/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": agosto 2011

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mercoledì 31 agosto 2011

La famiglia dei Marchesi Casati

LA FAMIGLIA DEI MARCHESI CASATI


Quando si parla di una nobile famiglia che ha legato il suo nome a Muggiò non si può fare a meno di pensare ai Casati. Arrivarono a Muggiò nel Quattrocento, quando Pietro, figlio di Giacomo, fu costretto ad andarsene da Milano e tra il 1408 eil 1457 si rifugiò a Monza e nella zona acquistò vasti terreni. I possedimenti vennero estesi anche grazie ad uno strumento allo consueto per ampliare i patrimoni, quello del matrimonio. Fu così che Giovanni Battista Casati nella seconda meta del 1500 sposò Angela Scorpioni, figlia di un’altra nobile famiglia che a Muggiò aveva vasti possedimenti, che naturalmente la giovane portò in dote allo sposo.
Proprio alla metà del ‘500 abbiamo le prime prove certe dell’esistenza a Muggiò della villa Casati con una sua architettura ben più importante delle povere case dei contadini e con un mistero che si trascina fino ad oggi: un pozzo profondo una ventina di metri nel quale la leggenda vuole che i nobili Casati ed i loro amici di bisbocce gettassero le imprudenti e impudiche fanciulle che avevano allietato le feste. Nulla di storico, certo,. Ma è altrettanto sicuro che la famiglia Casati nei secoli ha sempre intrecciato la sua vita con le vicende storiche e politiche dell’Italia e anche con storie d’amore e di sesso dai contorni forti. Dunque se l’immaginazione popolare in ogni parte del mondo vuole che i pozzi nell’antichità servissero ai proprietari dei castelli più che per tirare fuori acqua, per gettarvi dentro fanciulle o nemici, rivali d’amore o avversari politici o concorrenti d’affari, il mistero e la leggenda del pozzo di villa Casati acquista un sapore del tutto particolare alla luce di quel che sarebbe successo secoli dopo.
Un contributo tutto particolare diedero i Casati alla lotta di Indipendenza nazionale. Il periodo napoleonico aveva liberato energie produttive e sociali e in questa parte della Brianza erano aumentati di numero e di importanza agli artigiani. Tessili, che già esistevano da tempo, e mobilieri. Si era affermato con l’arrivo deifrancesi un modo di pensare nuovo, più libero e consono alla volontà di cambiare lastruttura economica di questa zona molto dinamica della Lombardia.
I Casati, che a Muggiò avevano la loro villa, ma che stavano anche a Milano a continuo contatto con i settori più dinamici della società lombarda, furono tra i primi ad aderire fattivamente alle idee di indipendenza nazionale. Ma il primo personaggio della famiglia ad essere pesantemente coinvolto nella lotta antiaustriaca fu un parente acquisito, il conte Federico Confalonieri che aveva sposato Teresa Casati, sorella di Gabrio e di Camillo.
Confalonieri aveva fondato nel 1819 il periodico Il Conciliatore, sul quale scriveranno tra gli altri giovanni Berchet e Silvio Pellico, Carlo Cattaneo e Luigi Porro Lambertenghi e sognava di costruire una federazione con il Piemonte. Era anche un uomo d’affari concreto e aperto al nuovo, al punto che insieme ad Alessandro Visconti fece costruire il primo battello a vapore che navigò sul Po. Ma la sua fama è legata alla battaglia per l’indipendenza. Nel 1821 aveva cercato, insieme ad altri patrioti, di convincere il principe Carlo Alberto di Savoia a varcare il Ticino, come immaginò in una sua poesia Alessandro Manzoni, e a conquistare la Lombardia.
Due erano i gruppi di patrioti che premevano sul Savoia. Il primo era quello dei carbonari, guidato da Silvio Pellico e composta tra gli altri dal musicista romagnolo Pietro Maroncelli, dal Berchet e dal conte Giacomo Laderchi.
Il secondo, quello dei federati, faceva capo al Confalonieri. Gli uni e gli altri pensavano di poter trovare un sostegno in Carlo Alberto, erede al trono perchè nè Vittorio Emanuele I° nè suo fratello Carlo Felice avevano figli maschi, che in gioventù era stato vicino ai carbonari. Effettivamente il 6 marzo 1821 Carlo Alberto incontrò cinque congiurati e promise loro che si sarebbe fatto sostenitore delle loro richieste davanti al re, dopo che fossero scoppiati moti nella notte tra il 7 e l’8 marzo. Ma subito dopo Carlo Alberto fece marcia indietro. L’insurrezione a Torino venne bloccata, ma non si fece in tempo a fermare quella di Alessandria. Tutto fallì e Pellico, Maroncelli ed altri vennero arrestati, processati a Venezia e condannati a morte, ma poi la pena venne commutata nell’ergastolo da scontarsi nel tremendo carcere dello Spielberg. Confalonieri venne arrestato solo il 13 dicembre. Era rimasto a casa sua nonostante che lo stesso comandante delle forze austriache in Lombardia conte Bubna gli avesse inviato la moglie con il suggerimento di fuggire. E quando arrivarono le guardie per arrestarlo, Confalonieri scoprì che qualcuno aveva murato il passaggio segreto attraverso il quale sperava di fuggire. Molti si sono chiesti perchè il conte non era scappato prima.
Eccesso di fiducia nell’importanza del proprio nome? Imprudente gioco con gli austriaci? O un romantico correre incontro al proprio destino, qualunque esso potesse essere? O un diverso romanticismo, la volontà di non allontanarsi dall’amore di una donna che non era la moglie?
Fatto sta che Confalonieri venne arrestato mesi dopo Pellico e Maroncelli e condannato a morte al processo di Venezia. Teresa Casati fu sempre con lui, anche quando l’inquisitore Antonio Salvotti le mostrò un pacco di lettere che un’amante aveva scritto al marito. “Non ho nulla da dichiarare” rispose Teresa all’inquisitore che la spingeva a denunciare Confalonieri, a pagare tradimento con tradimento. Non solo. Quando il conte fu condannato a morte, Teresa con Gabrio andò a Vienna e fece di tutto per ottenere dall’Imperatore la grazia. Che alla fine arrivò, anche se sotto forma di ergastolo da scontare allo Spielberg.
La dedizione di Teresa andò oltre. Mentre il marito attraversava le sue prigioni, la moglie cercava in ogni modo di aiutarlo e trovò persino una via clandestina per scambiarsi lettere e notizie. Fino a quando nel 1830 seppe che ormai, nonostante la giovane età, stava per morire. Allora decise che non avrebbe potuto dare a Federico questo dolore che avrebbe dovuto continuare il più possibile a donargli la consolazione di una lettera di tanto in tanto. E cominciò a scriverne in quantità, lasciando l’ordine, come in un estremo testamento amoroso, che ogni mese avrebbero dovuto spedire una di quelle lettere senza tempo e che parlavano d’amore e di vita normale al prigioniero dello Spielberg. E così fu, tanto che per qualche mese Confalonieri non seppe della morte di Teresa ed anzi riuscì a mandarle anche qualche risposta, in una sorta di dialogo amoroso tra due diverse morti. Fino a quando, nel febbraio 1831, a 5 mesi dalla scomparsa di Teresa, entrò nella cella del conte un commissario che, compunto, comunicò: ”Numero quattordici: Sua Maestà L’imperatore si degna di farvi sapere che vostra moglie è morta”. E se ne andò richiudendo la porta.
Teresa venne sepolta nel cimitero di Muggiò e la sua lapide fu scritta dall’amico Alessandro Manzoni. “Teresa, nata da Gaspare Casati e da Maria Origoni il XVIII settembre MDCCLXXXVII maritata a Federico Confalonieri il XIV ottobre MDCCVI ornò modestamente la prospera fortuna, l’avversa soccorse con l’opera e partecipò con l’animo quanto ad opera e ad animo umano è conceduto, consunta ma non vinta dal cordoglio, morì sperando nel Signore degli afflitti il XXVI settembre MDCCCXX. Gabrio Angelo Camillo Casati alla sorella amantissima e amatissima eressero e a sè prepararono questo monumento per riposare tutti un giorno accanto alle ossa care e venerate”.
Federico Confalonieri rimase allo Spielberg 15 anni, poi fu graziato, ma a patto che se ne andasse in esilio in America subito, senza nemmeno potersi fermare a pregare sulla tomba della moglie. Dallo Spielberg fu mandato direttamente alla nave che doveva portarlo al di là dell’Oceano e solo Alessandro Manzoni riuscì ad intercettarlo con un suo libro dono e con una dedica affettuosa: “Che può l’amicizia lontana per mitigare le angosce del carcere, le amarezze dell’esilio, la desolazione di una perdita irreparabile? Qualche cosa quando preghi; che, se sterile è il compianto che nasce nell’uomo e finisce con lui, feconda è la preghiera che vien da Dio e a Dioritorna. Milano, 23 aprile 1836”.
Dopo due anni passati in America, il conte tornò in Europa, malatissimo. E quando era ormai chiaro che sarebbe morto di lì a poco, l’Austria gli permise di tornare anche a Milano, dove arrivò con una nuova moglie, l’irlandese Sofia Ò'Farrel, che aveva vissuto tanti anni alla corte di Danimarca. Molti non gli perdonarono questo matrimonio che interpretavano come un tradimento postumo di Teresa, quasi fosse una continuazione di quello che le aveva inflitto in vita. Al punto che Confalonieri sentì il bisogno di scusarsi, o per lo meno di spiegarsi, con Maroncelli, suo compagno di prigionia allo Spielberg, in una lunga lettera. Sofia viene descritta dal conte come una ammiratrice di Teresa e proprio per questo amata da Confalonieri. “La sua adorazione per l’angelica mia Teresa, di cui non domandava che di compiere presso di me qualche vece, non ti taccio che fimmi potentissimo impulso alla determinazione: e, quasi a consacrazione dell’espressomi suo voto, il giorno che le impegnai la mia parola, le cinsi un braccialetto dei capegli di Teresa, ch’ella serberà qual reliquia di tutta la vita. A te non fa bisogno ch’io cenni tutti i misteri di dolore e di amore, di legame tra passato, il presente, e l’avvenire che in sè racchiude questo semplice rito”.
Poi Confalonieri fa una descrizione di Sofia, colta, poliglotta, devota. Ma quella parte della lettera che parla della nuova moglie come di una pallida adoratrice di quella morta 15 anni prima, suona come una scusa per coloro che mal dicono di lui e di lei. Romantico, un pò falso e anche macabro Confalonieri, con quel particolare del braccialetto di capelli di Teresa cinto al polso di Sofia. Comunque di lì a poco il conte morì e Sofia, tenendo fede alla sua immagine di devozione totale per Federico e Teresa, fece seppellire il marito a Muggiò accanto alla prima moglie. Poi andò ospite della contessa Cristina di Belgioioso, che in precedenza aveva criticato duramente Confalonieri per i fatti del1821, e quindi tornò nel suo nord. Ma il Casati più famoso è senza dubbio Gabrio, il maggiore dei quattro fratelli.
Anche lui venne in seguito criticato dalla Belgioioso, perchè era stato nominato nel 1837 podestà di Milano dal governo austriaco, ma poi nel 1848 fu uno dei massimi responsabili delle 5 Giornate. Il 18 marzo 1848, con una coccarda tricolore sul petto, Gabrio guidò un lungo corteo popolare che si recò al palazzo del Governo di Milano dove risiedeva il governatore austiaco e lo obbligò a firmare la costituzione della guardia civica e la convocazione di una assemblea legislativa milanese, cioè in pratica i fondamenti del nuovo potere. E mentre Gabrio guidava la manifestazione, il fratello Camillo salvava dalla possibile rabbia dei milanesi la moglie del prefetto austriaco, la contessa Spaur. Gabrio venne così nominato presidente del governo provvisorio lombardo e quindi presidente del Consiglio dei ministri di Carlo Alberto, carica dalla quale si dimise quando venne firmato l’armistizio con gli austriaci. Quando tornò Radetzki, per Gabrio si aprirono le vie dell’esilio. Dopo l’Unità d’Italia non solo tornò, ma fu il primo ministro della pubblica istruzione e nel 1859-60 elaborò e fece approvare una riforma della scuola che rimase in vigore fino al 1923.
Del resto Gabrio fu uno di quegli uomini del Risorgimento che pensavano che l’unità e la prosperità d’Italia fossero possibili solo con un alto livello di istruzione dei suoi abitanti e la riforma, pur con gli inevitabili limiti dell’epoca, cercò proprio di essere lo strumento per la formazione di una identità culturale del Paese.
Camillo Casati, oltre ad avere salvato la Spaur, è ricordato per essere stato il primo sindaco di Muggiò dopo l’Unità d’Italia, fino al 1869.
Alla famiglia Casati, come alla Isimbardi, si deve l'iniziativa dell'acquisto del quadro che ha arricchito per molti decenni la chiesa di Muggiò e che ora si trova a Milano, il “Gesù crocifisso con la Maddalena” di Francesco Hayez, dipinto nel 1827. Come siano andate le cose, lo ricorda lo stesso Hayez in un suo scritto: “Le famiglie Isimbardi e Casati, proprietarie principali del Comune di Muggiò, mi diedero la commissione di eseguire un quadro d’altare per quella chiesa, “Gesù crocefisso con la Maddalena ai piedi della Croce”; ricorso che quando mi recai a collocare al suo posto la tela, due delle signore committenti si trovarono presenti, una delle quali, la graziosa marchesa Luigi Isimbardi Litta Modigliani, gentilmente volle invitarmi a colazione”.
Ma la storia di questo quadro è particolarmente travagliata. Già a metà del 1800 cominciò ad avere problemi e lo stesso Hayez venne chiamato ad eseguire lavori di restauro nel 1864. Scrisse in quella occasione il pittore: “Giacchè amai sempre fare i confronti fra le mie opere eseguite in epoche diverse, dovetti scorgere più di un difetto, di cui voglio conservare il segreto”.
Nel 1878 però il quadro già mostrava altri problemi ed il parroco don Giovanni Ferrario, scrisse ancora una volta all’Hayez per chiedere aiuto. Mal gliene incolse: per tutta risposta ebbe una lettera di rimbrotti violenti. “Mi rincresce che il mio primo lavoro sacro al quale mi sento grandemente affezionato vada a perire. L’alito dei fedeli, è questo che lo distrugge, perchè l’alito è corrosivo. Ci vorrebbe una chiesa grande! Se può ritirarlo in casa sua almeno finchè non si provveda ad una nuova chiesa il quadro è salvo”.
Per anni i tentativi di restaurare il quadro andarono a vuoto e nel mezzo ci fu anche una polemica, nel 1892, di don Ferrario con il sindaco che aveva accusato il parroco di lasciare deperire volontariamente il dipinto. Fu solo alla fine del 1895 che finalmente il “Gesù crocifisso” venne restaurato per la seconda volta, grazie all’intervento del marchese Pietro Isimbardi, al quale don Ferrario invia una lettera riconoscente: “Ringraziamo la S:V: illustrissima per la generosità con la quale, seguendo l’esempio del compianto di lei nonno, l’illustrissimo Signor Marchese Pietro Isimbardi, ha voluto assumersi la spesa occorrente per il restauro”.
Il dipinto rimase ancora qualche decennio esposto nella chiesa, poi venne spostato dal nuovo parroco don Luigi Gadda nella sua casa, per evitare che la tela, ormai di grande valore anche economico, fosse rubata. Quindi venne spostata all’Arcivescovado di Milano, dove si resero conto che l’Hayez doveva essere restaurato per la terza volta. Si pose di nuovo il problema dei soldi, e alla fine l’operazione fu possibile grazie alla sponsorizzazione della società milanese Pro Svi.
Il quadro, restaurato per la terza volta, fu esposto nel maggio 1991 al centro culturale San Carlo di Milano. L’altro dipinto ospitato per decenni nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo era la “Madonna con bambino” che nel 1825 ornava la cappella Casati. Era opera del pittore Pelagio Pelagi, uno dei maestri dell’Hayez, architetto e scultore, oltre che pittore. Di questo dipinto si sono perse le tracce: negli anni dell’ultimo immediato dopoguerra è scomparso. Un altro dei misteri di Muggiò.
Rubato come sostengono alcuni, o venduto per pagare debiti della chiesa, come insinuano altri?







