/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": LE DONNE DI MAZZINI / - GIUDITTA, AL CUORE DELLA "GIOVINE ITALIA"

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giovedì 14 giugno 2012

LE DONNE DI MAZZINI / - GIUDITTA, AL CUORE DELLA "GIOVINE ITALIA"


Quando, alla fine del 1831, Giuseppe Mazzini entra nella casa di Marsiglia di Giuditta Bellerio, alla bella vedova diventata eroina dei moti di Ciro Menotti quell’allampanato 26enne deve apparire molto simile, se ben presto se ne innamorerà per divenire la prima delle sue tante adepte, ma l’unica che l’“Apostolo” amerà davvero, a quell’amico “Pippo” che il genovese Giovanni Ruffini, in un suo romanzo pubblicato in Inghilterra 20 anni dopo, descriverà con il nome romanzesco di Fantasio: “Era il giovane più affascinante che io abbia mai conosciuto; gli occhi neri morati a certi momenti mandavano lampi. La carnagione olivastra e l’insieme delle sue linee, che ti colpiva, era per così dire, incorniciata da una nera e ondeggiante capigliatura, che egli portava alquanto lunga. L’espressione della faccia, grave e quasi severa, era addolcita da un sorriso soavissimo, misto a un certo non so che esprimente una ricca vena comica. Era bello e fecondo parlatore; e quando s’incaloriva a discutere, era ne’ suoi occhi, nel gesto, nella voce, in tutto lui, un fascino irresistibile”. Dunque proprio quel giovane in quel 1831 conosce Giuditta, cambiando la vita sua e degli altri patrioti fuggiti con lei, pochi mesi prima, per il fallimento dell’insurrezione guidata da Ciro Menotti a Modena e dilagata tra Emilia Romagna e Marche. E, delle ragioni di quel fallimento, a Giuditta ed al circolo carbonaro che si ritrova in casa sua, Mazzini offre una lucida analisi - le sette carbonare si sono mosse su orizzonti politici ristretti e non hanno cercato l’appoggio delle masse popolari - ma anche una nuova ed ambiziosa prospettiva. Mazzini ha appena fondato, in estate, la società segreta della Giovine Italia, prototipo del partito rivoluzionario moderno. Il suo slogan è "libertà, uguaglianza, umanità" ed "unità e indipendenza”. L’obiettivo è sintetizzato in una formula inequivoca, che parla ad ogni ceto sociale: creare l’Italia, “una, indipendente, libera e repubblicana”. L’unico credo è mosso da una fede laica che mette sull’altare “Dio e popolo” e “pensiero e azione”. Un movimento insurrezionale ambizioso per un giovane che, fino ad allora, aveva giusto organizzato una associazione di contrabbando per leggere libri e riviste vietate. “Tecnicamente” nato francese, nella Genova che ha scacciato gli austriaci, Mazzini passa i primi anni di vita su una sedia a rotelle, è un bambino iper-sensibile, studia fino a 14 anni in casa con precettori giansenisti scelti dalla devota madre Maria Drago, a 15 anni si entusiasma per le imprese degli 84 alunni dell'Università di Pavia che, nel 1821, fondano il Battaglione della Minerva e accorrono in Piemonte per sostenere i moti liberali, con l'emblema tricolore disegnato dalla milanese Bianca Milesi (tra di essi anche il 21enne Maurizio Quadrio che finirà in esilio a Genova e diverrà uno dei più fedeli mazziniani). A 17 anni si iscrive a legge perché non può frequentare medicina come vorrebbe il padre Giacomo, docente universitario di anatomia (alla prima lezione in obitorio sviene) e legge di nascosto in chiesa, rilegato come un messale, l’Esquisse dell’illuminista Condorcet. Il libro che inneggia all’uguaglianza di ogni uomo e donna di fronte al progresso, diventa la sua bibbia. Non partecipa alle goliardie dei compagni d’università e, cupo ed assorto, prende a vestirsi di nero, come per “portare il lutto della patria” scriverà poi. Impara a memoria l’Ortis di Foscolo, diventandone un fanatico (tanto che “la mia povera mamma temeva un suicidio”, ricorderà). Quindi conosce degli “scelti giovani d’intelletto indipendente, anelante a nuove cose” (tra tutti Federico Campanella, che sarà testimone dell’agonia di Mameli a Roma e uno dei pochi “veri” mazziniani tra i Mille di Garibaldi e i fratelli Giovanni, Agostino, Ottavio e Jacopo: i fondatori con Mazzini della Giovine Italia). Un gruppo di giovani romantici con cui Mazzini può dare “sfogo alle ardenti passioni” che gli “fermentavano dentro”. Nella letteratura cerca testimonianze di vita civile e di riscatto dalla decadenza morale: Tacito, Dante, Machiavelli, Foscolo, Byron, Goethe, Alfieri, Manzoni. Cura una rubrica letteraria, ma con intenti politici, sull’Indicatore Genovese (che infatti di lì a poco verrà chiuso). Ma tutto questo non gli basta. Ha 22 anni quando, nel 1828, nel buio serale del parco dell'Acquasola, pronuncia la frase del giuramento carbonaro ed entra in un mondo elitario e mistico, inneggiante a San Teobaldo,  diventando in soli due anni maestro. Ma, nell’autunno 1830, mentre sguaina la spada per affratellare un neofita - che in realtà è una spia -, viene arrestato. Incarcerato nella fortezza di Priamar, a Savona, dalla sua cella può vedere solo cielo e mare. E proprio in quei giorni arriva a Genova la 22enne Cristina Trivulzio di Belgioioso, anche lei in fuga, come Giuditta, ma non per aver combattuto ma per avere, lei una delle più ricche ereditiere lombarde, finanziato la fallimentare impresa di Ciro Menotti. La bella Cristina che si appresta a diventare la principessa rivoluzionaria e la salottiera mazziniana più famosa di Parigi è ospite di Nina Giustiniani, l’amante di Cavour e della marchesa Adelaide Zoagli, la madre di Goffredo Mameli, che allora ha solo 3 anni. Lo ritroverà 22enne, nel 1849, già autore di “Fratelli d’Italia”, combattente della Repubblica romana martoriata dall’artiglieria francese, in uno degli ospedali che Cristina dirige, insieme ad altre donne, crocerossine ante-litteram, per ordine di Mazzini. Lo assisterà costantemente, insieme ad Adele Baroffio, amante veneziana del giovane, per una lieve ferita ad una gamba; urlerà contro chi lo aveva medicato quando si accorse, pochi giorni dopo, che la ferita si era infettata perché non ripulita a dovere. Lo consolerà per una settimana leggendogli Dickens mentre la cancrena lo andrà divorando, fino alla necessaria amputazione della gamba; e quindi sarà ancora al suo fianco, per altri 14 giorni di agonia, fino alla morte.  Intanto per Mazzini, rilasciato ad un mese dall’arresto, si apre la via dell’esilio, che percorrerà per tutta la vita, tranne rari momenti di permanenza in Italia e sempre con falsi passaporti da gentiluomo inglese. Dunque Mazzini diventa uno dei tanti giovani di fede liberale che vanno ingrossando le colonie di esuli italiani tra Francia ed Inghilterra. Ma a Giuditta, in quel 1831, bastano poche parole per sentire come, dentro il gracile genovese, viva una anima “infaticabilmente attiva” e “un indomabile spirito di rivolta contro ogni tirannia ed oppressione”, per citare sempre le parole dell’amico Ruffini: è il fuoco di un misticismo democratico per il quale due generazioni di giovani si preparano a lottare per creare l’Italia unita. Lo stesso fuoco che farà scrivere a Metternich nelle sue memorie: “Ebbi a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d’accordo tra loro imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe Mazzini”. E i primi a bruciare per quel fuoco sono Giuditta e i suoi amici carbonari. La 27enne figlia di un magistrato milanese, vedova di un carbonaro emiliano, già madre di 4 figli, diventa la segretaria della rivista “Giovine Italia” con cui il movimento mazziniano prende a