le cui sponde sono ricche di vegetazione; chi riuscirà a distinguere le correnti della Mella e dell'aglio nel Po e i molti torrenti dell'Adda, quello sarà capace di dividere in genti disprezzate un popolo insorto, di ritornare al passato, infliggendogli gli antichi dolori: un popolo che sarà completamente libero delle Alpi al mare, unito nelle armi, nella lingua, nella religione, nelle memorie, nel sangue e nei sentimenti.
Con lo stesso volto sfiduciato, con lo sguardo abbattuto e intimorito con il quale un mendicante tollerato per pietà sta in terra straniera, allo stesso modo doveva stare in Lombardia il lombardo. Quello che volevano gli altri era legge per lui, il suo destino era un segreto di altri, il suo ruolo era servire e tacere.
a stranieri, l'Italia ritorna a prendere la sua terra, sua eredità; o stranieri, andate via da una terra che non vi ha dato i natali. Non vedete che tutta la gente insorge dal Cenisio fino alla Sicilia? Non sentite che è instabile sotto il vostro straniero dominio?
O stranieri, sulle vostre bandiere sta il disonore di un giuramento tradito, un giuramento da voi pronunciato vi porta ad una guerra ingiusta. Voi insieme avete gridato in quei giorni: Dio rifiuta il dominio straniero, ogni popolazione sia libera e che muoia l'ingiusta ragione della guerra. Se la terra dove avete sofferto il potere straniero adesso è la tomba dei vostri oppressori, se la faccia dei vostri nemici allora vi sembrava disgustosa, chi vi ha detto che le sofferenze degli italiani non avrebbero portato mai a niente? Chi vi ha detto che Dio che ha ascoltato i vostri lamenti, non avrebbe ascoltato anche i nostri?
Proprio quel Dio che chiuse le acque del Mar Rosso sui crudeli Egiziani che inseguivano gli Ebrei, quel Dio che aveva messo nelle mani della forte Giaele il martello e che lo aveva aiutato a dare il colpo a Sisara. Quello che è il padre di tutte le genti, che non ha mai detto ai Tedeschi: andate, raccogliete i frutti che non avete coltivato; stendete la mano: vi do l'Italia.
Cara Italia! Dove il lamento della tua schiavitù è arrivato, dove l'umanità ha ancora speranza, dove la libertà è già fiorita, dove nel segreto matura, dove gli uomini piangono la loro sventura, non c'è nessun cuore che non batta per te.Quante volte ha aspettato sulle Alpi l'arrivo di una bandiera amica. Quante volte hai voltato lo sguardo ai due mari! Ecco, infine, gli aiuti sono giunti dall'interno, tutti uniti intorno alla tua bandiera, forti e spinti dalle loro sofferenze, sono arrivati i tuoi figli a lottare. Adesso, o forti, vediamo sul vostro viso la rabbia che avete tenuto nascosta dentro di voi: si combatte per l'Italia, vincete. La sorte dell'Italia dipende da voi. a la vedremo liberata da voi annessa ai popoli liberi; o resterà sotto il dominio straniero, più vile, più sottomessa e più derisa.
ah giorni della nostra vittoria! Oh sventurato chi da lontano li udirà da altri come se fosse uno straniero; chi narrerà questi fatti ai propri figli dovendo aggiungere sospirando: io non ero lì; chi non avrà salutato quel giorno la bandiera vincitrice.
L'hanno giurato: altri uomini valorosi da altre regioni d'Italia hanno risposto a quel giuramento; preparando di nascosto le spade che ora sollevano alla luce del sole. Si sono già stretti le mani e hanno pronunciato il giuramento: o moriremo insieme, o saremo uniti nella vittoria.
Chi riuscirà a dividere nel Po le acque dei suoi aft1uenti: la Dora Baltea, la Dora Riparia, il Tanaro e il suo aft1uente Bormida, in Ticino, l'arba le cui sponde sono ricche di vegetazione; chi riuscirà a distinguere le correnti della Mella e dell'aglio nel Po e i molti torrenti dell'Adda, quello sarà capace di dividere in genti disprezzate un popolo insorto, di ritornare al passato, infliggendogli gli antichi dolori: un popolo che sarà completamente libero delle Alpi al mare, unito nelle armi, nella lingua, nella religione, nelle memorie, nel sangue e nei sentimenti.
Con lo stesso volto sfiduciato, con lo sguardo abbattuto e intimorito con il quale un mendicante tollerato per pietà sta in terra straniera, allo stesso modo doveva stare in Lombardia il lombardo. Quello che volevano gli altri era legge per lui, il suo destino era un segreto di altri, il suo ruolo era servire e tacere.
a stranieri, l'Italia ritorna a prendere la sua terra, sua eredità; o stranieri, andate via da una terra che non vi ha dato i natali. Non vedete che tutta la gente insorge dal Cenisio fino alla Sicilia? Non sentite che è instabile sotto il vostro straniero dominio?
O stranieri, sulle vostre bandiere sta il disonore di un giuramento tradito, un giuramento da voi pronunciato vi porta ad una guerra ingiusta. Voi insieme avete gridato in quei giorni: Dio rifiuta il dominio straniero, ogni popolazione sia libera e che muoia l'ingiusta ragione della guerra. Se la terra dove avete sofferto il potere straniero adesso è la tomba dei vostri oppressori, se la faccia dei vostri nemici allora vi sembrava disgustosa, chi vi ha detto che le sofferenze degli italiani non avrebbero portato mai a niente? Chi vi ha detto che Dio che ha ascoltato i vostri lamenti, non avrebbe ascoltato anche i nostri?
Proprio quel Dio che chiuse le acque del Mar Rosso sui crudeli Egiziani che inseguivano gli Ebrei, quel Dio che aveva messo nelle mani della forte Giaele il martello e che lo aveva aiutato a dare il colpo a Sisara. Quello che è il padre di tutte le genti, che non ha mai detto ai Tedeschi: andate, raccogliete i frutti che non avete coltivato; stendete la mano: vi do l'Italia.