lunedì 29 agosto 2011

Giovan Maria Damiani

Giovan Maria Damiani, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte, era nativo di Piacenza, ma visse per lo più a Bologna. Arruolatosi giovanissimo come volontario nella prima Guerra di Indipendenza (1848), partecipò a tutte le successive campagne risorgimentali. Fu uno dei Mille che il 5 maggio 1860 con Garibaldi partirono da Quarto per la Spedizione che avrebbe portato alla liberazione dell’Italia meridionale e in quella campagna ottenne la croce di cavaliere dell’Ordine militare d’Italia per il valore dimostrato nella battaglia di Calatafimi (12 giugno 1860). Fu decorato nuovamente nella battaglia di Bezzecca, durante la Terza Guerra di Indipendenza (1866) e l’anno dopo partecipò alla campagna dell’Agro romano. Ritiratosi dal servizio militare ottenne un posto di Economo presso l’Università di Bologna, continuando per altro a svolgere un ruolo di primo piano all’interno del composito mondo dei reduci garibaldini.

In margine alla manifestazione, che si avvale della collaborazione dell’Associazione Nazionale Volontari e Reduci Garibaldini, dal 1° al 12 luglio sarà inoltre possibile ammirare presso le sale del Museo il bel ritratto a olio di Giovan Maria Damiani, opera di Antonio Puccinelli (1822-1897), uno dei più felici dipinti del grande artista toscano e che di regola non è esposto al pubblico.



Il garibaldino che fece il Corriere della Sera


A diciotto anni fa propaganda nel Regno delle Due Sicilie per Giuseppe Garibaldi, si unisce al suo esercito, combatte ed entra con le camicie rosse a Napoli. A diciannove diventa redattore dell'“Indipendente”, il giornale fondato da Alexandre Dumas padre, di cui è segretario personale e che segue a Parigi. A Milano collabora con i periodici di Edoardo Sonzogno, ma quello che sogna è un giornale tutto suo. Così, nel 1876, Eugenio Torelli Viollier fonda il "Corriere della Sera", del quale resta direttore fin quasi alla morte, nel 1900. Il libro di Massimo Nava racconta una vita avventurosa e allo stesso tempo ricostruisce la nascita di una nazione, a cui il "Corriere" dà un importante contributo, grazie al suo ruolo cruciale nella diffusione della cultura e dell'informazione.

Grande successo a Falcone di Karaoke

Si sono concluse, con grandissimo successo di pubblico, le serate karaoke ad opera dell’Associazione Sindacale Culturale e Sportiva “Giuseppe Garibaldi”, organizzate nei minimi particolari dal Presidente Carmelo Cicero, e che si sono svolte sul Lungomare di Falcone (ME), presso il Lido “Perla Azzurra”. Elevato successo personale ha riscosso il cantautore vocalist Leandro Alesci. Nelle varie serate si sono avvicendati artisti di rilievo locale ed anche nazionale ed internazionale, dal paroliere Nino Buccheri al cantante Salvatore Alosi, da Alessandro Adornetto alla pianola e alla fisarmonica a Michele Bengala, cantautore.  La studentessa Dominique Cicero, appartenente al gruppo “Ensamble Flauti traverso” della “Bastiano Genovese” di Barcellona P.G., ha eseguito con il suo flauto l’Inno di Mameli in occasione di 150 anni dell’Unità d’Italia e  “La vita è bella” colonna sonora dell’omonimo film.

domenica 28 agosto 2011

Gennaro Marulli

Gennaro Marulli

Napoli 16/3/1808 - Napoli 25/12/1880
Colonnello Comandante
Apparteneva ad una famiglia legatissima alla dinastia borbonica, suo padre Troiano Marulli soffrì per anni il carcere sotto Murat, perché non volle mai piegarsi a riconoscere quel sovrano.Gennaro Marulli nel 1829 era già I tenente ai cacciatori della guardia.
Nel 1845 fu promosso capitano e l'anno successivo dette alle stampe un pregevolissimo volume storico dal titolo "Ragguagli storici sul Regno delle Due Sicilie dall'epoca della francese rivolta fino al 1815".
Duemila pagine che il nostro capitano raccontò con notevole imparzialità gli accadimenti militari.
Nel 1848 partecipò direttamente agli scontri che il 15 maggio accaddero nella capitale, dando prova di valoroso militare.Appassionato cultore di storia militare collaborò con i fratelli Ulloa all'antologia militare.Sono tutte di Marulli le didascalie che accompagnarono il lavoro di Zezon sui figurini militari.
Nel 1856 ebbe la promozione a maggiore.
Nel 1859 salito al trono Francesco II, che aveva per il Marulli una profonda stima, gli affidò il comando del 9° reggimento di fanteria "Puglia" di stanza a Palermo.Il 1 maggio 1860 fu promosso colonnello.Il 27 maggio Garibaldi assalì la città e toccò al Marulli ed ai suoi uomini reggere il primo urto e difendere Porta Maqueda. Guidati da questo valoroso militare i soldati borbonici fecero miracoli, fino a quando un proiettile non lo mise fuori gioco.Il re conferì al colonnello borbonico la croce ufficiale di S. Giorgio con una pensione di 100 ducati.Trasportato a Napoli per le cure, sebbene dolorante, volle rientrare ancora convalescente in servizio.
A Capua, il 6 settembre, Marulli era al suo posto.Ritucci gli affidò la brigata composta da due reggimenti granatieri sotto il comando del generale Tabacchi.All'attacco di S. Maria, per l'errore di D'Orgemont, che attaccò il nemico dal lato sinistro anziché dal destro e per la difficoltà dei corpi della guardia di avanzare in ordine aperto, la brigata dopo aspri combattimenti, falciata dalla mitraglia sarda, indietreggiò, nonostante il colonnello, con il suo braccio fasciato, incitasse in ogni modo alla resistenza i suoi dipendenti.All'inizio dell'assedio di Gaeta, fu nominato vice governatore, compito gravoso che assolse con fedeltà ed abnegazione.Dopo la resa si ritirò a vita privata in famiglia, ma pagò la sua fedeltà subendo un agguato da alcuni sconosciuti che lo picchiarono a morte mentre rincasava in pieno giorno.Creduto morto fu risparmiato ed ebbe la forza lentamente riprendersi.
Non volle piegarsi agli invasori.
Nel 1874 perse il suo amatissimo primogenito Teodoro Troiano, morto combattendo per i legittimisti carlisti a Igualda.











sabato 27 agosto 2011

Rosalia Montmasson fu l'unica donna a partecipare alla spedizione dei Mille!

Rosalia Montmasson (nata a Sain Jorioz, il 12 gennaio 1825 - Capricorno) è stata una patriota italiana nativa dell'Alta Savoia, allora parte del Regno di Sardegna. Fu anche la moglie di Francesco Crispi (nato a Ribera il 4 ottobre 1818 - Bilancia) che conobbe durante l'esilio piemontese, quando Crispi si rifugiò in Piemonte dopo il fallimento della rivoluzione indipendentista siciliana del 1848.