fare rapidamente proseliti, soprattutto in ambito militare. Il sottotitolo è già un programma: "Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendenti alla sua rigenerazione". A Giuditta, Mazzini affida gli statuti, i soldi dei primi finanziatori e le tante lettere che prende a scrivere con il nome di battaglia di Filippo Strozzi (l’inizio della fitta corrispondenza che porterà Mazzini a riempire una sessantina di tomi di missive e che sarebbero stati anche di più se una delle sorelle, non avesse deciso di distruggere le compromettenti lettere che Pippo scrisse a lungo alla madre, che tanto sostegno morale gli diede nel suo esilio, fino alla sua morte, nel 1852). Giuditta lo aiuta a stampare i manifesti politici che poi mescolano ai carichi dei marinai genovesi. Tra questi anche un giovane Giuseppe Garibaldi. Di lei Mazzini si fida ciecamente. E scopre di amarla, riamato. Il 4 luglio 1832, a Genova, viene scoperto il baule a doppio fondo usato per contrabbandare le riviste. Il governo sardo protesta e Mazzini riceve un decreto di sfratto dalla Francia. Tutti lo credono già in Svizzera ma lui si nasconde, a Marsiglia, in casa dell’amico Demostene Ollivier. Vi rimane chiuso per un anno. Esce solo rare volte, di notte, vestito da donna e da guardia nazionale. In questa segregazione, ad agosto, nasce in un alberghetto vicino Berna, Joseph Demosténé Adolph Aristide, figlio suo e di Giuditta. Per vederlo Mazzini si appropria del passaporto di uno dei Ruffini e scompare senza dire nulla a nessuno (la cosa viene presa a male, come una sorta di tradimento della loro fiducia, sia dai fratelli che dalla loro madre Eleonora Curlo, che Mazzini pure venerava come la sua, chiamandola “madre santa”, anche perché, al suo ritorno, Mazzini bruscamente rifiuterà di spiegare per quale “missione” quel passaporto gli era servito, aumentando i sospetti negli amici che infatti, nell’esilio di Londra finiranno per abbandonarlo). E intanto la Giovine Italia cresce: in Romagna con la Farina, in Toscana con Guerrazzi, in Campania con Poerio. E prende forma il primo piano insurrezionale dell’organizzazione, ormai diffusa massicciamente tra i militari piemontesi. Le micce si sarebbero dovute accendere a Torino, Alessandria e Genova, nel giugno 1833. Ma, in una rissa tra due soldati, il piano viene urlato ai quattro venti e la polizia sabauda già ad aprile arresta molti dei congiurati. Il 13 maggio viene arrestato Jacopo Ruffini. Rinchiuso nella torre grimaldina, a Genova, viene torturato ma non parla. Finirà dissanguato con la gola tagliata, si parlerà di suicidio. Nella cella una scritta fatta con il suo sangue, forse posticcia visto il tono terroristico: “Lascio la mia vendetta ai fratelli”. Finisce invece apertamente fucilato il 22 giugno, ad Alessandria, il 37enne avvocato Andrea Vochieri. Nella lettera che lascia alla moglie scrive: “Io muoio tranquillo perché vero e costante figlio della Giovine Italia”. Ma si contano anche altre 11 fucilazioni e 15 condanne a morte in contumacia, tra cui Mazzini. Per non essere arrestato, a luglio, Mazzini parte per Ginevra.  Lo seguono in Svizzera i reduci del ‘31 che, a Marsiglia, si riuniscono in casa di Giuditta e che sono diventati i primi mazziniani. Il 31enne Celeste Menotti, che a Modena aveva combattuto con il fratello Ciro, salvandosi poi con l’esilio (e che finirà poi a fare il commerciante a Genova). E sua sorella, la 33enne Virginia Pio Menotti, esule con la cognata, i nipoti ed i figli, che sprona gli esuli alla vendetta (“Non basta piangere, bisogna vendicarli”) e che nel 1846 ritroveremo, in Toscana, attiva sostenitrice della causa mazziniana (a lei Mazzini chiede oggetti per fare un mercatino a Londra per finanziare gli esuli italiani) e