Il prossimo 24 giugno ricorre il 150° anniversario della sanguinosa battaglia di San Martino e Solferino. Fu l’episodio decisivo della seconda guerra d’indipendenza, dopo i successi ottenuti in primavera dai Franco-Piemontesi a Palestro, Magenta, Melegnano e le vittorie dei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi. Da un diario, scritto dal campo di S. Eufemia, da un volontario del 6° reggimento dell’Armata piemontese possiamo ricostruire sinteticamente la dinamica della battaglia. Il volontario è Angelo Umiltà nato nel 1831 a Montecchio Emilia, più tardi divenuto garibaldino e morto in esilio all’età di 61 anni in Svizzera, a Neuchatel, nel 1893. I fatti d’arme della primavera costrinsero l’armata austriaca ad affrettare una precipitosa fuga e a sgombrare la Lombardia. Il 23 giugno l’esercito franco-piemontese avanzava da Brescia in due forti colonne: quella francese su Montichiari, quella piemontese da Lonato verso Desenzano. Le truppe austriache, comandate direttamente dall’Imperatore Francesco Giuseppe, si erano concentrate vicino alle fortezze del Mincio (270 mila uomini su un fronte che andava da Goito al lago di Garda), occupando le alture eminenti di Solferino e S. Martino. Il 24 le due colonne dell’esercito alleato scendevano le colline di Montichiari e di Lonato, quando furono attaccate dal nemico allo spuntare del giorno. Le colonne francesi si stendono alla destra in lunga catena: lo stesso fanno a sinistra i piemontesi, per abbracciare l’intera linea del nemico che si avanza minaccioso. Si vedono i reggimenti spiegarsi in ordine di battaglia, mentre altri corpi si avviano a sostenerli. Al tuonare dei cannoni, dense nuvole di fumo si alzano da vari punti e al loro diradarsi si mostrano i francesi in colonna serrata avanzare verso Pozzolengo e bombardare il piccolo paese di Cavriana, dove gli austriaci stando sopra una torre lanciano bombe a loro volta. Al centro dello schieramento la prima divisione piemontese incontra anch’essa il nemico, la quinta, facendo testa a sinistra, cioè verso la sponda del lago di Garda vi è già in contatto, la terza marcia in sostegno. Alle sette del mattino la battaglia è generale: tutti i corpi dell’esercito piemontese sono impegnati in combattimento, ad eccezione della seconda divisione (a cui appartiene Umiltà) che è di riserva e la quarta che è a presidiare le valli bresciane. Alle undici i tamburi battono la generale e la seconda divisione lascia Lonato dirigendosi sopra Rivoltella. La marcia procedeva per strade remote, disastrose su e giù per valli; non si vedevano altro che sassi e piante; l’aspetto della battaglia era scomparso: ma al fragore continuato e vario per la distanza i militari in riserva giudicarono essersi iniziata una zuffa che non doveva durare poco. Era l’inizio della battaglia a cui assistettero due imperatori, Re Vittorio Emanuele, i duchi di Toscana e di Modena e tutti i generali in capo delle tre armate, che nell’insieme contavano forse più di 350.000 combattenti. La battaglia prese subito proporzioni gigantesche; divenne una gara tremenda fra generali, ufficiali e soldati, di orgoglio nazionale, di militare valore; una disfida sanguinosa fra nazioni rivali per odi tradizionale e recenti, la quale doveva decidere o la durata futura del possesso ingiusto e violento di una delle più belle regioni del mondo o l’indipendenza e la liberta del popolo più civile. Doveva abbattere l’ultima colonna del dispotismo cadente. A mezzogiorno lo scontro ferveva più terribile che mai, non lasciando intravedere da quale parte sarebbe stata la vittoria: ambo gli eserciti contavano molte perdite ed uguali successi; però, mentre i francesi, più forti di numero, guadagnavano terreno sulla destra, assalendo un cimitero occupato dagli austriaci, che a centinaia trovavano morte e sepoltura, la brigata granatieri di Sardegna al centro, dopo durissimo contrasto, sopraffatta dalla moltitudine, ripiegava quasi in disordine. Lo scopo del nemico era quello di separare l’armata sarda dalla francese, serrarle fra quelle gole che sono tra Pozzolengo, Desenzano e Lonato, batterle separatamente per correre poi a Milano, che l’Imperatore Francesco Giuseppe voleva punire per aver barricate le strade e chiuse le porte della città agli avanzi dell’esercito dopo la sconfitta di Magenta. La terza delle divisioni sarde si trovava già a fianco della quinta, che con prodigi di valore faceva fatica a contenere il nemico sulla sinistra; questo punto era sempre minacciato, ma se fosse stato abbandonato ciò avrebbe necessariamente portata alla rovina dell’esercito sardo e di conseguenza resi inutili i successi ottenuti dai francesi. Questi dopo aver avanzato e retrocesso per ben tre volte sotto Cavriana, se ne erano finalmente impadroniti; verso le prime ore del pomeriggio riescono a spingersi sotto il colle di Solferino, favoriti anche dai successi della brigata Savoia della prima divisione piemontese che, slanciandosi sopra la collina alla sinistra dei francesi aveva riparato i danni sofferti dalla brigata dei reali granatieri di Sardegna, riportando molti vantaggi sul nemico. Gli zuavi si gettano innanzi sotto una grandine di palle e con uno slancio loro proprio si precipitano sugli austriaci incalzandoli con la baionetta e li forzano ad abbandonare la posizione per difendere la quale avevano coperto il terreno di cadaveri. L’Imperatore Francesco Giuseppe cominciò a dubitare sulla vittoria e decise di concentrare le forze dei generali Schlich e Benedek verso la località di San Martino. Mentre i francesi si impadroniscono di Solferino gli austriaci, dunque, rompono in massa sulla sinistra: le colonne piemontesi, malgrado i generosi sforzi, stanche e decimate sono a costrette a retrocedere.
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