Rosalia, proveniva da una famiglia povera, ma si dice fosse molto bella e il suo lavoro di lavandaia e stiratrice le permise di conoscere l'allora giovane rivoluzionario, futuro Presidente del Consiglio dei Ministri italiano.
Quando, nel 1853, la situazione in Piemonte si fece pericolosa, Crispi fu costretto a recarsi a Malta, e Rose decise di seguirlo. Come nella più romantica delle avventure, i due partirono poi per Parigi fino a quando non vennero espulsi dalla Francia, sospettati di complicità con Felice Orsini e forzati a raggiungere Giuseppe Mazzini (nato a Genova il 22 giugno 1805 - Cancro) a Londra (1853).
Durante la seconda guerra d'indipendenza, nel 1859, la coppia tornò in Italia unendosi alle truppe di Giuseppe Garibaldi (nato a Nizza il 4 luglio 1807 - Cancro), che si preparavano per lo sbarco in Sicilia.Rose, non restò con le mani in mano, ma ebbe un ruolo importantissimo nello sbarco dei Mille (che precisamente erano 1089): quello di vero e proprio agente segreto. Fu lei, infatti, a recarsi a Messina a bordo di un battello a vapore per raggiungere i patrioti siciliani e rendere possibile lo sbarco. La curiosità, che fra l'altro la rende celeberrima, è che Rosalia Montmasson fu l'unica donna a partecipare alla spedizione dei Mille!



venerdì 26 agosto 2011

La lettera del conte di Siracusa, Leopoldo di Borbone


Leopoldo (Beniamino Giuseppe, nato il 22 maggio1813 a Palermo, morto il 4 dicembre 1860 a Pisa) era un fratello del defunto re Ferdinando II, e quindi zio di Francesco II.
Il 16 giugno 1837 sposò, in Napoli, Maria Vittoria Filiberta di Savoia. Le pressioni della moglie, le promesse del re sabaudo (nominarlo viceré di Sicilia!), unitamente alla sua scarsissima capacità neuronica, ne fecero uno dei protagonisti in negativo della dissoluzione del Regno delle due Sicilie.
Fino al 1860 era vissuto rinchiuso nella sua bella villa della Riviera di Chiaia: una vita dedicata al collezionismo e a catalogare reperti di Pompei.
Nell'agosto del 1860 scrisse la lettera che riportiamo di seguito. Formalmente diretta al nipote re Francesco, la lettera fu in realtà distribuita a tutte le cancellerie europee, ed ai giornali, allo scopo di indebolire il già traballante trono di Napoli, mentre Garibaldi ed i piemontesi avanzavano nell'invasione.
Il contenuto è di pura retorica, molto in uso in quei tempi. Leggendola oggi, fuori dal contesto di quei giorni, parrebbe pure sensata. Ma occorre ricordare che il destinatario, il re, non la ricevette mai, ma la lesse sui giornali, o in una delle migliaia di copie diffuse in città. Infatti lo scopo della missiva non era certo quello di convincere il re, ma di abbatterlo.
"Sire,
Se la mia voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli che sovrastavano la Nostra Casa, e non fu ascoltata, fate ora che, presaga di maggiori sventure, trovi adito nel vostro cuore, e non sia respinta da improvvido e più funesto consiglio. Le mutate condizioni d'Italia, ed il sentimento della unità nazionale, fatta gigante nei pochi mesi che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al governo di V.M. quella forza onde si reggono gli stati, e rendettero impossibile la Lega col Piemonte.
Le popolazioni della Italia superiore, inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respinsero co' loro voti gli ambasciatori di Napoli, e noi fummo dolorosamente abbandonati alla sorte delle armi, soli, privati di alleanze, ed in preda al sentimento delle moltitudini, che da tutti i luoghi d'Italia si sollevarono al grido di esterminio lanciato contro la Nostra Casa, fatta segno alla universale riprovazione.Ed intanto la guerra civile, che già invade le province del continente, travolgerà seco la dinastia in quella suprema rovina, che le inique arti di consiglieri perversi hanno da lunga mano preparata alla discendenza di Carlo III di Borbone; il sangue cittadino, inutilmente sparso, inonderà ancora le mille città del reame, e voi, un di speranza e amore dei popoli, sarete riguardato con orrore, unica cagione di una guerra fratricida.
Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvate la Nostra Casa dalle maledizioni di tutta l'Italia! Seguite il nobile esempio della Regale Congiunta di Parma, che allo irrompere della guerra civile sciolse i sudditi dalla obbedienza, e li fece arbitri dei propri destini. L'Europa e i vostri popoli vi terranno conto del sublime sagrifizio; e Voi potrete, o Sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l'atto magnanimo della M.V.
Ritemprato nella sventura il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della Patria, e Voi benedirete il giorno in cui generosamente Vi sacrificaste alla grandezza d'Italia.
Compio, o Sire, con queste parole il sacro mandato, che la mia esperienza m'impone; e prego Iddio che possa illuminarvi, e farvi meritevole delle sue benedizioni.
Di V.M. Affezionatissimo zio
Leopoldo conte di Siracusa
Napoli, 24 agosto 1860
"Ma neppure la pugnalata alle spalle che gli veniva da un membro della sua famiglia indusse Francesco II ad abdicare (anche se lo turbò enormemente). L'effetto sulla popolazione e sull'esercito, che consideravano Siracusa nulla di più che una «macchietta», restò, in pratica, nullo. Ma ebbe grande risalto in Piemonte, Inghilterra e Francia, cioè nella coalizione che conduceva l’invasione delle Due Sicilie". Qualche giorno dopo aver scritto e diffuso la lettera, Leopoldo andò a bordo della Maria Adelaide, nave piemontese dell'ammiraglio Persano, alla fonda nel golfo di Napoli (ufficialmente per "proteggere gli interessi del Piemonte", in pratica base operativa per prezzolare l'insurrezione antiborbonica di Napoli - che mai avvenne - e appoggiare i garibaldini, nelle cui fila militavano molti soldati sabaudi "in permesso" o "disertori").
Leopoldo di Borbone andava a "riscuotere", si aspettava complimenti e la conferma della promozione a "vicerè", e pensò bene di farsi precedere da un biglietto per Persano in cui scriveva:
"Pretendo di essere salutato colla bandiera allo stemma dei Savoia e non col borbonico, quale suddito di S.M. Vittorio Emanuele II, solo Re degno di regnare sull’Italia".
Di complimenti ne ricevette a iosa, ma ebbe anche la tremenda delusione di vedersi offrire da Persano solo una transitoria e platonica "Luogotenenza in Toscana".
Qualche mese dopo, Leopoldo morì a Pisa, in circostanze mai chiarite, anche se si diffuse la notizia di un possibile suicidio.

Giacinto Scelsi, patriota siciliano

Giacinto Scelsi (Collesano, 31 luglio 1825 – Roma, 6 maggio 1902) è stato un politico italiano. Fu senatore del Regno d’Italia nella XVII legislatura. Si laureò giovanissimo in giurisprudenza all’Università di Palermo e partecipò fin da subito in maniera molto attiva alla rivoluzione del 1848. Diresse un giornale molto diffuso e popolare in Sicilia nel quale apparve per primo il famoso nomignolo di “Re Bomba” appiccicato a Ferdinando II, che aveva fatto bombardare le città di Palermo e Messina. Dal governo instaurato dopo la rivolta gli furono offerti elevati uffici ma egli si contentò di andare come commissario straodirnario a Cefalù, tra l’altro senza stipendio. Lasciò la natìa Sicilia quando le truppe borboniche erano alle porte di Palermo e prese la via dell’esilio con Crispi, La Farina ed altri, recandosi in Francia, poi a Genova e finalmente a Torino, dove dimorò dieci anni. Nel 1859 fu a Firenze per compiere una delicata missione presso il Barone Bettino Ricasoli allora Presidente del Governo Toscano e mentre si trovava nel Gabinetto del Barone il telegrafo portò la notizia della vittoria di Solferino e di S. Martino. Ricasoli invitò Scelsi a scrivere un breve articolo su quella strepitosa notizia. L’articolo si concludeva dicendo che quella vittoria era “la pietra fondamentale dell’unità d’Italia”. E così fu.

Sotto mentite spoglie Scelsi riuscì a penetrare in Sicilia sfuggendo con accorti espedienti alla polizia Borbonica e potendo così preparare il terreno per la rivoluzione. Il 28 maggio 1860 raggiunse Garibaldi a Palermo, esultante per la sua liberazione. Con decreto del 3 giugno il Dittatore lo nominò commissario del Distretto di Cefalù, riponendo piena fiducia nell’ardimento del patriota siciliano, che non esitò ad assumere il posto assegnatogli pur sapendo che poco lontano, a Milazzo, vi erano quattordicimila borbonici, comandati dal generale Bosco, pronti ad attaccare. A Giacinto Scelsi va il merito di aver avvisato Garibaldi, che era a Palermo, che i Borbonici stavano per attaccare il Corpo dei Volontari del comandante Medici, a Milazzo. Il Dittatore partì subito con 400 volontari e andò a sbarcare a Patti. L’intervento del Dittatore accrebbe il coraggio del piccolo esercito italiano. I Borbonici furono costretti a battere la ritirata verso Messina e Garibaldi la sera stessa entrò vittorioso a Milazzo. L’esito di questa battaglia fu notevolmente condizionato dall’intervento del Dittatore, il quale non si sarebbe mosso da Palermo se Scelsi con il suo decreto non fosse riuscito ad impedire nuovi guasti alla linea telegrafica facendogli così conoscere la condizione di pericolo in cui versava il piccolo esercito del Generale Medici.



giovedì 25 agosto 2011

Pietro Colletta

Pietro Colletta , patriota e storico italiano (Napoli 1775 - Firenze 1831).


Ufficiale del genio nell'esercito borbonico, nel 1799 non celò le sue simpatie per la Repubblica Partenopea, e al ritorno dei Borboni fu perciò dispensato dal servizio. Percorse poi una rapida carriera militare sotto il regno di Gioacchino Murat, giungendo sino al grado di tenente generale. Per le sue eccezionali benemerenze non venne rimosso dal grado nemmeno con la Restaurazione, ma fu tenuto in disparte, finché nel 1820, scoppiata la rivoluzione carbonara, gli fu dato l'incarico di sottomettere la Sicilia, compito che assolse con grande fermezza. Ma l'anno seguente, per sottrarsi alle persecuzioni alle quali l'avrebbe sottoposto la reazione borbonica, prese la via dell'esilio e dal 1823 si stabilì a Firenze. Aveva già scritto a Napoli negli anni della Restaurazione una Memoria militare sulla campagna d'Italia del 1815, che non vide allora la luce, e in Toscana volle dedicarsi con maggiore impegno agli studi storici e letterari; il frutto migliore di questa attività fu la Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, che ebbe le cure, specialmente per la forma, degli amici Giordani, Niccolini, Lambruschini e Leopardi, e venne pubblicata postuma da Gino Capponi (1834). Per narrare le vicende recenti il Colletta ritenne opportuno iniziare l'esposizione dei fatti dal tempo di Carlo III; nondimeno la Storia risultò male equilibrata nelle parti, e fu criticata per la sua tendenziosità. Vi si notano risentimenti personali verso non pochi esponenti della politica napoletana, e quello che il Mazzini definì egoismo regionale piuttosto che patriottismo italiano. Anche stilisticamente l'opera presenta squilibri, ché, pur informandosi a un purismo moderato, il Colletta fu prosatore discontinuo, vigoroso in alcune parti e sciatto in altre. Gli scritti minori vennero nella maggior parte raccolti nelle Opere inedite e rare (1861).