quindi, nell’aprile 1848, dopo le Cinque Giornate, di nuovo a Modena, per mettere sulla tomba del fratello una bandiera sulla quale ha scritto: “Quel giorno in cui morivi, assassinato da un tiranno, io giuravo di non più rivedere la Patria, che quando libera fosse dai manigoldi. Dopo 17 anni di lacrimevole esilio piacque a Dio onnipotente esaudire il mio voto, e qui sulla tomba ove tu dormi, dai buoni compianto, godo finalmente inalberato lo stendardo, che ti costò la vita”. Ma, tornato il duca di Modena, fuggirà a Firenze dove morirà nel 1858. Amico di Giuditta è anche il 29enne attore Gustavo Modena, che a Bologna è sceso dal palcoscenico per unirsi agli insorti - e che si prepara a far girare la testa ad una collegiale 16enne ginevrina, Giulia Calame, che si ribellerà alla famiglia per divenire sua moglie e compagna di tante battaglie mazziniane - ed i reggini carbonari Luigi Amedeo Melegari, 29 anni, e Giuseppe Lamberti, 32. Il primo sarà tra i firmatari nel 1835, a Berna, della "Giovine Europa” ma, dissociatosi, finirà senatore e diplomatico del regno d’Italia. Il secondo sarà mazziniano fino alla fine dei suoi giorni. E’ sua la minuta grafia che per 8 anni protocollò tutto ciò che la Giovine Italia cospirò tra il 1840 ed il 1848 ed è lui che è l’alter ego di Mazzini a Parigi e che tira le fila tra i repubblicani esuli in Europa e oltreoceano.Con loro Giuditta ha vissuto nel 1831 l’insurrezione di Reggio Emilia, gettandosi a capofitto in una impresa patriottica nella quale ha tentato di dimenticare il dolore per la perdita, tre anni prima, di suo marito (Giovanni Sidoli, morto in un sanatorio in Provenza, possidente terriero carbonaro emiliano, esule dal 1821 in Svizzera) e la sottrazione alle sue cure dei loro quattro figlioletti - Maria, Elvira, Corinna, Achille, tre nati in esilio - da parte del suocero, che ha scacciato la nuora “ribelle”. Addolorata ma non prostrata, Giuditta risponde quindi alla chiamata del 33enne carbonaro Ciro Menotti, figlio di un ricco fabbricante di cappelli, che assicura come il duca di Modena Francesco IV sia diventato loro “fratello”, desideroso di liberarsi dal giogo austriaco. Giuditta di Francesco IV non si fida: dieci anni prima ha condannato a morte il marito e lo ha costretto all’esilio. Ha ragione: il duca - visto che non riesce a fare le scarpe a Carlo Alberto nella successione al trono del Regno di Sardegna -, ci ripensa e chiede aiuto all’Austria. Ma nel febbraio 1831 Giuditta accorre comunque. E’ lei che consegna la bandiera tricolore - ricamata da Liberata Ruscelloni, Bettina Ferrari, Vittoria Spagni - che gli insorti fanno sventolare sul palazzo del municipio, oggi conservata al Museo del Tricolore di Reggio Emilia. Intanto, anche a Modena, sventola un tricolore cucito da mani femminili: quelle della contessa Rosa Testi Rangoni, che per questo verrà condannata a tre anni di reclusione. E a Forlì, lo innalza Teresa Cattani, una popolana analfabeta di 24 anni, moglie del 31enne agricoltore e ardente patriota Vincenzo Scardi. Insieme al marito, il 5 febbraio, partecipa all’assalto del Palazzo del Governo. La Cronaca di Forlì ne riporta le gesta parlando delle donne che combattono in città: “Una delle più esaltate, che aveva già il proprio marito ingolfato nella mischia, e si vidde accorrere sulla Piazza, avente nella sinistra il vessillo tricolore, additando con la destra, e colla voce il sentiero a coloro, che la seguivano, indi cantava inni patriottici, che intuonavano la piazza stessa non solo, ma benanche tutte le radiali della medesima”. La cronaca riferisce che sia stata lei che issò il tricolore, forato da tre pallottole nemiche, sul balcone del legato pontificio. Quindi che, sempre con il vessillo in mano, su