Cara Italia! Dove il lamento della tua schiavitù è arrivato, dove l'umanità ha ancora speranza, dove la libertà è già fiorita, dove nel segreto matura, dove gli uomini piangono la loro sventura, non c'è nessun cuore che non batta per te.Quante volte ha aspettato sulle Alpi l'arrivo di una bandiera amica. Quante volte hai voltato lo sguardo ai due mari! Ecco, infine, gli aiuti sono giunti dall'interno, tutti uniti intorno alla tua bandiera, forti e spinti dalle loro sofferenze, sono arrivati i tuoi figli a lottare. Adesso, o forti, vediamo sul vostro viso la rabbia che avete tenuto nascosta dentro di voi: si combatte per l'Italia, vincete. La sorte dell'Italia dipende da voi. a la vedremo liberata da voi annessa ai popoli liberi; o resterà sotto il dominio straniero, più vile, più sottomessa e più derisa.
ah giorni della nostra vittoria! Oh sventurato chi da lontano li udirà da altri come se fosse uno straniero; chi narrerà questi fatti ai propri figli dovendo aggiungere sospirando: io non ero lì; chi non avrà salutato quel giorno la bandiera vincitrice.
lunedì 19 settembre 2011
Papa Pio IX (1846-1878)
La famiglia Mastai è di antichissima e nobile stirpe, originaria di Crema nel 1300; un componente di questa famiglia, residente a Venezia, si spostò a Senigallia nel 1557 e sposò una senigalliese.
Nel 1625 Giovanni Maria Mastai sposò la contessa Margherita Ferretti di Ancona, ereditandone i titoli, i beni e lo stemma che si aggiunse a quello Mastai. Fu una famiglia molto prolifica e religiosa; il trisavolo di Pio IX ebbe 19 figli, il bisnonno sei figli, il nonno Ercole sette. Giovanni Maria Mastai Ferretti (Pio IX) fu il nono figlio del Conte Girolamo e di Caterina Sollazzi e nacque a Senigallia il 13 maggio 1792, battezzato lo stesso giorno della nascita.
Compì gli studi classici nel Collegio dei Nobili a Volterra, diretto dagli Scolopi, dal 1803 al 1808, studi sospesi per improvvisi attacchi epilettici, proprio quando sognava di seguire la carriera ecclesiastica.
Dal 1814 fu ospite a Roma dello zio Mastai Ferretti Paolino, Canonico di S. Pietro e poté proseguire gli studi di Filosofia e di Teologia nel Collegio Romano.
Nel 1815 si recò in pellegrinaggio a Loreto ed ottenne la grazia della guarigione dalla malattia.
Per questo poté continuare i suoi studi e la preparazione intensa al presbiterato. Il 5 gennaio 1817 ricevette gli Ordini Minori, il 19 dicembre 1818 il Suddiaconato, il 7 marzo 1819 il Diaconato, il 10 aprile 1819 venne ordinato Sacerdote. L'11 aprile 1819 celebrò la prima Santa Messa nella chiesa di sant'Anna, annessa all'Ospizio Tata Giovanni, tra i ragazzi che furono il centro del suo apostolato giovanile fino al 1823.
Dal luglio 1823 al giugno 1825 fu tra i membri componenti la Missione apostolica in Cile guidata dal Delegato Mons. Giovanni Muzi.
Il 24 aprile 1827 fu nominato Arcivescovo di Spoleto a soli 35 anni; il 6 dicembre 1832 venne trasferito al Vescovado di Imola; il 14 dicembre 1840 ricevette la berretta Cardinalizia; il 16 giugno 1846, al quarto scrutinio, con voti 36 su 50 Cardinali presenti al Conclave, venne eletto Sommo Pontefice a soli 54 anni.
Un mese dopo concesse l'amnistia (16 luglio 1846) per i reati politici.
Dall'agosto 1846 al 14 marzo 1848 è l'epoca delle grandi riforme dello Stato Pontificio (Ministero liberale, libertà di stampa e agli ebrei, Guardia Civica, inizio delle ferrovie, Municipio di Roma, 14 marzo 1849 emissione dello Statuto).
Con l'Allocuzione del 29 aprile 1848 contro la guerra all'Austria declina la stella politica del Mastai e incomincia la sua lunga Via Crucis.
Il 15 novembre 1848 uccisione di Pellegrino Rossi; dal 24 novembre 1848 al 12 aprile 1850 esilio del Pontefice a Gaeta e quindi ritorno a Roma, ove riprese una illuminata restaurazione.
L'8 dicembre 1854 definizione del dogma della Immacolata Concezione. Dal 4 maggio al 5 settembre 1857 viaggio-visita politico-pastorale di Pio IX nei suoi Stati.
Nell'aprile del 1860 caddero le Legazioni, nel settembre la Marche e l'Umbria furono annesse al Regno d'Italia. Il 1° luglio 1861 viene pubblicato il primo numero dell'"Osservatore Romano". L'8 dicembre 1864 Enciclica "Quanta Cura" e il Sillabo; il 2 maggio 1868 approvazione della Gioventù Cattolica Italiana; l'8 dicembre 1869 apertura del Concilio Vaticano I che promulga due Costituzioni, la "Dei Filius" e la "Pastor Aeternus" del 18 luglio 1870 e la definizione del magistero infallibile del Pontefice Romano se parla "ex cathedra"; chiusura del Concilio per il precipitare degli eventi politici. Il 20 settembre 1870 presa di Roma e chiusura volontaria del Papa in Vaticano.
L'8 dicembre 1870 Pio IX proclamò S. Giuseppe patrono della Chiesa universale. Il 16 giugno 1875 Consacrazione della Chiesa al Sacro Cuore di Gesù.
Il 7 febbraio 1878 morte di Pio IX dopo 32 anni di Pontificato.
Il 12 febbraio 1907 Pio X ordina l'introduzione della Causa di Beatificazione di Pio IX con i Processi Diocesani di Roma, Senigallia, Spoleto, Imola, Napoli.
Nel 1954-1955 solenne apertura del Processo Apostolico di Beatificazione presso la Congregazione dei Santi.
Il 6 luglio 1985 promulgazione del Decreto sulla eroicità delle virtù del Ven. Pio IX. Il 20 dicembre 1999 Decreto di riconoscimento del Miracolo attribuito a Pio IX.