mercoledì 24 agosto 2011

Ramorino, Gerolamo

Ramorino, Gerolamo. - Generale (Genova 1792 - Torino 1849). Partecipò giovanissimo alle campagne napoleoniche d'Austria (1809) e di Russia (1812); durante i Cento giorni fu ufficiale d'ordinanza di Napoleone. Tornato in Piemonte, partecipò ai moti del 1821 e durante la repressione riparò prima in Francia poi in Polonia, dove collaborò coi rivoluzionarî (1830-31). Fu tra i comandanti della spedizione mazziniana in Savoia (1834), ma la sua condotta militare fu ritenuta una delle cause del fallimento dell'impresa. Dopo l'armistizio Salasco offrì la sua collaborazione all'esercito sabaudo e gli venne affidato, dal generale W. Chrzanowski, il comando della 5a divisione piemontese in Lomellina. Accusato di aver disatteso gli ordini ricevuti, per aver abbandonato la postazione affidatagli, fu ritenuto uno dei responsabili della sconfitta di Novara. In seguito a questa accusa fu sottoposto a consiglio di guerra e, riconosciuto colpevole di disobbedienza di fronte al nemico, fu condannato a morte e giustiziato.


domenica 21 agosto 2011

La politica estera di Cavour

La politica estera

Sul piano della politica estera l'alleanza con Napoleone III preparerà la stagione risorgimentale del Piemonte sabaudo. Dopo il 1849 la politica estera dei Piemonte si era fondata su alcune direttive rimaste valide anche nei primi anni del ministero di Cavour: stretti legami con la Francia in funzione antiaustriaca; salvaguardia della posizione conquistata davanti all'opinione nazionale italiana; rinuncia temporanea a nuove iniziative, sconsigliate dalla generale reazione europea. Dopo i moti mazziniani di Milano del 1853 e il sequestro dei beni degli emigrati lombardi in Piemonte da parte dei governo austriaco, le relazioni diplomatiche tra i due stati entrarono in crisi. In tale situazione intervenne la crisi d'Oriente e la richiesta di un intervento piemontese da parte di Francia e Inghilterra contro l'Impero russo, a cui Vittorio Emanuele II intendeva aderire nella speranza di ottenere guadagni di prestigio e di territorio in Italia. Nonostante le resistenze dei colleghi di gabinetto, che avrebbero voluto precise garanzie anti-austriache, Cavour decise di entrare senza riserve nell’alleanza franco-inglese (10-1-1855).
Il ministro degli Esteri Dabormida si dimise e Cavour lo sostituì provvisoriamente. Il trattato fu approvato dal Parlamento nel febbraio, tra vivaci opposizioni della destra e della sinistra, soprattutto per l’incomprensibile impegno militare in una guerra in cui era evidente l’assenza dell’Austria come avversario naturale del Piemonte sabaudo. Il Piemonte partecipò alla guerra di Crimea con un esiguo corpo di spedizione (15.000 uomini) che prese parte solo alla battaglia della Cernaia, ma l'episodio ebbe notevole eco presso l'opinione pubblica piemontese e italiana.
A fine guerra, nel congresso apertosi il 25-11-1856 a Parigi, Cavour riuscì a ottenere che il Piemonte partecipasse ai lavori su un piano di parità con gli altri paesi. Dopo la firma del trattato, nella famosa seduta dell'8 aprile, furono discussi i problemi italiani: il rappresentante inglese Lord Clarendon formulò aspre critiche contro il malgoverno pontificio e Cavour mise in rilievo i pericoli derivanti dall'instabilità politica dei governi reazionari e dall'occupazione austriaca di territori pontifici.
L’alleanza con la Francia e la guerra contro l'Austria
Benché non si fossero raggiunti risultati concreti, come un impegno dell'Inghilterra contro l'Austria, che pure Cavour aveva cercato, il Piemonte guadagnò grande prestigio per aver aver parlato a Parigi a nome di tutta la penisola e l'opinione pubblica fu favorevolmente impressionata dal riconoscimento internazionale dell'anormalità della situazione italiana. Cavour ottenne così grande successo in parlamento che da allora le sue fortune e quelle del partito liberale furono strettamente legate alla causa nazionale. Nel 1857 le relazioni diplomatiche con l'Austria giunsero alla completa rottura, mentre si procedeva all'armamento della fortezza di Alessandria mediante pubblica sottoscrizione. Maggiore significato ebbero i contatti avviati da Cavour a partire dal 1856, con la Società Nazionale, che permisero di raccogliere intorno al governo piemontese molti patrioti delusi dalle infelici insurrezioni mazziniane di Genova e Livorno e dalla spedizione di Carlo Pisacane a Sapri ( 1857). L’attentato di Felice Orsini (4-1-1858) a Napoleone III persuase l'imperatore a interessarsi nuovamente dei problema italiano: Cavour fu così invitalo a colloquio segreto nella stazione climatica di Plombières. Il 21 luglio, in due incontri, furono fissate le direttive future: provocazione di una guerra in cui l'Austria doveva apparire aggressore; costituzione di un regno dell'Alta Italia sotto Vittorio Emanuele e di un regno dell'Italia centrale sotto un sovrano da designare; riduzione dello stato Pontificio al patrimonio di San Pietro ed eventuale passaggio del regno di Napoli a Luciano Murat; cessione di Savoia e Nizza alla Francia; matrimonio della principessa Clotilde di Savoia con il principe Girolamo Napoleone. Il 26 - 28 gennaio 1859 venne firmato il trattato segreto di alleanza con la Francia, ma il progetto di Cavour di giungere a una guerra sembrò vacillare per le iniziative di Inghilterra e Russia dirette a risolvere in forma diplomatica la questione italiana; i tentennamenti della Francia e la proposta di un disarmo generale scoraggiarono ulteriormente il conte.
Ma il 21 aprile l'Austria inviò un ultimaturn al Piemonte con la richiesta di disarmo e il 28 aprile dichiarò guerra. figurando come come aggressore. Cavour, che oltre al ministero degli interni e degli esteri aveva assunto il portafoglio della guerra, dispiegò anche in questo settore un'attività prodigiosa. Ai successi militari in Lombardia nella cosiddetta Seconda Guerra d’Indipendenza ( Magenta, Solferino e S.Martino ), si aggiunse il rovesciamento dei governi dell'ltalia centrale a opera di forze moderate legate all'iniziativa cavouriana. L'armistizio di Viliafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe (8-11 luglio 1859 ), concluso all'insaputa dei piemontesi, infranse il disegno di Cavour. La Francia ottenne per il Piemonte la Lombardia, ma Cavour, dopo aver cercato di persuadere il re a proseguire la guerra, si dimise.
..Le dimissioni. Il ritorno al governo. La spedizione dei Mille.
Durante il nuovo ministero La Marmora - Rattazzi, Cavour rimase ai margini dell'attività politica ufficiale, ma la volontà di annessione dei governi dell'Italia centrale mise Vittorio Emanuele II in una difficile posizione diplomatica e Cavour, che agli occhi dei liberali moderati impersonava la causa razionale, fu richiamato aI potere (21-1-1860). Nel marzo 1860 i plebisciti in Emilia e Toscana proclamavano l'annessione al Piemonte, mentre l'accordo del 24 marzo 1860 stabilì la cessione di Nizza e Savoia alla Francia sollevando aspre critiche della destra e della sinistra. La popolarìtà di Cavour era uscita logorata da questa vicenda. E ciò influì sull’atteggiamento del governo nei confronti della spedizione dei Mille, Sulle prime Cavour conservò un atteggiamento di attesa autorizzando l'invio di armi, e non di uomini, ma dopo i primi successi garibaldini l'appoggio divenne più aperto. Tuttavia le cautele cavouriane persistono e si esprimono chiaramente nel timore di un esito della spedizione meridionale estraneo al controllo savoiardo, che conceda troppo potere alle forze democratiche. Nell'estate 1860 Cavour commise l'errore di insistere per l'annessione immediata della Sicilia al Piemonte, che avrebbe reso impossibile il compimento dell'impresa meridionale, anche se la sua posizione era motivata appunto dal timore del pericolo repubblicano e dell'esautoramento della monarchia.
Mentre Garibaldi scriveva al re l'11 settembre chiedendo le dimissioni di Cavour, questi mise in atto la sua decisione più rilevante: la spedizione piemontese nelle Marche e nell'Umbria, con l'assenso di Napoleone III, al fine di restituire l'iniziativa al partito moderato e alla monarchia. Dispersi i pontifici a Castelfidardo (18 settembre 1860), le truppe regie entrarono nel regno di Napoli e il 23 ottobre, nei pressi di Teano, Garibaldi consegnò il potere a Vittorio Emanuele Il. Un plebiscito sancì l'annessione dei Mezzogiorno al Piemonte. Poco dopo furono effettuate le elezioni per il primo parlamento nazionale italiano che si riunì a Torino il 18 novembre 1861: e su proposta di Cavour, votata dal parlamento il 28 febbraio e il 14 marzo, venne proclamato il Regno d'Italia (il 17 marzo 1861).
La questione romana. La morte.
Restavano ancora le questioni di Venezia e, soprattutto, di Roma. Le trattative avviate per un accordo con il pontefice fallirono. Il 27 marzo 1861 Cavour enunciò solennemente alla camera il principio separatista della «Libera Chiesa in libero Stato» e a conclusione della seduta Roma venne proclamata capitale “acclamata dall'opinione pubblica nazionale”. Il 18 aprile Garibaldi, intervenuto in parlamento, attaccò violentemente Cavour accusandolo di aver ostacolato la spedizione dei Mille; lo scontro venne superato formalmente per l’intervento del re. Proseguiva intanto il lavoro di organizzazione del nuovo regno, ma la sera dei 29 maggio Cavour fu assalito da febbri malariche che, malamente curate, lo condussero alla morte il mattino del 6 giugno 1861, a meno di 51 anni di età.











sabato 20 agosto 2011

Giuseppe Verdi: un mito italiano

Durante la vita di Verdi, che abbraccia poco meno di un secolo, l’Italia si trasformò, da paese sotto il dominio straniero a quello di uno stato unificato indipendente, desideroso di far parte delle grandi potenze europee. Verdi si sentì sempre partecipe di questo processo e mai si rinchiuse in un’arte d’élite, distante dai problemi della realtà della sua epoca. Al compositore sorgeva la necessità di intraprendere un dialogo con il presente e con l’attualità storica. Scrissero di lui: “Diede una voce alla speranza e ai lutti. Pianse e amò per tutti”. La sua arte si può considerare popolare, nel significato più alto della parola, nella misura in cui si parla al fruitore in un linguaggio che egli può comprendere immediatamente. Un linguaggio che, spesso, si presenta sotto forma di dramma, in perfetta sintonia con i grandi ideali del momento. Il Risorgimento, con le sue lotte per l’unificazione d’Italia, non poteva essere per il compositore indifferente; infatti va considerato come l’humus dove s’immergono le radici del Nabucco, dei Lombardi, di Attila e di Macbeth, ovvero di quelle pagine corali dove Verdi esprime il suo sincero amore patriottico e il suo dolore per un popolo oppresso e soggiogato. D’altra parte venne presto avvicinato dagli intellettuali lombardi più importanti in quel momento, che mai nascosero i loro sentimenti antiaustriaci. Questo non vuol dire che Verdi abbia partecipato attivamente alla vita politica, anche se aveva idee fortemente repubblicane; solo dopo l’incontro con il Cavour venne indotto ad aderire al progetto di unificazione d’Italia sotto la guida dei re della casa dei Savoia.