quale si legge “O libertà o morte”, si sia messa al comando di 54 forlivesi inquadrate come “soldati” nella colonna di 600 volontari accorsi da ogni parte della Romagna che, il 12 febbraio, marciò alla volta di Cesena. E’ che sia sempre lei che, il 22 marzo, con quello stesso vessillo, abbia guidato le sua “falange” di donne a Rimini. Tre giorni dopo la sua bandiera verrà strappata dagli austriaci che riconquistano la città. Il 9 marzo il duca di Modena era già rientrato a Modena. Il 17 marzo sceglie di fare una fine da carbonaro, cadendo sotto le pallottole austriache, a Forlì (nella villa carbonara chiamata Vendita dell'Amaranto, ex convento dei gesuiti di proprietà della famiglia del mazziniano Aurelio Saffi, sotto il cui maestoso cedro del Libano si ristorerà anche lo stesso Mazzini, nei suoi clandestini soggiorni italici), il 27enne Napoleone Luigi Bonaparte, il maggiore dei nipoti dell'imperatore francese (che se non  avesse scelto questa morte eroica avrebbe potuto diventare imperatore, visto che un anno dopo moriva il figlio di Napoleone, il duca di Reichstadt, 21enne per tisi e avrebbe magari risparmiato tanto spargimento di sangue affrettando l’unificazione italiana, a differenza di quanto farà lo scaltro fratello minore, il futuro Napoleone III). Quindi, il 26 maggio, a Modena, Ciro Menotti salirà sul patibolo. La mattina, all’alba, scrive una straziante lettera alla moglie Cecchina, che verrà consegnata alla vedova solo nel 1848, due anni dopo la morte del duca: “Non resterai che orbata di un corpo, che pure doveva soggiacere al suo fine, l’anima mia sarà teco unita per tutta l’eternità. Pensa ai figli e in essi continua a vedere il loro genitore: e quando saranno adulti dà loro a conoscere quanto io amavo la patria”. Così Ciro Menotti diventa l’ultimo martire della carboneria. In suo onore Garibaldi chiamerà il figlio Menotti (ma più originale sarà lo scrittore modenese e combattente garibaldino Taddeo Grandi che chiamerà una figlia Anita Garibaldi e due figli Giuseppe Mazzini e Ciro Menotti, quest’ultimo a sua volta genitore di un Giuseppe Garibaldi che morirà da capitano degli alpini in Russia, nella seconda guerra mondiale). Teresa Scardi e il marito finiranno esuli in Francia. Tornata poi a vivere nel forlivese, controllata dalla polizia, morirà nel 1850, a 43 anni, senza poter vedere il suo sogno di libertà avverarsi. La ricorda una canzone popolare: “La Scardi fu la prima/ che si mostrò guerriera/ portando la bandiera/ dei sacri tre color”.  Quindi, nel 1833, braccati tra Ginevra e Losanna, saranno proprio Gustavo Modena, Giovanni Ruffini (che nel 1848 finirà antimazziniano e deputato al Parlamento piemontese), Celeste Menotti e un suo compagno di lotta, l’ebreo modenese Angelo Usiglio (che seguirà Mazzini a Londra, fornendogli un passaporto falso grazie al rabbino di Livorno) a scuotere Mazzini dallo scoramento, dopo le morti e condanne seguite al fallimento della prima azione della Giovine Italia e a spingerlo ad organizzare una nuova impresa: una legione di 880 tra esuli polacchi, tedeschi ed italiani avrebbe fatto irruzione in Savoia dalla Svizzera. A comandarla il generale Gerolamo Ramorino, veterano delle guerre napoleoniche e dell’insurrezione polacca. Il tutto mentre a Genova il nuovo adepto, Giuseppe Garibaldi, nome di guerra Borel, che si era arruolato nella marina da guerra sarda per fare propaganda tra gli equipaggi, organizza una sollevazione. A Mazzini Ramorino non piace, a ragione. In poche settimane perde al gioco, a Parigi, i 40 mila franchi che Mazzini gli aveva consegnato. Cerca di rinviare la spedizione e infine, quando su insistenza di Mazzini entra in azione, la notte tra l’1 e il 2 febbraio 1834, si presenta al confine con un pugno