Nel 1625 Giovanni Maria Mastai sposò la contessa Margherita Ferretti di Ancona, ereditandone i titoli, i beni e lo stemma che si aggiunse a quello Mastai. Fu una famiglia molto prolifica e religiosa; il trisavolo di Pio IX ebbe 19 figli, il bisnonno sei figli, il nonno Ercole sette. Giovanni Maria Mastai Ferretti (Pio IX) fu il nono figlio del Conte Girolamo e di Caterina Sollazzi e nacque a Senigallia il 13 maggio 1792, battezzato lo stesso giorno della nascita.
Compì gli studi classici nel Collegio dei Nobili a Volterra, diretto dagli Scolopi, dal 1803 al 1808, studi sospesi per improvvisi attacchi epilettici, proprio quando sognava di seguire la carriera ecclesiastica.
Dal 1814 fu ospite a Roma dello zio Mastai Ferretti Paolino, Canonico di S. Pietro e poté proseguire gli studi di Filosofia e di Teologia nel Collegio Romano.
Nel 1815 si recò in pellegrinaggio a Loreto ed ottenne la grazia della guarigione dalla malattia.
Per questo poté continuare i suoi studi e la preparazione intensa al presbiterato. Il 5 gennaio 1817 ricevette gli Ordini Minori, il 19 dicembre 1818 il Suddiaconato, il 7 marzo 1819 il Diaconato, il 10 aprile 1819 venne ordinato Sacerdote. L'11 aprile 1819 celebrò la prima Santa Messa nella chiesa di sant'Anna, annessa all'Ospizio Tata Giovanni, tra i ragazzi che furono il centro del suo apostolato giovanile fino al 1823.
Dal luglio 1823 al giugno 1825 fu tra i membri componenti la Missione apostolica in Cile guidata dal Delegato Mons. Giovanni Muzi.
Il 24 aprile 1827 fu nominato Arcivescovo di Spoleto a soli 35 anni; il 6 dicembre 1832 venne trasferito al Vescovado di Imola; il 14 dicembre 1840 ricevette la berretta Cardinalizia; il 16 giugno 1846, al quarto scrutinio, con voti 36 su 50 Cardinali presenti al Conclave, venne eletto Sommo Pontefice a soli 54 anni.
Un mese dopo concesse l'amnistia (16 luglio 1846) per i reati politici.
Dall'agosto 1846 al 14 marzo 1848 è l'epoca delle grandi riforme dello Stato Pontificio (Ministero liberale, libertà di stampa e agli ebrei, Guardia Civica, inizio delle ferrovie, Municipio di Roma, 14 marzo 1849 emissione dello Statuto).
Con l'Allocuzione del 29 aprile 1848 contro la guerra all'Austria declina la stella politica del Mastai e incomincia la sua lunga Via Crucis.
Il 15 novembre 1848 uccisione di Pellegrino Rossi; dal 24 novembre 1848 al 12 aprile 1850 esilio del Pontefice a Gaeta e quindi ritorno a Roma, ove riprese una illuminata restaurazione.
L'8 dicembre 1854 definizione del dogma della Immacolata Concezione. Dal 4 maggio al 5 settembre 1857 viaggio-visita politico-pastorale di Pio IX nei suoi Stati.
Nell'aprile del 1860 caddero le Legazioni, nel settembre la Marche e l'Umbria furono annesse al Regno d'Italia. Il 1° luglio 1861 viene pubblicato il primo numero dell'"Osservatore Romano". L'8 dicembre 1864 Enciclica "Quanta Cura" e il Sillabo; il 2 maggio 1868 approvazione della Gioventù Cattolica Italiana; l'8 dicembre 1869 apertura del Concilio Vaticano I che promulga due Costituzioni, la "Dei Filius" e la "Pastor Aeternus" del 18 luglio 1870 e la definizione del magistero infallibile del Pontefice Romano se parla "ex cathedra"; chiusura del Concilio per il precipitare degli eventi politici. Il 20 settembre 1870 presa di Roma e chiusura volontaria del Papa in Vaticano.
L'8 dicembre 1870 Pio IX proclamò S. Giuseppe patrono della Chiesa universale. Il 16 giugno 1875 Consacrazione della Chiesa al Sacro Cuore di Gesù.
Il 7 febbraio 1878 morte di Pio IX dopo 32 anni di Pontificato.
Il 12 febbraio 1907 Pio X ordina l'introduzione della Causa di Beatificazione di Pio IX con i Processi Diocesani di Roma, Senigallia, Spoleto, Imola, Napoli.
Nel 1954-1955 solenne apertura del Processo Apostolico di Beatificazione presso la Congregazione dei Santi.
Il 6 luglio 1985 promulgazione del Decreto sulla eroicità delle virtù del Ven. Pio IX. Il 20 dicembre 1999 Decreto di riconoscimento del Miracolo attribuito a Pio IX.
domenica 18 settembre 2011
Risorgimento Italiano
Il risorgimento italiano fu un periodo della storia italiana, stanziata nella penisola italiana, nelle isole di Sardegna, Sicilia e negli arcipelaghi minori consegui la propria unità nazione.
Il termine è una idea di una rinascita della nazione italiana. Per questa visione idealizzata del periodo, riveduta in un concetto ampio della situazione italiana ed internazionale e la stessa unificazione è vista come un processo di espansione del Regno di Sardegna come un processo collettivo, il termine ha assunto valenza storica per questo periodo della storia d'Italia.
La datazione convenzionale sui limiti cronologici del Risorgimento risente evidentemente dell'interpretazione storiografica riguarda a tale periodo e perciò per non esiste accordo fra gli storici sulla sua determinazione temporale, formale e ideale.
Esiste inoltre tra un "Risorgimento letterario" e uno politico per il quale si scrisse di Risorgimento italiano in senso esclusivamente culturale fin dalla fine del secolo XVIII.
La prima estensione si ebbe con Vittorio Alfieri (1749 - 1803), non e caso definito da Walter Maturi, il primo intellettuale uomo libero del Risorgimento.
Anche la Resistenza italiana (1943 - 1945) è stata talvolta ricollegata idealmente del Risorgimento.