L’unico momento in cui Verdi manifesta senza indugi i suoi ideali patriottici è nel 1848, quando la libertà dell’Italia sembra essere molto vicina.
Sono indicative le parole che scrive al suo amico Piave il 21 aprile 1848 “L’ora della liberazione è arrivata, capacitatene.
E’ il popolo che la desidera; e quando il popolo la vuole, non vi è nessun potere assoluto che può opporre resistenza! Potranno impedire con tutto quello che possono, coloro che credono che sia necessaria la forza, però non riusciranno più a privare il popolo dei propri diritti. Sì, in pochi anni, forse mesi, l’Italia sarà libera, sarà una Repubblica”. In questo clima il compositore accetta l’invito di Mazzini, che conoscerà a Londra nel 1847, a comporre un inno con i versi di Goffredo Mameli, “Suona la tromba”. In seguito scrive un’opera con un messaggio politico evidente, “La battaglia di Legnano”, dove l’espulsione di Federico Barbarossa simboleggia la cacciata, da parte degli italiani, degli stranieri dal paese. Quando però i movimenti rivoluzionari del 1848 sfociano in un bagno di sangue , Verdi si allontanerà dalla linea di battaglia e tornerà ad essere, prima di tutto, un compositore che continua a sperare in privato nella libertà nazionale.
Il suo nome rimane comunque vincolato agli ideali del Risorgimento, trasformandosi in un acrostico rivoluzionario che venne dipinto, per la prima volta, sulle mura di Roma, all’epoca del “Un ballo in maschera”. L’idea si diffonderà rapidamente per tutto il paese, che era sottoposto ad un clima di controllo politico molto duro e asfissiante.
Viva V.E.R.D.I.
Il graffito “Viva Verdi”, dall’aspetto così innocuo, alludeva in realtà, a un’aspirazione che con gli anni stava diventando sempre più popolare e condivisa: “Viva V[ittorio] E[manuele] R[e] DI[talia]”, ovvero, Viva Vittorio Emanuele re d’Italia! Lo stesso Verdi finisce per aderire a questo progetto quando capisce che l’unità del paese si poteva concretizzare non attraverso l’insurrezione popolare e l’utopia repubblicana di Mazzini, ma esclusivamente mediante il paziente lavoro diplomatico, che si andava realizzando in nome della casa dei Savoia, la quale aveva la possibilità di ottenere l’appoggio delle cancellerie dei paesi più importanti d’Europa.
Tuttavia, le alchimie politiche sono estranee alla personalità di Verdi, come si deduce dal fatto che, quando si concretizza l’unità d’Italia, il musicista entra in Parlamento soltanto per cinque anni, dal 1861 al 1865. Successivamente, lascia da parte questa attività con la convinzione di essere più utile al suo paese come artista che come deputato. Il suo impegno politico, dopo l’unità, si trasforma in un fermo richiamo agli ideali di pace e di fraternità, a un livello superiore, distante da ogni compromesso e dalle strategie machiavelliche dei partiti politici.





Marzo 1821

Commento a Marzo 1821 di Alessandro Manzoni

Nella poesia Marzo 1821 Alessandro Manzoni esprime i suoi sentimenti contrari alla dipendenza degli italiani da popoli stranieri. Il Risorgimento è l'epoca in cui il popolo italiano prende coscienza di poter diventare un unico stato che può riprendersi la sua terra e cacciare oltre i confini tutti gli stranieri che hanno oppresso le genti. Manzoni sottolinea il fatto che tutta l'Italia, da nord a sud, é pronta alla lotta contro chi calpesta il suolo italiano. Ogni italiano vuole la libertà dalla lunga schiavitù degli stranieri ed pronto, per la sua patria, a combattere e persino a morire.
Essere un patriota vuol dire avere l'orgoglio della propria terra, combattere per lei, morire per lei, sacrificare la propria vita per un futuro migliore. Manzoni pensa che si sta avvicinando il giorno del riscatto, della rivincita. Sarà un giorno felice perché gli italiani potranno essere liberi sotto la bandiera tricolore, termineranno le prepotenze degli stranieri e la cultura e la lingua italiana trionferanno. Saranno giorni tristissimi, invece, per coloro che per vigliaccheria e paura non hanno partecipato a questa lotta di liberazione: quando racconteranno ai loro figli la lotta per la patria dovranno dire loro dispiaciuti: “Io non c'ero” suscitando vergogna e disprezzo.
In questa ode che Manzoni pubblica nel 1848 il poeta vuole esortare gli italiani ad essere uniti e a combattere per i loro ideali.
Manzoni aveva già parlato dell'oppressione del popolo italiano nel suo romanzo: “I promessi sposi” ambientato nel ‘600 quando il Nord Italia era invaso dagli Spagnoli. Descrivendo la prepotenza di Don Rodrigo, Manzoni crea un parallelo con l'epoca in cui scrive, l'800, secolo in cui la Lombardia era dominata dall'impero austriaco.
Nella stessa epoca il compositore Giuseppe Verdi musicando l'opera “Il Nabucco ” parla della voglia di libertà degli ebrei oppressi dai Babilonesi.
Nel 1873, Verdi rimase molto impressionato dalla morte del compatriota Alessandro Manzoni, come Verdi, si era impegnato per l'unità di Italia avvenuta pochi anni prima, e condivideva dunque con lui i valori tipici del Risorgimento , di giustizia e libertà. La sua morte gli fornì dunque l'occasione per realizzare la Messa da Requiem.
Il requiem, che Verdi offrì alla città di Milano , fu eseguito in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874 , nella Chiesa di San Marco sempre a Milano. Il successo fu enorme e la fama della composizione superò presto i confini nazionali.











giovedì 18 agosto 2011

Garibaldi: L'eroe dei due mondi


Quando si desidera approfondire una figura assurta a mito, come lo è quella di Garibaldi, non è cosa semplice. La Storia ne ha diverse di queste figure, il cui profilo viene “mitizzato” dagli storici che, facendolo, perdono il ruolo al quale sono preposti, che è quello innanzi tutto di riportare i fatti; fornendo sì, poi, le loro interpretazioni ma permettendo nello stesso tempo al lettore, sugli stessi fatti, di elaborarne di proprie.