di uomini e con la polizia già allertata dalle spie e ben presto i rivoltosi finiscono dispersi. Mazzini, dopo una settimana estenuante di preparativi, in cui aveva dormito “a quarti d’ora” addossato alla spalliera di una sedia, era divorato da una “febbre ardente” e in quella  notte freddissima camminava, “trasognato, battendo i denti”. Si è scordato di coprirsi meglio e Simone Pistrucci deve poggiargli un mantello sulle spalle, più volte chi gli è accanto lo deve sorreggere perché gli cedono le gambe. Finché, afferrata la carabina per entrare in azione, sviene. Si sveglierà in una caserma in Svizzera, circondato da soldati stranieri, con accanto Usiglio. I primi occhi che vede sono quelli pieni di apprensione di Lamberti. Melegari già riparato a Marsiglia insieme a Federico Campanella. Intanto Garibaldi, a Genova, si ritrova ad essere il solo rivoltoso in piazza, lo cercano per arrestarlo, diserta e fugge in America del Sud con una condanna a morte sulle spalle e diventa l’eroe dei due Mondi. Giuditta è ormai lontana. I rapporti si sono incrinati. La nostalgia dei figli lontani la annichilisce, il peso della missione cui si arrovella l’amato la schiaccia. In una lettera lei rinfaccerà a lui: “Ma è poi lecito per te, che ti poni in una sfera così elevata al di sopra della mia, di trattarmi così rigorosamente?”. E ancora: “Eccolo là, sempre quello, facitore di poesia”, “ma sfuggendo sempre alla realtà della terra”. A Ginevra, vicino a Mazzini, rimane per breve tempo. Nell’estate 1833 è in Francia, affida il figlioletto ad Ollivier e segretamente, in autunno, si imbarca per Livorno. D’intesa con Mazzini ha in conto di incontrare alcune delle “cellule” insurrezionaliste nella penisola - e infatti i due amanti restano in contatto epistolare - ma, in realtà, è decisa a riabbracciare i figli, a Reggio Emilia, dove sa che infuria il colera. Così, per lei, inizia quasi un ventennio di peregrinazioni. Subito è costretta a fermarsi a Firenze, braccata da un mandato di cattura. La polizia la sospetta. Ma sul suo passaporto falso c’è scritto Paolina Gèrard. Mazzini le scrive: “Le tue lettere appassionate, scritte in mezzo alla sventura, rappresentano per me un bene indicibile”, “ho bisogno di ricorrere al tuo ritratto, al tuo ritratto che diventa per me ogni giorno più caro e che mi pare si faccia ogni giorno più bello”. Nel febbraio 1834, il fallimento Savoia…. “Sognavo di morire e pensavo a te”, “ho coperto di baci il tuo medaglione. Tu sai ch’io ho sempre dei capelli sul cuore ma quello io l’avevo poco prima staccato e in che momenti, sapessi! Avevo perduto il tuo piccolo medaglione; qualcuno me l’aveva portato via, nei momenti della disfatta insieme con l’abito e un po’ di veleno che tenevo con me. Non ho potuto ritrovarlo che ieri. Tu non puoi comprendere quale presagio io atteneva a questo tuo ricordo. Se potessi averti qui! Se potessi abbracciarti, dormire, una sola volta, colla testa appoggiata sulle tue ginocchia!”. Ma intanto a Losanna, in casa Mandrot, fa strage di cuori tra le cinque figlie dell’ospite: la giovane Maria addirittura gli si dichiara, con Mazzini che resta ammutolito (illuderà la ragazza, che chiama nelle sue lettere La Maddalena, fino al suo esilio a Londra finché l’amico Melegari, che la ama a sua volta, rompe gli indugi - e inizia a rompere con lo stesso Mazzini - e la sposa). A Firenze Giuditta viene controllata dalla polizia ma frequenta i circoli liberali, diventa molto amica di Gino Capponi. A settembre viene espulsa: condotta a Livorno è imbarcata per Napoli. Mazzini segue i suoi spostamenti, lui rifugiato intanto a Berna, dove il 15 aprile 1835 sottoscrive l’Atto di fratellanza che dà vita alla associazione “Giovine Europa”, la santa alleanza