Le Idee liberale e le speranze suscitate dal illuminismo e i valori della Rivoluzione francese furono portate in Italia da Napoleone sulla punta delle baionette del' Armèe d' Italie.
Le personalità di spicco in questo processo furono molte tra cui : Giuseppe Mazzini, figura eminente del movimento liberale repubblicano italiano e europeo; Giuseppe Garibaldi; Camillo Benso conte di Cavour; Vittorio Emanuele II di Savoia.Gli unitaristi repubblicani e federalisti radicali contrari alla monarchia come Nicolò Tommaseo e Carlo Cattaneo; cattolici come Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini che auspicavano una confederazione di stati italiani sotto la presidenza del Papao della stessa dinastia sabauda.Gli anni (1847 - 1848) vedono il sviluppo di vari movimenti rivoluzionari e di una prima guerra anti austriaca, scoppiata in occasione della rivolta delle Cinque Giornate di Milano (1848). Tale guerra condotta e persa da Carlo Alberto, si concluse con un sostanziale ritorno allo statu quo ante.La seconda fase, nel 1859 - 1860, fu quella decisiva per il processo di unificazione italiano. Questa ultima, formata da poco più mille volontari provenienti dalle regioni settentrionali d'Italia e appartenenti sia ai ceti medi che a quelli artigiani e operai, fu l'unica impresa risorgimentale a godere, almeno nella sua fase iniziale,di un deciso appoggio delle masse contadine siciliane, all'epoca in rivolta con il governo borbonico, e fiduciose nelle promesse di riscatto fatte loro da Garibaldi.
La dichiarazione del Regno d'Italia, si ebbe nel 17 marzo 1861. Il nuovo regno manterrà lo Statuto albertino, la costituzione concessa da Carlo Alberto nel 1848 e che rimarrà interrottamente in vigore fino 1946.Che non si trattasse di un fenomeno di semplice criminalità è dimostrato dal fatto che si ritenne necessario l'intervento del esercito regio e l'emanazione di leggi speciali (la legge Pica 1863) che applicavano la legge marziale nei territori del Mezzogiorno italiano.
L'unificazione vine poi quasi interamente completata con l'annessione del Veneto a seguito della disastrosa partecipazione dell'Italia alla Guerra austro - prussiana del 1866 (Terza guerra d'indipendenza).Seppure alla proclamazione del Regno d'Italia, fosse stata indicata Roma come capitale morale del nuovo stato, la città rimaneva la sede dello Stato Pontificio. Alcune terre papali (Marche ed Umbria errano state già annesse durante la discesa del esercito piemontese in soccorso di Garibaldi, che stava realizzando la conquista del Meridione, mallo stato della chiesa rimaneva sotto la protezione delle truppe francesi che continueranno a difenderlo dai due tentativi falliti di Garibaldi (giornata del Aspromonte e battaglia di Mentana), con la connivenza del governo italiano di Urbano Rattazzi. Solo dopo la sconfitta e cattura di Napoleone III a Sedan nella guerra franco - prussiana, le truppe italiane con Bersaglieri e Carabinieri in testa, il 20 settembre 1870, entrarono dalla breccia di Porta Pia nelle capitale.Dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 che ha fatto l'annessione di Roma al Regno d'Italia, nel giugno del 1871 la capitale d'Italia, già trasferita in ottemperanza alla Convenzione di settembre 1864 - da Torino a Firenze, divenne definitivamente RomLa prima guerra d'indipendenza, la guerra della concordia nazionale che sembrava realizzare il progetto neoguelfo era cosa molto diversa per gli stessi soldati contadini piemontesi che dovevano combatterla. Vincenzo Gioberti e Angelo Brofferio sentirono perciò la necessità di doverli motivare al valore risorgimentale della guerra ma "le mille imprecazioni dei nostri soldati li fecero desistere dalla loro impresa".Il fallimento nel 49 del programma moderata e di quello democratiche con la caduta delle repubbliche mazziniane di Roma e Firenze fece perdere gran parte del suo sentimento romantico e popolare al nostro Risorgimento. L'iniziativa passo nelle mani della monarchia sabauda e del conte di Cavour.La partecipazione effettiva delle masse subalterne al processo unitario continuò essere cosi modesta. I moderati che avevano visto sventolare le bandiere rosse sulle barricate nel 48 e i democratici che ricordavano l'esito infausto della spedizione di Piscane si accomunavano.
Nella seconda guerra d'indipendenza (1859) i soldati del esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani ... non erano ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tant'è vero che ai volontari provenienti dalle altre regione d'Italia rivolgevano la domanda "Vieni da l'Italia?".
Il popolo fu il grande assente del Risorgimento. Mentre le "elites" fanno la storia, dibattendo progetti su cui concordo solo per l'unità e l'indipendenza politica, ma per il resto dividendosi tra le regime monarchico o repubblicano, stato unitario o federativo, metodi diplomatici o rivoluzionari, milioni di contadini rimangono nella non storia. Anzi entreranno nella storia proprio battendosi contro l'unita ormai raggiunte è il fenomeno del cosiddetto brigantaggio meridionale.
Già all'indomani della unità la classe dirigente presenta ciò che era accaduto come il risultato di una spinta nazionale di popolo e questo si vuole che sia insegnata nelle scuole del Regno, cosi varie generazioni di italiani hanno imparato di Risorgimento.