Garibaldi, dicevamo, è una di queste figure che la Storia ha innalzato ai massimi vertici, ma di cui si conosce ben poco.
Chi non conosce l’epiteto “L’eroe dei due mondi” a lui riconosciuto? Ma quanti, in realtà, conoscono il perché? Per le sue azioni in Italia qualcosa noi italiani sappiamo, ma … a molti manca almeno uno dei due mondi. Prima di approfondire quello italico, sarebbe interessante iniziare a comprendere questa figura storica anche per le sue azioni nell’altro, così da poter meglio comprendere ciò che nella sua “eroica” esistenza egli abbia fatto.
Personalmente ritengo sia molto difficile giudicare un personaggio storico come eroe. O ,meglio, è opinabile: la valutazione cambia a seconda dell’angolo visuale da cui ci si pone. Per molti musulmani Osama Bin Laden è un eroe, per il mondo occidentale un terrorista ed un criminale. E’ quindi giusto e doveroso, per meglio comprendere un personaggio storico, capire le sue azioni che scopo avevano, che costo hanno comportato, con quali mezzi e con chi al fianco.
Quest’uomo (sembra già offensivo chiamarlo semplicemente così, tanto è radicata la convinzione impostaci del suo essere “eroe” dall’attuale storiografia) nasce a Nizza il 4 luglio 1807 e muore a Caprera il 2 giugno del 1882. Ripercorriamo insieme le tappe della sua vita.
1807-1835
Figlio di Domenico, capitano di cabotaggio, e Rosa Raimondi. I genitori avrebbero voluto far studiare il figlio per avviarlo a diversa carriera da quella di marinaio, ma Giuseppe mostrò fin da subito la sua vocazione marinara riuscendo a convincere la famiglia a farlo iscrivere nel registro dei mozzi nel 1821, all’età di 14 anni. Nel 1824 si imbarcò, per il suo primo viaggio, sulla nave “Costanza” spingendosi fino ad Odessa. Intraprese così, sempre come marinaio, diversi viaggi nel Mediterraneo. Ebbe allora modo di incontrare rivoluzionari e cospiratori che spesso, per sfuggire alle pene per loro previste dai governi europei, si imbarcavano su navi mercantili, e ne rimase fortemente influenzato. La storia dice che incontrò Mazzini nel 1833 a Londra (dove quest’ultimo era in esilio protetto dalla massoneria inglese) ed affascinato dalle sue idee, si affiliò alla setta segreta “Giovine Italia” fondata dallo stesso Mazzini. La setta aveva come scopo di trasformare l’Italia in una repubblica democratica unitaria.
Primo punto da approfondire: come operavano le sette segrete? Esse avevano come tattica principale l’attivazione di episodi di rivolta, sempre o quasi velleitarie ed irrealizzabili, per provocare la reazione dei governi e convincere, in tal modo, la popolazione che questo avveniva a causa dell’oppressione dei sovrani. Questo era il “modus operandi” delle sette: in Italia o in qualunque altro Stato che non si uniformasse alle loro mire.
Garibaldi si arruolò perciò nella marina piemontese, per sobillare e per propagandare la setta tra i marinai savoiardi.
Si era stabilito che l’11 febbraio 1834 ci sarebbe stata un’insurrezione popolare in Piemonte, favorita da un intervento militare esterno con un centinaio di rivoltosi, mentre a Genova Garibaldi aveva avuto il compito di far insorgere la città ed occuparne il porto. Era azione velleitaria ed inconsistente: fallita la sommossa, Garibaldi fuggì alla cattura in Francia, venendo condannato a morte in contumacia come: “bandito di primo catalogo” dai Savoia.
Arrivato in Francia, Garibaldi s’imbarcò sul brigantino mercantile Union, diretto prima verso Odessa poi verso Tunisi. Qui si imbarcò come marinaio nella flotta piratesca di Hussein Bey, signore di Tunisi.
A quel tempo, nel 1834, nella reggenza di Tunisi vivevano circa 8000 europei, di cui un terzo di loro italiani. La gran parte di loro erano sfuggiti a pene per reati di vario tipo, e tra queste la cospirazione sovversiva. La Carboneria, altra setta segreta, stava perdendo terreno ovunque (così anche a Tunisi) a favore della “Giovane Italia”.
1835-1851
A settembre del 1835, all’età di 28 anni, Garibaldi, tornato a Marsiglia, si imbarcò verso Rio de Janeiro.
Bisogna dire che il Brasile era allora considerato una specie di Eldorado dagli emigranti piemontesi e delle altre province del Nord (eh sì, all’epoca era dal Nord Italia che si emigrava) che in patria non trovavano lavoro. Basti pensare che ogni anno un milione di emigranti raggiungevano le terre sudamericane.
Garibaldi, iscrittosi alla sezione locale della “Giovane Italia” di Rio, trovò un lavoro interessante: fare il corsaro imitando i grandi pirati del passato, assaltando navi e saccheggiando. E qui c’è il grande intuito di Garibaldi: capì che per vincere doveva allearsi con il più forte; ed in quell’area l’Inghilterra era il migliore alleato potesse trovare.
Agli inizi dell’estate del 1836, Garibaldi, accusato dalle autorità di Rio de Janeiro di loschi traffici, ricevette l’ordine di espulsione dal Brasile. Rubò una barca dal porto, e con altri suoi complici si diede apertamente alla pirateria. Braccato dalla Marina brasiliana, si rifugiò nella provincia di Rio Grande presso Bento Gonçalves, capo della rivolta contro la monarchia del Brasile.
Decise così di dare il suo sostegno alla nascente Repubblica di Rio grande del sud, ribellatasi all’imperatore del Brasile, che gli conferì brevetto di corso, e di “pirateggiare” legalmente.
Nel 1837, Garibaldi mise in mare un peschereccio da 20 tonnellate (lo chiamò Mazzini) e successivamente, con altre navi cattoliche-ispaniche catturate , si diede a scorrerie e saccheggi sul Rio Grande e nei villaggi rivieraschi, protetto dagli inglesi i quali ottenevano il loro scopo di assicurarsi il monopolio commerciale nell’area. Nell’agosto, Garibaldi, sfuggito alla cattura riparò in Argentina.
Nel 1838 si diresse prima a Montevideo e poi di nuovo nel Rio Grande, dove i ribelli di Bento gli affidarono due navi. Assoldati delinquenti prezzolati, nei pressi della laguna di Dos Patos, assaliva navi mercantili isolate, uccidendo gli inermi marinai delle navi catturate. Molte volte, con i suoi uomini, assaliva anche villaggi costieri, razziando, depredando, e violentando le donne.
Nel 1839, avvenne il salto di qualità per Garibaldi. Quell’anno la Cina decretò il divieto d’importazione dell’oppio da parte della compagnia inglese delle Indie Orientali, dato lo stato miserevole della popolazione cinese indotta all’uso dell’oppio dagli inglesi, che avevano lo scopo di ricavarne ricchezza e potere. Un funzionario cinese requisì e fece distruggere oltre 2000 casse di droga appartenente ai mercanti britannici.
Lord Palmerston, Gran Maestro della Massoneria e ministro degli esteri inglese , poiché il commercio della droga, per i suoi enormi profitti, era di fondamentale importanza per l’imperialismo inglese, ordinò di far sbarcare dei marinai inglesi dalla flotta che era nei pressi di Honk Kong, con il compito di provocare una rissa. Fingendosi ubriachi uccisero un cinese, ed il capitano inglese Elliot, alla richiesta delle autorità di consegnare il colpevole, si rifiutò e con ciò ricevendo l’intimazione di abbandonare con la sua flotta le coste cinesi. Ovviamente era una strategia ben studiata: la flotta inglese si rifiutò di lasciare le coste, attendendo l’arrivo delle modeste navi cinesi per affondarle. Gli inglesi avevano raggiunto il loro scopo: minacciarono la Cina e la costrinsero ad accettare la libera importazione dell’oppio nonché di pagare all’Inghilterra un’enorme indennità di guerra.
Hong Kong fu occupata dalle truppe inglesi, ed in seguito fu ceduta in “affitto” alla corona inglese col trattato di Nanchino del 1842, divenendo la capitale mondiale della droga sotto la protezione del governo inglese.Questo paese e questo governo era alleato di Garibaldi che, come vedremo in seguito, andrà in Cina per i suoi traffici.Garibaldi grazie ai suoi trascorsi – come marinaio della marina sarda prima, poi di marina mercantile a Marsiglia, in Tunisia come mercenario, come corsaro in Brasile dalla parte del movimento insurrezionale della provincia di Rio Grande – si vide riconosciuto il grado di colonnello dell’esercito uruguaiano e di capo della seconda divisione delle squadra Orientale.
L’armata argentina, guidata dall’ammiraglio Guillermo Brown, nella famosa battaglia della Costa Brava del 15 e 16 agosto 1842, distrusse quella uruguaiana costringendo Garibaldi alla fuga.
Questi, alla fine di agosto di quell’anno, conobbe in Uruguay Anita, che lo seguirà nelle sue “avventure” fino alla sua morte.
Alla fine dell’anno, una squadra navale brasiliana riuscì ad intercettare e distruggere le navi corsare di Garibaldi, che assieme ad Anita ed a pochi altri, si rifugiò ancora presso Bento. Insieme a lui, che nel 1840 aveva costituito un folto gruppo di banditi, si diede ancora a compiere rapine e razzie di ogni genere. Il 16 novembre Anita partorì da lui Menotti.
Dopo l’estate del 1841 si separò da Bento con 900 bovini razziati nelle campagne, e si diresse verso l’Uruguay. Arrivò lì con solo 300 pelli. Senza denaro ed inadatto a lavorare, fu aiutato da Anita che per l’occasione fu costretta a fare la lavandaia.
Intanto, era scoppiata la guerra tra Argentina ed Uruguay. Nel gennaio del 1842 gli fu affidato dal diplomatico inglese William Gore Ouseley, il comando di alcune navi, con le quali costituì una grossa banda, quasi tutt’italiana. Come uniforme scelse una camicia rossa, il cui tessuto – inizialmente destinato agli operai argentini addetti alla macellazione delle carni, e di colore rosso per mascherare le macchie di sangue della macellazione – fu acquistato in saldi, in quanto rimasto invenduto p sopravvenuta guerra tra Argentina ed Uruguay . La banda era per lo più dedita alle rapine e ad atti di violenza, a cui spesso partecipava lo stesso Garibaldi; tanto che dopo l’ennesima rapina in casa di un brasiliano, venne destituito ed imprigionato.
Questa gente veniva assoldata come mercenaria nella guerra che allora vedeva l’impero inglese, oltre a quello francese e degli Stati Uniti, uniti all’Uruguay a sostegno della “libera navigazione dei fiumi”, eufemismo utilizzato per sottoporre il commercio argentino agli interessi degli imperialisti. L’Argentina aveva un governo proprio dal 25 maggio 1810 a seguito dell’indipendenza dalla Spagna.
Tra gli italiani con lui vi erano anche dei tipografi settari che pensarono di stampare un giornale: “Il legionario italiano”, sul quale si inventarono di sana pianta episodi di eroismo sul comportamento degli italiani in quella guerra, in maniera da attenuare la forte ostilità dei cittadini uruguayani verso le camicie rosse. Quel giornale fu fatto uscire dai confini dell’Uruguay e, con la complicità dei settari, tradotto in molte lingue; tanto che, riportata da altri giornali, nacque la leggenda degli “eroici” legionari italiani. In Uruguay, Garibaldi si batteva per assicurare ancora una volta il monopolio commerciale britannico. Nel 1844, dopo la già detta iscrizione alla Giovine Italia, inizia la sua vera carriera di massone, iscrivendosi prima alla massoneria universale nella loggia irregolare “L’asilo della virtù”. Si regolarizzò poi, iscrivendosi a Montevideo alla loggia regolare “Gli amici della Patria”, loggia dipendente dal Grande Oriente di Francia.
Garibaldi, nelle sue memorie autografe , certamente non si fa scrupolo nel descrivere come criminali gli uomini che compongono il suo “esercito”. Egli stesso scrive nelle sue “Memorie”:
“marinai avventurieri conosciuti sulle coste americane dell’Atlantico e del Pacifico sotto il nome di “Frères de la cote”, classe che aveva fornito certamente gli equipaggi dei filibustieri, dei bucanieri, e che oggi ancora dava il suo contingente alla tratta dei neri”
oppure
” quasi tutti disertori da bastimenti di guerra. E questi, devo confessarlo, erano i meno discoli. Circa gli americani tutti quanti, quasi, erano stati cacciati dall’esercito di terra per misfatti e massime per omicidio. Dimodochè essi erano veri cavalli sfrenati.”
In Italia, nel frattempo, si osannavano le imprese banditesche del pirata nizzardo offendendo la storia e la dignità delle nazioni sudamericane.
Il Pais, giornale che vende 300.000 copie giornaliere si è così espresso nel numero del 27 luglio 1995, in occasione di una visita di Scalfaro, allora Presidente della Repubblica italiana:
“Il presidente d’Italia è stato nostro illustre visitante … disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di voler riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota (Garibaldi) non ha lottato per la libertà di queste nazioni come (Scalfaro) afferma. Piuttosto il contrario.”
Il 24 ottobre la Francia costrinse il governo cinese ad un nuovo trattato commerciale con cui anche i francesi potevano vendere oppio ai cinesi. Eliminata la sovranità cinese, Inghilterra, Stati Uniti e Francia poterono così vendere liberamente ogni prodotto in quel mercato.
Il 20 novembre 1847 la flotta anglo-francese sconfisse quella argentina, ponendo fine alla guerra tra Uruguay ed Argentina.
Intanto la leggenda di Garibaldi gonfiata oltre misura, convinse Mazzini ad invitarlo in Italia dove riteneva che “i tempi dell’azione erano ormai maturi”.
La mossa dei massoni in Italia fu quella di spingere alcuni affiliati duosiciliani, La Farina e La Masa, a sbarcare a Palermo il 3 gennaio 1848, dove era stato loro detto essersi costituito un inesistente comitato rivoluzionario. Lì operavano altri massoni, tra questi Rosolino Pilo e Francesco Bagnasco, che al loro arrivo mobilitarono i seguaci per iniziare la rivolta. Per avere l’appoggio delle popolazioni convinsero il principe Ruggero Settimo a porsi a capo della rivolta per l’indipendenza della Sicilia. L’indecisione del principe fu conquistata grazie all’appoggio della flotta inglese nel porto di Palermo. I rivoltosi, certi che il comandante borbonico, il massone De Majo, avrebbe opposto una resistenza simbolica, insorsero il 12 gennaio.