dei popoli contrapposta a quella delle monarchie. La polizia intercetta le lettere appassionate che Pippo fa arrivare a quella che crede ancora la sua Giuditta. “E’ impossibile che io faccia un romanzo su di te. V'è troppa storia per me nell'amore che ti ho portato e in tutto quanto ho sentito per te”, “sorridimi sempre! E’ il solo sorriso che mi venga dalla vita” alcuni delle frasi che fanno sghignazzare i censori. Lettere traboccanti di amore e nostalgia, attraverso le quali Mazzini tace all’amata la devastante notizia, il 21 febbraio 1835, della morte di “A.”, il piccolo Adolph, all’età di tre anni (Giuditta lo saprà solo nel 1837, dalla madre di Mazzini, quando riuscirà a riabbracciare i figli in Italia). Vagamente accenna, ma senza dare adito ad eccessivi sospetti, alla gracilità del piccolo. Lettere nelle quali inizia anche a spirare la “tempesta del dubbio” che porterà Mazzini sull’orlo del suicidio, davanti al fallimento dei suoi progetti. Finita la rabbia per il fallimento del 1834 (scrive all’amico Rosales: “Il popolo e i capi-popolo hanno mancato. Che Dio fulmini loro e me prima!”) seguono tetri mesi di prostrazione. Nell’aprile 1835 scrive a Giuditta: “V'è tanta devastazione nella mia anima, che tu, se avessi potuto vederla tutta questa mia anima, come io te la recava quella notte quando tu mi dicesti: ah! resta, quando io ti diedi un bacio sulla testa, ti ritireresti oggi di spavento: era un amore la mia anima, era un bacio, era un profumo che io voleva versar tutto a' tuoi piedi - ora è una rovina”. Forse proprio per questa devastazione, proprio da quell’aprile, abita in una stanzetta (oggi la museale “Camera Mazzini”) nello stabilimento termale di Bachtelen, a Grenchen, ai piedi del Giura, ospite del dottor Gerad, già bonapartista. Con lui i fratelli Agostino e Giovanni Ruffini. E le tre giovani figlie Gerard. Le ragazze fanno a gara per rassettare la sua stanza ed accudirlo. Si incantano a vederlo cantare e suonare con l’amata chitarra mesti canti popolari (quell’anno scrisse il saggio “Filosofia della musica”). Soprattutto la minore ne è rapita, come Pippo confessa alla madre, cui scrive almeno una volta alla settimana. “Dove sono ora, sono amata assai” le scrive a maggio, firmandosi per prudenza “Tua nipote Emilia”.  Solo che, quando se ne uscì con lapsus (“Cara zia, oggi mi sono fatto la barba”) la polizia iniziò a sospettare qualcosa (ma sarà arrestato a Soletta solo un anno dopo con i cittadini di Grenchen che gli conferiscono la cittadinanza onoraria per impedire l’espulsione, inutilmente). A Grenchen conosce George Sand che, reduce dal suo viaggio d’amore con De Musset in Italia, aveva deviato proprio per incontrarlo. C’è chi sostiene che l’intraprendente scrittrice, finito il suo amore con Chopin, avrebbe concesso le sue grazie al romantico rivoluzionario quando, nel 1848, Mazzini giunse nella Francia rivoluzionaria e si sia concesso un breve ritiro nella pace agreste di Nohant. Comunque le lettere che per alcuni anni, dopo di allora Mazzini e Sand si scambieranno, stanno ad attestare un solo amore comune: Byron. Intanto, a marzo 1835, da Napoli Giuditta ha raggiunto Roma. Interessa alla sua causa il segretario di stato vaticano. E prende anche contatti con un gruppo mazziniano. In esso c’è Michele Accursi, enigmatica figura di doppiogiochista, mazziniano e allo stesso tempo spia pontificia (che dal 1838 a Parigi, agente di Donizetti, smista anche la posta dei mazziniani che giunge all’insospettabile indirizzo del maestro). Finalmente riesce ad arrivare a Bologna, quindi a Modena riesce a riabbracciare i figli. E’ l’agosto 1836, non li vede da cinque anni. Ma viene subito acciuffata e condotta alla frontiera, quindi espulsa anche da Lucca, quindi