sabato 17 settembre 2011
Giovanni Vialardi, cuoco di Vittorio Emanuele II
La sua arte fece emergere l’Unità d’Italia in ogni aspetto del convivio
Percorse le cinque sale juvarriane, si giunge alla manica di collegamento tra Archivio di Stato e Prefettura. Questa sezione, curata da Mina Novello del Centro Studi Biellesi, è dedicata all’opera del grande Giovanni Vialardi, cuoco e pasticcere di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II. A Vialardi va riconosciuto il merito di aver levato una voce a conferma e difesa dell’esclusivo patrimonio gastronomico italiano e di averlo fatto con grande anticipo sui tempi. Egli fu inoltre testimone, non solo dietro le quinte, di importanti rivoluzioni a tavola. Il modo di servire detto «alla francese» in cui tutto il cibo viene portato sulla mensa fin dall’inizio del pranzo e lasciato a disposizione dei convitati che se ne servono direttamente, viene sostituito verso la metà dell’800 dal servizio «alla russa» che prevede una successione preordinata di vivande via via servite da valletti. In questo modo il pasto viene svelato a poco a poco. E, per informare i commensali - abituati con il servizio alla francese a vedere tutto insieme il cibo a disposizione - ecco nascere il menu, la piccola lista che anticipa l’elenco delle portate. L’altra grande rivoluzione - e non solo gastronomica - fu l’adozione del sistema metrico decimale (1845, nel regno di Sardegna): il Vialardi, con innegabile lungimiranza, lo utilizzerà, primo tra tutti gli autori di ricettari, nella composizione del suo «Trattato di cucina» del 1854. L’unità d’Italia emerge in ogni aspetto del convivio: la cucina francese, che aveva caratterizzato i pranzi delle corti europee, viene rielaborata da Giovanni Vialardi, cuoco del primo re d’Italia, con riferimenti a ricette dei territori italiani. Il suo trattato continuerà a influenzare i menù del Quirinale per decenni. Nei trent’anni trascorsi nelle cucine di casa Savoia il Vialardi percorse tutte le tappe di una straordinaria carriera rivelandosi particolarmente abile come pasticciere, ruolo che gli venne in effetti assegnato e che gli permise di mettere in risalto la sua arte nella esecuzione delle «piecès montées», le scenografiche costruzioni in pastigliaggio utilizzate per adornare le tavole reali. L’impronta che diede alla cucina e soprattutto alla pasticceria della tavola dei Savoia, continuerà ad influenzare i pranzi di Stato anche quando la Corte lascerà Torino per trasferirsi prima a Firenze e poi a Roma: con Vialardi infatti prodotti, modi ci cucinare e attrezzi della tradizione piemontese ma anche sarda, ligure e nizzarda scendono nella Capitale per salire gli scaloni del Palazzo a deliziare nobili palati. Accanto ai manuali francesi, che formarono generazioni di cuochi, nella mostra torinese sono esposti i manuali di Giovanni Vialardi, nei quali sono annotate ricette e segreti della sua cucina. Ma ci sono anche i disegni dei piatti sontuosi che arricchivano la tavola: pesci e selvaggina, timballi, «bombe» e soufflé erano infatti presentati come vere e proprie scenografie che dovevano destare allora l’ammirazione dei commensali come oggi quella dei visitatori (che avranno l’opportunità di ammirare alcune di queste «pièces montées», realizzate per l’occasione da veri artisti della cucina e della pasticceria). Nei suoi manuali, Vialardi descrisse e disegnò gli strumenti del mestiere, dai più semplici alle grandi gelatiere. Il pubblico può quindi ammirare fruste, mestoli, scavini ma anche forme, budiniere, marroniere e tante altre attrezzature che nel XIX secolo costituivano l’indispensabile patrimonio di un cuoco pasticcere.
Percorse le cinque sale juvarriane, si giunge alla manica di collegamento tra Archivio di Stato e Prefettura. Questa sezione, curata da Mina Novello del Centro Studi Biellesi, è dedicata all’opera del grande Giovanni Vialardi, cuoco e pasticcere di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II. A Vialardi va riconosciuto il merito di aver levato una voce a conferma e difesa dell’esclusivo patrimonio gastronomico italiano e di averlo fatto con grande anticipo sui tempi. Egli fu inoltre testimone, non solo dietro le quinte, di importanti rivoluzioni a tavola. Il modo di servire detto «alla francese» in cui tutto il cibo viene portato sulla mensa fin dall’inizio del pranzo e lasciato a disposizione dei convitati che se ne servono direttamente, viene sostituito verso la metà dell’800 dal servizio «alla russa» che prevede una successione preordinata di vivande via via servite da valletti. In questo modo il pasto viene svelato a poco a poco. E, per informare i commensali - abituati con il servizio alla francese a vedere tutto insieme il cibo a disposizione - ecco nascere il menu, la piccola lista che anticipa l’elenco delle portate. L’altra grande rivoluzione - e non solo gastronomica - fu l’adozione del sistema metrico decimale (1845, nel regno di Sardegna): il Vialardi, con innegabile lungimiranza, lo utilizzerà, primo tra tutti gli autori di ricettari, nella composizione del suo «Trattato di cucina» del 1854. L’unità d’Italia emerge in ogni aspetto del convivio: la cucina francese, che aveva caratterizzato i pranzi delle corti europee, viene rielaborata da Giovanni Vialardi, cuoco del primo re d’Italia, con riferimenti a ricette dei territori italiani. Il suo trattato continuerà a influenzare i menù del Quirinale per decenni. Nei trent’anni trascorsi nelle cucine di casa Savoia il Vialardi percorse tutte le tappe di una straordinaria carriera rivelandosi particolarmente abile come pasticciere, ruolo che gli venne in effetti assegnato e che gli permise di mettere in risalto la sua arte nella esecuzione delle «piecès montées», le scenografiche costruzioni in pastigliaggio utilizzate per adornare le tavole reali. L’impronta che diede alla cucina e soprattutto alla pasticceria della tavola dei Savoia, continuerà ad influenzare i pranzi di Stato anche quando la Corte lascerà Torino per trasferirsi prima a Firenze e poi a Roma: con Vialardi infatti prodotti, modi ci cucinare e attrezzi della tradizione piemontese ma anche sarda, ligure e nizzarda scendono nella Capitale per salire gli scaloni del Palazzo a deliziare nobili palati. Accanto ai manuali francesi, che formarono generazioni di cuochi, nella mostra torinese sono esposti i manuali di Giovanni Vialardi, nei quali sono annotate ricette e segreti della sua cucina. Ma ci sono anche i disegni dei piatti sontuosi che arricchivano la tavola: pesci e selvaggina, timballi, «bombe» e soufflé erano infatti presentati come vere e proprie scenografie che dovevano destare allora l’ammirazione dei commensali come oggi quella dei visitatori (che avranno l’opportunità di ammirare alcune di queste «pièces montées», realizzate per l’occasione da veri artisti della cucina e della pasticceria). Nei suoi manuali, Vialardi descrisse e disegnò gli strumenti del mestiere, dai più semplici alle grandi gelatiere. Il pubblico può quindi ammirare fruste, mestoli, scavini ma anche forme, budiniere, marroniere e tante altre attrezzature che nel XIX secolo costituivano l’indispensabile patrimonio di un cuoco pasticcere.
venerdì 16 settembre 2011
Dedicato al 150° anniversario dell’unità d’Italia, nei caffè torinesi la merenda è Realè
Cioccolata calda, bicerin e dolci risorgimentali come il biscotto “Garibaldi”: è con questa merenda, tipica di casa Savoia che nei caffè torinesi si festeggia 150° anniversario dell’unità d’Italia.