Intanto, Lord Palmerston, capo del governo inglese, suggeriva al governo napoletano di riconoscere l’indipendenza della Sicilia. Gli inglesi, infatti, ambivano da tempo di appropriarsi della Sicilia sia per contrastare la Francia nel Mediterraneo (dopo l’occupazione francese di Algeri) sia per le immense miniere di zolfo presenti sull’isola.
Il 15 marzo 1848 Garibaldi, chiamato da Mazzini, partì da Montevideo con 150 uomini sulla nave Speranza, ed il 24 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria dando inizio alla Prima guerra d’indipendenza. Nonostante il volere contrario di Carlo Alberto, alle varie battaglie avevano tentato di partecipare anche i volontari di Garibaldi; ma i più, vista la cattiva parata della guerra, incominciarono a disertare, mentre quelli rimasti, insieme a Garibaldi, travestito da contadino, riuscirono a giungere in Svizzera dove il sempre prudente Mazzini si era rifugiato.
A queste vicende non vi fu alcuna partecipazione popolare, anzi le masse erano per lo più favorevoli agli Austriaci. Garibaldi descrive così gli uomini che gli erano stati affidati, sempre nelle sue Memorie:
“ … gente che aveva disertato od era stata fisicamente inabile al servizio militare presso gli eserciti sardo o lombardo; e per quanto non fossero veri e propri criminali, come i marinai montevideani, al fuoco si mostrarono meno coraggiosi e meno fidati di questi”.
Intanto, il 5 febbraio 1849 fu proclamata a Roma, dove erano affluiti i più importanti capi massoni tra cui Garibaldi e Mazzini, la repubblica romana. L’assassinio fu l’ordinario espediente della setta per contenere la popolazione col terrore. A questo governo il primo ministro inglese, lord Palmerston, dichiarò di essere pronto a portare qualsiasi aiuto.
Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto attaccò nuovamente gli austriaci che, in soli 3 giorni, sconfissero i piemontesi a Novara. Gli inglesi premettero sull’Austria affinché non invadesse il Piemonte, facendola accontentare di un’indennità di guerra considerevole. Carlo Alberto fu costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che a sua volta fu spinto a nominare Presidente dei ministri il massone Massimo d’Azeglio. Vittorio Emanuele, “il re galantuomo”, iniziò la sua carriera reprimendo nel sangue la ribellione di Genova all’opprimente dominazione piemontese, bombardando per 3 giorni la città e provocando la morte di 500 genovesi.
A quel tempo, a Roma, il papa aveva lanciato un appello a tutte le nazioni cattoliche, tranne al Piemonte, affinché fosse restaurato sul trono. Raccolsero l’appello la Francia prima, poi l’Austria, la Spagna ed il Regno delle due Sicilie.
Il generale Oudinot, a capo delle truppe francesi, ricevette l’ordine di non operare con le truppe napoletane ed austriache perché i loro governi erano considerati reazionari. Poiché Oudinot aveva deciso da solo un armistizio con la repubblica romana, tutto l’esercito repubblicano assalì quello napoletano schierato a sud, ma fu sconfitto e lo stesso Garibaldi si salvò a stento.
Il 27 maggio sbarcò a Gaeta il contingente spagnolo unendosi ad altre brigate napoletane liberatesi dopo la riconquista della Sicilia. Mentre napoletani e spagnoli liberavano i territori a sud di Roma, Oudinot entrò nella città il 3 luglio ristabilendo il potere del papa. Garibaldi così commenta, sempre nelle sue Memorie, gli uomini che lui comandava:
“gruppi di disertori scioglievansi sfrenati per le campagne e commettevano violenze d’ogni specie. … codardi nell’abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti”
Mazzini scappò a Londra, mentre Garibaldi prima a San Marino, poi Venezia e Genova. In questa fuga morì Anita.
Garibaldi riparò a Tangeri, poi in Marocco, e fu per sei mesi ospite lì dell’ambasciatore piemontese. Infine, raggiunse New York nell’agosto del 1850 dove lavorò nella fabbrica di candele di Antonio Meucci.
Si imbarcò poi per il Perù, cercando un ingaggio di capitano di mare.
1852-1854
E qui inizia la parte più ambigua e misteriosa della vita di Garibaldi. Come capitano di navi mercantili trasportava merce di vario tipo da un luogo all’altro. Nelle sue memorie ci descrive le varie operazioni, la merce trasportata, i porti toccati. Ma c’è qualche punto oscuro che merita di essere chiarito.Il 10 gennaio 1852 Garibaldi era partito con un carico di guano (sterco di uccelli utilizzato come fertilizzante) dal porto peruviano di Callao quale comandante della Carmen (il cui armatore era un ricchissimo e noto negriero, un certo Pietro Denegri, genovese che aveva lì trovato fortuna) e con destinazione la Cina.
Leggiamo insieme Garibaldi, cosa scrive sempre nelle sue Memorie:
“Il sig. Pietro Denegri mi diede il comando della Carmen, barca di 400 tonnellate, e mi preparai per un viaggio in Cina … veleggiai verso le isole di Cincia (isolotti a 100 km. A sud di Lima) ove si caricò guano, destinato per la Cina; e tornai a Callao per le ultime disposizioni del lungo viaggio. Il 10 gennaio 1852 salpai da Callao per Canton. … Giunto a Canton, il mio consegnatario mi mandò ad Amoy, non trovandosi a vendere il carico di guano nella prima piazza. Da Amoy tornai a Canton; e non essendo pronto il carico di ritorno caricai per Manilla differenti generi. Da Manilla tornai a Canton, ove si cambiarono gli alberi della Carmen, trovati guasti … Pronto il carico, lasciammo Canton per Lima.”
Garibaldi scrive: nel viaggio di andata “veleggiai verso le isole di Cincia”; e a proposito di quello di ritorno da Canton “Pronto il carico, lasciammo Canton per Lima.”
Ebbene, cosa trasportò? Non lo dice.
Il viaggio non programmato 1) da Canton ad Amoy e ritorno e 2) da Canton a Manilla e ritorno, qualche problema lo creò tra Garibaldi e l’armatore genovese. Sempre nelle sue memorie, dopo il ritorno ed in prosieguo per Boston:
“ … ricevetti una lettera, con alcuni rimproveri dal proprietario della Carmen, che mi sembrò di non meritare; e per cui lasciai il comando di detto legno …”.
Garibaldi arrivò a Genova il 10 maggio 1854 e fino a febbraio 1859 stette a Caprera “parte navigando, e parte coltivando un piccolo possesso da me acquistato”.
Lui scrive un piccolo possesso, ma in realtà acquistò mezza isola. Da dove gli provenivano tanti soldi, visto che poco prima per sopravvivere aveva lavorato nella fabbrica di candele per pochi dollari, e che il comando di due navi poteva avergli fatto guadagnare poche centinaia di dollari insufficienti per l’acquisto di mezza isola? I suoi agiografi scrivono di una misteriosa eredità, ma non forniscono nessuna prova e sorvolano sui dettagli.
Circa il carico di ritorno della Carmen da Canton, visto che Garibaldi non dice cosa fosse, ci sono varie interpretazioni.
Giorgio Candeloro, storico del risorgimento, intervistato dal giornale “La Repubblica” , dichiarò in un’intervista:
” Comunque Garibaldi, un po’ avventuriero, un po’ uomo d’azione, non era tipo da lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perù; e, come capitano di mare, prende un comando per dei viaggi in Cina. All’andata trasportava guano, al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma un lavoretto un po’ da negriero. Era un avventuriero, un uomo contraddittorio fantasioso, un personaggio da romanzo”.
Bisogna ricordare che all’epoca era fiorente la tratta di schiavi (chiamati coolies) tra la Cina e l’America meridionale.
“Ufficialmente liberi emigranti, in realtà semi-schiavi costretti ad imbarcarsi con violenze e minacce, forza-lavoro venduta e commerciata come bestiame” da piegare, con la sferza e sotto buona scorta armata, nelle miniere e nei campi di ricchi fazenderos sudamericani (Guido Rampoldi, giornalista di Repubblica).
Erano venduti come “cani e maiali” sui mercati di carne umana di Cuba, Stati Uniti e Perù. Proprio in questi ultimi paesi venivano portati nelle guaneras (dove si produceva il guano) di proprietà del ricchissimo armatore genovese don Pedro Denegri, armatore della Carmen affidata a Garibaldi.
In sostanza, Candeloro dava per scontato che Garibaldi trasportasse coolies.
Il già citato Rampoldi riporta una frase pronunciata dall’armatore Denegri e ripetuta in una biografia apologetica di Garibaldi scritta nel 1882 dal suo amico fraterno A.V. Vecchj, definendola: ”La sua voleva essere una lode. Ma una di quelle lodi che affossano un uomo.”
Leggiamola insieme:
“Garibaldi m’ha sempre portato i “chinesi” nel numero imbarcati e tutti grassi ed in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie”.
Questa frase è citata dal Vecchj in esaltazione di Garibaldi, e bisogna anche aver presente che il Vecchj era un suo fraterno compagno.
Si schiera contro questa tesi di Garibaldi negriero un certo Phillip K. Cowie. Egli, vorrebbe smontare questa teoria non dimostrando l’inconsistenza dell’eventuale calunnia, ma opponendo un banale malinteso linguistico. Infatti Cowie sostiene che “chinese” nello spagnolo ufficiale significa cinese, mentre in Perù significherebbe meticcio in quanto figlio di nero e di donna indiana, i quali meticci all’epoca erano per lo più coloni. Perciò, si tratterebbe di un errore di traduzione, e “chinesi” non sta per schiavi bensì per coloni.
Il Vecchj, conobbe il Denegri in Perù presentandosi con una raccomandazione dello stesso Garibaldi . E fu durante una tavolata amichevole che ricevette quella confidenza dal Denegri, il già detto armatore fazenderos negriero e genovese. Il Vecchj non conosceva il castigliano eppure, secondo quella teoria del Cowie, il genovese Denegri avrebbe dovuto parlare con lui in dialetto peruviano. Bisogna ancora sottolineare che il Vecchj mai smentì quella frase di Denegri.
Ebbene in dialetto peruviano “chinese” significa altrettanto cinese, mentre per definire un meticcio si usava, allora come oggi, il termine zambo.
Cowie afferma ancora che Garibaldi non avrebbe precisato il carico trasportato nel viaggio di ritorno da Canton perché “era stato un cargo come tutti gli altri; niente di particolare”.
Strano, perché Garibaldi era stato precisissimo nel descrivere gli altri viaggi, tappa per tappa. Ed è altrettanto preciso per il viaggio dalle isole di Cincia a Canton, laddove precisa che ha trasportato guano. E’ solo per l’andata alle Cincia e per il ritorno da Canton a Lima che non ne parla.
Garibaldi ottenne il comando della Carmen il 15 ottobre, ma la partenza ci fu il 10 di gennaio. In questi tre mesi cosa fece? La distanza dalle Cincia a Callao è di circa 100 km. A meno che non si pensi che si pagassero i marinai per prendersi la tintarella al sole, c’è da pensare che Garibaldi abbia fatto la spola tra Callao e le isole Cincia. E cosa avrebbe trasportato se non i coolies, los chinos, cioè i poveri disgraziati che venivano rapiti e deportati dalle coste della Cina?
Come è stato detto a quei disgraziati schiavi gialli fu dato il nome di coolies. La tratta iniziò circa nel 1847, prima dal porto di Macao e poi anche da quello di Canton. Venivano portati a Cuba o a Callao in Perù, dove la maggior parte di loro era poi trasferita nelle Islas de Chincha.
In Cina c’erano sensali o pirati che provvedevano ad accatastarli in misere baracche o scambiati direttamente in mare dai pirati. I tentativi di fuga venivano domati con la frusta, le torture o con la morte. Molti morivano per epidemie o suicidi.
Riporto Pino Fortini, uno storico che fece uno studio molto accurato sull’argomento nel suo libro “Audacie sui mari. Ardimenti di navigatori, avventure di pirati e di trafficanti di carne umana” (anno 1940):“Gradatamente, all’arrivo delle navi-trasporto, la massa dei coolies era avviata verso i luoghi di destinazione fra cui tetramente famose le Chinchas, tre isolotti a sud di Callao fra il 14° e 13° grado lat. Sud … Fu in quel torno di tempo (1850) che nelle Chinchas cominciarono a penare i cinesi; senza pausa, senza sosta, nudi sino alla cintola nella tormenta del polverone. E la pena veniva resa ancor piú grave dall’ingordigia degli imprenditori. Don Domingo Elias, difatti, appaltatore del governo peruviano, riceveva quattro scellini e mezzo per tonnellata di guano, ma egli subappaltava il suo contratto a capiciurma senza scrupoli, che comprimevano le spese vive sino a ridurle sui tre scellini a tonnellata. Questo margine era raggiunto forzando senza pietà i cinesi a dare il massimo rendimento fino ai limiti estremi delle forze; costringendoli con la frusta a zappare un quantitativo non minore di sei-otto tonnellate per ciascuno al giorno. In compenso i viveri erano insufficienti e spesso avariati; gli alloggi sordidi, mentre l’alcole correva a fiumi. E quasi ciò non bastasse, la disciplina era affidata ad un ufficiale peruviano di severità proverbiale. Il pontone ove egli alloggiava portava, di consueto, alle gru o ai pennoni, dall’alba al tramonto un grappolo di otto o dieci coolies, sospesi per la cintola, lasciati sotto il sole tropicale privi di acqua e di cibo. Ma non mancavano torture anche piú sadiche; una di esse, ad esempio, era costituita da una vecchia chiatta che faceva acqua, e nella quale il punito, incatenato, doveva disperatamente aggottare (cioè rigettare l’acqua in mare con la gottazza, una specie di cucchiaia di legno di circa 30 cm, con manico corto, ndr) per non farsi trascinare al fondo. Un altro supplizio era quello di mettere il colpevole su di una boa spazzata continuamente dal mare; si esauriva naturalmente il disgraziato nel tentativo di mantenervisi aggrappato”.
Uno studioso americano, Basil Lubbock, nel suo libro “Coolies ships and oil sailors”, Boston, 1935, citato da P. Fortini, ibidem, pag. 120, ecco che cosa riferisce circa l’inferno delle Chinchas: “Le crudeltà delle Chinchas sono appena credibili e pochissimi cinesi riuscivano a sopravvivere piú di qualche mese …; chi non si suicidava in un modo o nell’altro, periva per il lavoro eccessivo, il polverone respirato, la deficienza di cibo adatto”.