raggiunge Genova dove incontra Maria Drago. La madre di Mazzini la accoglie con grande affetto. E l’anno dopo, Giuditta nuovamente espulsa, la accompagna a Parma, accettata dal regno di Maria Luisa d’Asburgo. Ed è Maria Drago che rimette in contatto il figlio, ora esule a Londra, con l’ancora amata Giuditta: “Ditele che io l’amo come l’amava; e il dileguarsi d’ogni speranza non mi toglie d’amarla” scrive, accennando al dolore per la morte del loro bambino: “Deve rassegnarsi, or più che mai ch’essa vede di tempo in tempo i suoi figli e può rovesciare sovr’essi tutto il suo amore”. E’ stato infatti permesso a Giuditta di recarsi a Reggio Emilia due volte all’anno per incontrare i figli. Smetteranno di scambiarsi anche le ultime lettere. Lo stesso Mazzini scrive all’amico comune Melegari, nel 1837, ormai esule a Londra, dopo l’espulsione perpetua dalla Svizzera e l’arresto a Parigi: “Non la vedrò mai più”, “da molto mi ha sacrificato al dovere, ai suoi figli e lo doveva, e io stesso ve l’ho esortata”. E un anno dopo, allo stesso Melegari, invia un misterioso  ringraziamento, forse per aver ricevuto i morbidi capelli del piccolo Adolphe: “Ti son grato davvero per la ciocca. La terrò sacra e terrò sacro il segreto”. Dal 1842 Giuditta, ormai morto il suocero ostile, riesce a tenere con sé i figli e li educa all’amore per la causa repubblicana. Solo nel 1849 rincontra Mazzini a Firenze. Lei vi si è rifugiata dopo l’occupazione austriaca di Parma. Lui è il triumviro in fuga dalla Repubblica romana. Avranno certo parlato di Achille, il figlio di Giuditta, che a Roma ha combattuto. L’amore ormai è spento. O meglio Mazzini ha rinunciato ad esso. Sul suo volto è calata l’espressione assorta e amara dell’Apostolo cui è impedito di vivere di semplici affetti. Tornata a Parma, con l’avvento del reazionario Carlo III di Borbone, Giuditta finisce nella lista dei sospetti da perseguitare. Il 1852 si apre con il suo arresto, a febbraio è in catene a Milano, isolata nella prigione di Santa Margherita. Ma qui il generale Ferencz Gyulai (lo stesso che nel 1859 finirà bloccato con le sue truppe nelle risaie della Lomellina e del Vercellese allagate dai piemontesi, senza accorgersi che Napoleone III puntava su Milano via Novara) si rifiutò di trattenerla. E, considerata cittadina svizzera, è tradotta in territorio elvetico. A fine 1852 Giuditta giunge a Torino, dove già vivono le figlie Corinna ed Elvira. Passano per il suo salotto importanti patrioti, come Francesco Crispi. E, nell’estate del 1856, anche Mazzini, che va cercando finanziamenti per l’impresa di Pisacane. Fu l' ultima volta che i due ex amanti si incontreranno. Curiosamente poco lontana è la casa della di Rosa Vercellana, la Bela Rosin, la moglie morganatica di Vittorio Emanuele II. Nel 1868 Giuditta, colpita da dissesti finanziari e dalla morte della figlia Elvira, si ammala di tubercolosi. Il 28 marzo 1871, a 67 anni, morirà per una polmonite rifiutando i sacramenti religiosi, lei diceva di “credere liberamente nel Dio degli esuli e dei vinti”. Torino la ricorda con una targa posta sulla sua casa, in quella che oggi si chiama via Mazzini. Anni dopo Mazzini di Giuditta traccerà questo ritratto dal quale nulla traspare dell’antica passione: “Rara per purezza e costanza di principi, donna dalle passioni profonde, dal carattere estremamente indipendente e dalla fantasia vivissima”. Scriverà Galante Garrone che “quel senso scabro e desolato del dovere da compiere a prezzo d’ogni sacrificio traggono le loro origini anche dal misterioso legame con Giuditta, e dalla morte del bimbo. L’ombra di questi fatti si allungherà, non confessata ad alcuno, su tutta la vita di Mazzini”.  

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