A Torino si celebra il lato goloso dell’Unità d’Italia: alcuni locali, con camerieri vestiti con costumi ottocenteschi, ripropongono la merenda reale di casa Savoia: tradizione nata nel ‘700 per allietare le chiacchiere della corte sabauda con tazze di cioccolata calda accompagnate da torcetti, savoiardi e canestrelli, sotto il regno di Vittorio Emanuele II questo rito si aprì ai venti risorgimentali. Infatti, grazie soprattutto al bicerin, la bevanda a base di espresso, cioccolata e crema di latte, le signore cominciarono a frequentare le varie caffetterie, che ai tempi erano frequentate solo dagli uomini, trasformandole in vivaci salotti mondani.
Il bicerin, servito rigorosamente nel bicchiere di vetro, veniva accompagnato da dolci come lo chifel (simile al croissant viennese), il foré (una ciambella), la brioche di pasta frolla con o senza finocchio e il piccolo e friabile parisien. La merenda reale, sino ad allora riservata solo ai nobili, si trasformò quindi in un’abitudine della borghesia torinese che la arricchì con i noaset (i noccioloni di Chiavasso) e due omaggi all’eroe dei Due Mondi: il garibaldin (una fetta di pane semplice) e il biscotto Garibaldi, fatto con pasta frolla farcita di uvette e confettura d’albicocche.
Questa tradizione seguì i Savoia anche nelle nuove capitali d’Italia unita, Firenze e Roma, perché il cuoco di corte, Giovanni Vlaiardi, seguì lo spostamento della corte.
A Torino si celebra il lato goloso dell’Unità d’Italia: alcuni locali, con camerieri vestiti con costumi ottocenteschi, ripropongono la merenda reale di casa Savoia: tradizione nata nel ‘700 per allietare le chiacchiere della corte sabauda con tazze di cioccolata calda accompagnate da torcetti, savoiardi e canestrelli, sotto il regno di Vittorio Emanuele II questo rito si aprì ai venti risorgimentali. Infatti, grazie soprattutto al bicerin, la bevanda a base di espresso, cioccolata e crema di latte, le signore cominciarono a frequentare le varie caffetterie, che ai tempi erano frequentate solo dagli uomini, trasformandole in vivaci salotti mondani.
Il bicerin, servito rigorosamente nel bicchiere di vetro, veniva accompagnato da dolci come lo chifel (simile al croissant viennese), il foré (una ciambella), la brioche di pasta frolla con o senza finocchio e il piccolo e friabile parisien. La merenda reale, sino ad allora riservata solo ai nobili, si trasformò quindi in un’abitudine della borghesia torinese che la arricchì con i noaset (i noccioloni di Chiavasso) e due omaggi all’eroe dei Due Mondi: il garibaldin (una fetta di pane semplice) e il biscotto Garibaldi, fatto con pasta frolla farcita di uvette e confettura d’albicocche.
Questa tradizione seguì i Savoia anche nelle nuove capitali d’Italia unita, Firenze e Roma, perché il cuoco di corte, Giovanni Vlaiardi, seguì lo spostamento della corte.
Durante il periodo del Risorgimento sono state citate, dai grandi protagonisti, delle frasi molto famose che ricordiamo ancora. Queste frasi sono state pronunciate in varie momenti del Risorgimento: alcune in campo di battaglia, altre in situazioni difficili oppure nei vari colloqui tra i protagonisti. Raccontano lo stato d’animo dei personaggi che si sono battuti per la nostra libertà. Qui di seguito sono raccolte le citazioni che ho ritenuto più significative:
Giuseppe Garibaldi
• Un brigante onesto è un mio ideale.
• Libertà non fallisce ai violenti.
• Qui si fa l'Italia o si muore!
• O Roma o morte!
Giuseppe Mazzini
• Il mondo non è uno Spettacolo, è una arena di battaglia.
• Oggi ciò che importa anzitutto è moralizzare l'Italia
• Finché, domestica o straniera, voi avete tirannide, come potete aver patria? La patria è la casa dell'uomo, non dello schiavo.
• La Vita è Missione; e quindi il Dovere è la sua legge suprema.
Camillo Benso Conte di Cavour
• Sono figlio della libertà, e a lei devo tutto ciò che sono.
• Continuerò a sostenere le opinioni liberali con lo stesso calore, senza sperare, né quasi desiderare di farmi un nome. Le sosterrò per amore della verità e per simpatia per l'umanità.
• La nostra stella polare, o signori, è di fare che la città eterna sovra la quale venticinque secoli accumularono ogni genere di gloria diventi la splendida capitale del Regno italico.
• Non vi è principio, per quanto giusto e ragionevole, il quale, se lo si esageri, non possa condurci alle conseguenze le più funeste.
Vittorio Emanuele II
• L’Italia è restituita a se stessa e a Roma qui dove noi riconosciamo la Patria dei nostri pensieri ogni cosa ci parla di grandezza ma nel tempo stesso ogni cosa ci ricorda i nostri doveri.
Giuseppe Garibaldi
• Un brigante onesto è un mio ideale.
• Libertà non fallisce ai violenti.
• Qui si fa l'Italia o si muore!
• O Roma o morte!
Giuseppe Mazzini
• Il mondo non è uno Spettacolo, è una arena di battaglia.
• Oggi ciò che importa anzitutto è moralizzare l'Italia
• Finché, domestica o straniera, voi avete tirannide, come potete aver patria? La patria è la casa dell'uomo, non dello schiavo.
• La Vita è Missione; e quindi il Dovere è la sua legge suprema.
Camillo Benso Conte di Cavour
• Sono figlio della libertà, e a lei devo tutto ciò che sono.
• Continuerò a sostenere le opinioni liberali con lo stesso calore, senza sperare, né quasi desiderare di farmi un nome. Le sosterrò per amore della verità e per simpatia per l'umanità.
• La nostra stella polare, o signori, è di fare che la città eterna sovra la quale venticinque secoli accumularono ogni genere di gloria diventi la splendida capitale del Regno italico.
• Non vi è principio, per quanto giusto e ragionevole, il quale, se lo si esageri, non possa condurci alle conseguenze le più funeste.
Vittorio Emanuele II
• L’Italia è restituita a se stessa e a Roma qui dove noi riconosciamo la Patria dei nostri pensieri ogni cosa ci parla di grandezza ma nel tempo stesso ogni cosa ci ricorda i nostri doveri.
giovedì 15 settembre 2011
1861 I pittori del Risorgimento
Dopo la consapevolezza dell'Illuminismo e la spinta emotiva del Romanticismo, l'Italia guarda all'unità con la premessa ideologica e rivoluzionaria del biennio 1848-49 e il successivo decennio denso di eventi. Ma è solo tra il 1859 e il 1861 che si arriva alla vera unità, con la seconda guerra di indipendenza, le complesse operazioni diplomatiche del conte di Cavour e la spedizione dei Mille, ideata e guidata da Garibaldi. L'unità d'Italia è un sogno fin dall'epoca medioevale: da Dante in poi, attraverso Machiavelli e Guicciardini, accompagna il pensiero politico italiano, fino alla rivoluzione francese e all'arrivo di Napoleone in Italia, che infiamma le coscienze e il patriottismo di molti italiani da Nord a Sud, a cui, nei decenni successivi, si uniscono il desiderio di libertà politiche e civili e di indipendenza dallo straniero, valori riuniti nel concetto di Risorgimento.
La mostra ha come tema il confronto tra la pittura italiana e gli eventi che hanno portato all'unità nazionale, prendendo in esame quegli anni decisivi in vista delle celebrazioni per il 150° anniversario della proclamazione dell'unità d'Italia, avvenuta a Torino il 17 marzo 1861, anni vissuti e rievocati da pittori e patrioti (Giovanni Fattori, Gerolamo Induno, Eleuterio Pagliano, tra gli altri). Nelle grandi tele al primo piano un nuovo soggetto, la pittura a soggetto militare, dove i protagonisti sono soldati e volontari, consapevoli di combattere per un'Italia nuova e pronti a morire per essa. Al secondo piano opere più piccole nelle dimensioni imperniate su un diverso registro narrativo, più intimo, che riflette speranze, sentimenti e aspettative di quegli anni (il deludente armistizio di Villafranca, che lasciava il Veneto all'Austria, oppure il tradimento di Aspromonte).
Il percorso si apre con il ritratto in pietra di Vittorio Emanuele II in uniforme militare e col collare dell'Annunziata, realizzato da Lio Gangeri e posizionato all'inizio delle scale. Le sale sono decorate con il tricolore drappeggiato alle pareti, una lunga scia tricolore che obbliga lo sguardo in avanti. La prima sezione, “Oh mia patria sì bella e perduta! Il popolo e i suoi eroi”, si apre con “Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria” di Francesco Hayez (1826-31), ricordo di un episodio della guerra combattuta dai Greci contro i Turchi: il destino del popolo greco che doveva abbandonare la propria città invasa dall'esercito nemico ed imbarcarsi per l'esilio colpì il pittore e l'opinione pubblica italiana, una vicenda che può paragonarsi a quella del popolo ebraico e dei babilonesi cantata da Giuseppe Verdi nel Nabucco del 1842 (guardando la tela pale di sentire le note del Va' pensiero). Anche “Masaniello chiama il popolo alla rivolta” di Alessandro Puttinati e “Spartaco” di Vincenzo Vela (entrambe del 1846) prefigurano le lotte risorgimentali, in quanto i protagonisti (il pescatore napoletano del Seicento e lo schiavo ribelle dell'antichità) si pongono a capo di due rivolte popolari armate, prese a modello per il loro valore simbolico.
La seconda sezione, “L'epopea delle battaglie”, prende in esame prima il periodo dalla Crimea alla seconda guerra di indipendenza, quindi da questa alla breccia di Porta Pia, una imperdibile teoria di quadri realizzati seguendo le truppe nei teatri di guerra. Gerolamo Induno è il creatore della pittura militare, genere nuovo che rappresenta la storia moderna. Induno combatte in Crimea (i piemontesi sono al fianco dell'esercito ottomano insieme a Francia e Inghilterra contro la Russia zarista) e qui incontra altri pittori impegnati a documentare il conflitto. Tornato in Italia, dipinge il monumentale “Battaglia della Cernaja” (1857), inserendo in primo piano i soldati semplici ed i feriti (un moribondo), rendendoli per la prima volta i veri protagonisti della Storia. Induno similmente fa ne “La presa di Palestro” (1860) e “La battaglia di Magenta” (1861) e, come lui, Giovanni Fattori ne “L'assalto a Madonna della Scoperta”. Nel corale “Il passaggio del Ticino a Sesto Calende dei Cacciatori delle Alpi” Garibaldi assiste al varcare il fiume che allora rappresentava il confine tra Piemonte e Lombardia: vi si riconoscono, fra gli altri, Ippolito Nievo, Gerolamo Induno, Nino Bixio, Ernesto e Benedetto Cairoli. Federico Faruffini, nella sua opera “militare” (“Battaglia di Varese”) mostra il momento della morte di Ernesto Cairoli durante uno scontro tra Cacciatori delle Alpi e austriaci (il pittore dipinge l'opera su richiesta, espressa nel testamento, del suo amico Cairoli). In fondo, in posizione privilegiata per la vista, il celebre “I bersaglieri alla presa di Porta Pia” (1871) di Michele Cammarano, affiancato dallo statico “I bersaglieri” di molti anni successivo (1915).
Al secondo piano la sezione “1849-1849. Oh giornate del nostro riscatto!”, con la presenza dell'opera più famosa, una vera icona: “Meditazione” di Francesco Hayez del 1851 (purtroppo rirpodotta rovesciata in catalogo). Qui l'Italia assume le sembianze di una giovane donna col seno scoperto (una madre che allatta i suoi figli, assolutamente innovativa rispetto alla matrona turrita tradizionale) che tiene tra le mani un volume della “Storia d'Italia” e una croce con su scritte in rosso le date delle Cinque giornate di Milano (18-22 marzo 1848), che sembrano far rivivere le “giornate del nostro riscatto” cantate da Manzoni nel poema “Marzo 1821”. Non in mostra il simile “Melanconia” di Francesco Canella di collezione privata ma riprodotto in catalogo in bianco e nero nel saggio di Carlo Sisi (pagina 51). Napoleone Nani, in “Daniele Manin e Niccolò Tommaseo liberati dal carcere e portati in trionfo in piazza San Marco”, ricorda che la Repubblica di San Marco dura più a lungo di tutte le altre esperienze rivoluzionarie del 1848-49, grazie alla partecipazione popolare. A fianco due piccoli ricordi del 31 marzo 1849 di Faustino Joli e una commovente scena delle cinque giornate di Anonimo. A testimoniare che partecipano ai moti rivoluzionari del 1848 le diverse classi sociali (aristocratici, borghesi e popolo), ecco due ritratti di Giuseppe Molteni e Gerolamo Induno, “Ritratto della marchesina Anna Pallavicino Trivulzio con la divisa delle Cinque giornate” (il padre, amico e sostenitore di Garibaldi, è tra i protagonisti delle giornate milanesi) e “Trasteverina uccisa da una bomba”.
“Garibaldi, le camicie rosse e l'impresa dei Mille”. La partecipazione popolare agli ideali e alle lotte del Risorgimento è stata interpretata dai pittori in opere di piccolo formato che consentono di rappresentare con immediatezza i risvolti umani e familiari legati alle vicende storiche, dipinti di interni (come “26 aprile 1859” di Odoardo Borrani sul giorno dell'annessione della Toscana al Regno d'Italia, e “La lettera dal campo”, “Il racconto del ferito”, “Aspettando la notizia del giorno” e “Il ritorno del marinaio” di Gerolamo Induno) o di esterni (“L'imbarco a Genova del generale Garibaldi” di Induno e il celebre ritratto di Garibaldi del macchiaiolo e patriota Silvestro Lega: Garibaldi “scandalosamente” si presentò alla Camera dei deputati in camicia rossa e poncho). Quindi Fattori e i “Soldati francesi del '59”, di cui è in mostra anche “Garibaldi a Palermo”, tra le rare tracce delle battaglie combattute il Sicilia. Commovente “Sepoltura garibaldina (un episodio del bombardamento di Palermo del 1860)” di Filippo Liardo: due donne piangono davanti alla bara di un garibaldino, a ricordo del sacrificio dei tanti che morirono in nome del sogno unitario (il tricolore si profila sullo sfondo). Parimenti commovente “Camicie rosse” di Umberto Coromaldi del 1898, con gli anziani garibaldini che si riconoscono ancora nel sogno unitario, sogno parzialmente infranto dal ferimento di Garibaldi in Aspromonte ad opera dei soldati italiani su ordine del primo ministro Urbano Rattazzi (per fermarlo e non farlo proseguire verso Roma), episodio ricordato ne “La discesa di Aspromonte” di Gerolamo Induno e in “Aspettando la notizia del giorno”: qui le donne in abiti ciociari aspettano la liberazione di Roma, città visibile oltre la finestra.
“La delusione di Villafranca” è espressa nella veduta del duomo di Milano “illuminato al bengala” (che altresì documenta le dimensioni della piazza, senza Galleria), nella pace di Villafranca di Domenico Induno e nel celebre “Venezia che spera” di Andrea Appiani, che mi ha fatto pensare alla poesia di Arnaldo Fusinato “A Venezia”. Chiude il percorso “Il sacrificio e la gloria”, che si apre con la “Partenza dei coscritti del 1866) in cui Gerolamo Induno ricorda l'addio alle famiglie dei soldati chiamati alle armi e benedetti da un parroco di campagna alla presenza dei paesani (un particolare del quale è l'icona della mostra). Ne “I fratelli sono al campo” Mosè Bianchi descrive le silenziose preghiere di tre donne veneziane in attesa del ritorno dei loro congiunti, mentre Giuseppe Sciuti ne “Le gioie della buona mamma” ritrae una madre che allatta ed è orgogliosa che il figlio più grande indici sulla carta geografica Roma, capotale del Regno. A testimoniare i tanti, anonimi sacrifici “Lo staffato” e “Lo scoppio del cassone” di Giovanni Fattori. La mostra si chiude con “La veglia. Bollettino del 9 gennaio 1878”: in uno scuro interno borghese, dominato da una luce caravaggesca, tre donne di tre diverse età apprendono la notizia della morte di Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia, la fine di un'epoca.
mercoledì 14 settembre 2011
Felice Garibaldi
Un ritratto inedito, pubblico e privato, di Felice Garibaldi, fratello minore del mitico "Eroe dei Due Mondi", che nella sua veste di imprenditore nel campo oleario segnò diversamente le dinamiche familiari dei Garibaldi a Nizza. La grande epopea di Giuseppe fa da sfondo, a tratti si intreccia con le vicende mercantili di traffici di olio tra la borbonica provincia di Bari e la sempre più francese Nizza. La storia di viaggi alla ricerca di avventure politiche e rivoluzioni da compiere, ispirata ad un ideale romantico di libertà del Generale che cercò di realizzare infine nella piccola e selvaggia Caprera, la si legge in "controluce" attraverso la storia, meno solenne, ma ugualmente interessante, di Felice, dipendente dell'azienda nizzarda Avigdor a Bari e Bitonto, centri del sud dell'Italia che scoprivano un rilancio dei commerci grazie anche alla produzione locale di olio da tavola, tanto da imprimere dinamiche di ammodernamento del tessuto sociale, economico e urbanistico territoriale. La trattazione storica diviene, pertanto, un vivace affresco dell'ambiente di Nizza e della Terra di Bari dell'Ottocento, dagli anni Trenta alla gloriosa spedizione dei Mille.