Ancora dal dettagliato e macabro racconto di Fortini: “Ma per arrivare a questo … placido sito o nelle piantagioni, il coolie doveva passare attraverso un altro inferno, quello del trasporto marittimo… Una nave trasporto-coolies era identificata da lontano “per lo spaventoso puzzo che emanava”… Per meglio domare le possibili rivolte, l’interponte delle navi-coolies veniva di regola ripartito stabilmente in parecchi compartimenti mediante robuste sbarre metalliche … due cannoni a poppa, sempre carichi a mitraglia in posizione tale da dominare il ponte; pochi metri piú avanti un’altra barricata, alta sino a tre metri, da murata a murata, cosí spessa da arrestare una pallottola. E sulla barricata come sugli spalti delle antiche città, sentinelle armate; tutto l’equipaggio del resto era costantemente armato. I diabolici metodi dell’ufficiale peruviano alle Chinchas e dei suoi dipendenti furono ben presto noti nel mondo a mezzo delle navi che andavano a caricare guano, cosicché, nel 1858, il “reclutamento” dei cinesi per quelle isole fu impedito dall’intervento delle grandi potenze .. Non si può non ricordare che fra tutti i capitani nostri che navigarono in questo traffico, sotto bandiera italiana (??) o peruviana, uno si distinse di mille cubiti per l’umanità sua; un capitano dalla rossa cappelliera: … Giuseppe Garibaldi”.
Il quale venne, vide … chiuse gli occhi su quella terrificante tragedia umana e ci mangiò sopra, perché quelli erano tempi in cui la coscienza, la cultura bianca accettava come normale quell’ignobile rivoltante attività.Qualche dato sul losco traffico dei coolies, sempre secondo Pino Fortini che attinse a fonti americane: su mille schiavi catturati, circa 500 perivano alla cattura per maltrattamenti, torture e sevizie varie; 125 circa nel tragitto; 75 nel periodo di acclimatamento nelle nuove terre. Sin dal 1841 le grandi potenze, Inghilterra, Francia, Austria, Russia, Prussia, stipularono un trattato che, a chiacchiere, parificava la tratta degli schiavi neri alla pirateria. Da quell’epoca cominciò a scemare la tratta dei negri dal continente africano, ma iniziò quella dei gialli, con metodi non meno brutali e bestiali. Ma solo nel 1854 il Perú abolì sulla carta, come abbiamo visto, ma con scarsissimi risultati, quel flagello in danno dei Neri, ma non del popolo cinese, in notevole anticipo sugli Stati Uniti (unionisti) d’America, che a loro volta l’abolirono con legge 1° gennaio 1863, estesa, alla fine della guerra di secessione, agli Stati della ex confederazione sudista. Tuttavia ciò che diede il colpo di grazia alla tratta degli schiavi fu l’inizio dell’esportazione dei nitrati del gran deserto salato di Tarapaca: solo allora (1884) suonò a morto la campana per il guano e di conseguenza per le guaneras. Intanto, i negrieri sguazzavano già nell’oro insanguinato … e qualcuno si era comprato mezza Caprera.
Pino Fortini in suo libro del 1950 intitolato “Garibaldi marinaio (pagine di storia marinara)” affermava “che il Vecchj è l’unico biografo, mai da nessuno smentito” che coinvolgeva Garibaldi nel losco traffico un po’ negriero.Il Cowie riferisce che esiste un libro pubblicato a Londra nel 1881, autore un certo J. T. Bent, dal titolo “Life of Giuseppe Garibaldi” in cui l’eroe avrebbe detto all’armatore che gli imponeva di completare il carico con schiavi cinesi: “Never will I become a traffiker in human flesh”, cioè “non diventerò mai trafficante di carne umana”. Già, ma come era venuta in mente al Bent l’idea provocatoria e irriverente di domandargli se era mai stato trafficante di schiavi? Come è possibile che l’ eroe dei due mondi si metta al servizio di un negriero come Denegri senza diventare negriero, connivente, a sua volta? E come mai alle Chinchas non impugnò la durlindana, se ne stette inerte e non fece nulla per liberare gli schiavi?La conclusione a cui perviene il Cowie è possibilista: “Ovviamente non si può né si deve escludere alcunché circa la testimonianza del Vecchi”, ma si contraddice immediatamente in modo lapidario: “La frase del Vecchi non è altro che il frutto di un malinteso linguistico”, malinteso che abbiamo visto essere inconsistente. Due posizioni chiaramente antagoniste.
Che il romantico eroe sia stato per un certo tempo un po’ negriero era convinzione del Candeloro, che è uno storico che ha sempre soppesato le parole. Ne parlano i preti di Hong Kong, che videro e riferirono, e che chissà perché vengono definiti retrogradi. È probabile che, se avessero bruciato incenso in favore dell’eroe e cosparso il suo cammino di fiori, sarebbero stati definiti progressisti. Il Vecchj, amico di famiglia di Garibaldi, parla esplicitamente di “chinesi” senza ombra di scandalo. E ciò è comprensibile. Per la mentalità schiavistica del secolo scorso, lo schiavismo delle etnie diverse dalla bianca non costituiva elemento di scandalo. Il caso Voltaire, il gran repubblicano, il predicatore della libertà e dell’eguaglianza e … della fraternité, insegna.
1854-1859
Tornato in Italia, Garibaldi restò a Caprera per quattro anni dedicandosi alla sua proprietà. Partecipò nel 1859 (maggio-giugno) alla seconda guerra d’indipendenza, questa volta con il consenso del re Vittorio Emanuele II, guidando i “Cacciatori delle Alpi” . In seguito alla vittoria franco-piemontese fu incaricato di controllare il confine con lo Stato della Chiesa. Andò oltre i propri compiti, attaccando con i suoi uomini ripetutamente le Marche e l’Umbria, e ciò senza il preventivo necessario consenso di Napoleone III. Per cui, fu destituito dall’incarico.
Questa è la storia di Giuseppe Garibaldi fino al 1859, dove la storiografia in auge pretende abbia conquistato il titolo di eroe per il “primo” mondo, quello sudamericano. Chi ha avuto la pazienza di leggere sino a qui mi auguro che almeno qualche dubbio gli possa essere nato. Se non quello di criminale, l’appellativo di eroe è corretto?
Ora inizia la parte finale della storia di Garibaldi, l’eroe dei due mondi: la guerra per l’unità d’Italia. Per poter comprendere meglio questa seconda parte, bisogna ricostruire la storia che è dietro “la spedizione dei mille”. Come nacque quella spedizione, chi la sostenne, come fu resa possibile?
E qui vedremo insieme quanto “eroismo” ci sia stato.
1860
Il 24 gennaio 1860 Garibaldi sta per convolare a nozze con la giovane marchesina Giuseppina Raimondi. L’antipapa per eccellenza viene raggiunto all’uscita della chiesa da un militare che gli consegna un biglietto. Garibaldi lo legge, si rabbuia in viso ed esclama: “Leggete, è vero? Signora, siete una puttana!”.
La marchesina era in attesa di un figlio ma il padre era un altro uomo, il suo ex amante. Garibaldi offeso e tradito tornò nella sua Caprera.
Nel frattempo si procedeva nell’organizzazione di ciò che già dall’anno precedente era conosciuto a molti: l’invasione di uno dei regni più antichi d’Europa, quello delle Due Sicilie.
La Storia, soprattutto nei libri scolastici dove inizia l’indottrinamento degli scolaretti, per decenni ci ha raccontato la favoletta dei Mille che, senza mezzi ed all’improvvisata, guidati da Garibaldi rubano due navi dell’armatore Rubattino per partire da Quarto alla conquista del Regno delle due Sicilie.
Nulla di più falso. Quella guerra fu pianificata in ogni dettaglio, con il sostegno di un governo straniero, quello inglese, che aveva il “nobile” intento di continuare a garantirsi il controllo del Mediterraneo dall’invadenza francese e per tutelare i suoi traffici con lo zolfo siciliano, ed il sostegno di un governo falsamente “patriottico” quale quello piemontese, che nell’annessione aveva da guadagnare ingenti ricchezze, nonchè dalla massoneria internazionale capeggiata da quella inglese.
Il capitalismo aveva la necessità di contrastare quei governi che adottavano politiche di chiusura doganale come i Borbone, e l’Inghilterra incarnava l’aspetto più violento dell’ideologia capitalistica, anche dal punto di vista militare.
Mazzini iniziò a reperire fondi in Inghilterra, contando su i suoi appoggi non solo tra i circoli repubblicani e le logge massoniche ma anche tra industriali facoltosi e politici.
Il deputato liberale inglese, William Gladstone, aveva artatamente preparato il terreno, presentando all’opinione pubblica denunce inventate di sana pianta sul sistema carcerario nel Regno delle due Sicilie, come lui stesso ammise 40 anni dopo.
Nel marzo del 1860 fu proposto a Garibaldi di capeggiare una spedizione militare in Sicilia, ma lui rifiutò in quanto riteneva non ci fossero ancora le opportune garanzie per una vittoria. Si decise, allora, e tramite Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, di raccogliere consensi ed uomini in Sicilia. Gli uomini dovevano essere pronti non solo con le mani, ma con le armi. In Sicilia i baroni, grandi latifondisti, possedevano ciascuno delle milizie formate da “maffiosi”, gente senza arte né parte, posta a difesa del latifondo contro i contadini. Pilo e Corrao conquistarono i baroni facendo intravedere loro la possibilità di una maggiore autonomia dell’isola dai “napoletani”.
Fu così che Garibaldi fu convinto della riuscita della spedizione, e fu utilizzato anche il suo nome per la raccolta dei fondi. Gli inglesi non solo sostenevano la raccolta dei soldi, ma promossero anche l’arruolamento dei volontari per la spedizione. L’ammontare finale dei fondi raccolti fu di oltre 600 milioni di lire, una cifra enorme. A cosa servì tanto denaro: non solo per la paga dei 1000 mercenari, non solo per l’acquisto delle armi, ma anche e soprattutto per corrompere i capi militari dell’esercito e della marina borbonica. E’ risaputo che molti di quei militari erano massoni, legati all’idea della fratellanza universale e molti di loro, finita la guerra di conquista, furono nominati con pari grado o superiore nell’esercito dei Savoia o furono gratificati da ricche rendite vitalizie.
Garibaldi ebbe ampie assicurazioni dal governo inglese ancora prima di iniziare la spedizione, come lui stesso confermò nei suoi discorsi pubblici in Inghilterra nel 1864: “Parlo di ciò che so, perché la regina e il governo inglese si sono stupendamente comportati verso la nostra natia Italia. Senza di essi noi subiremmo il giogo dei Borbone a Napoli; se non fosse stato per l’ammiraglio Mundy, non avrei mai potuto passare lo stretto di Messina.”
In quel periodo solo Massimo d’Azeglio era contrario ad un’aggressione armata senza una preventiva dichiarazione di guerra. Ma d’Azeglio era un romantico legalitario, al contrario di Garibaldi.
In cambio di promesse di pagamento e futuri contratti per i collegamenti marittimi con la Sardegna, l’amministratore della compagnia Rubattino di Genova mise a disposizione due piroscafi, il “Piemonte” e il “Lombardo”. Si organizzò una messinscena per fingere che fossero stati presi con la forza, e non contravvenire alle leggi. Il governo piemontese inviò sue navi da guerra in prossimità delle coste meridionali d’Italia, col pretesto di aver avuto notizia del maltrattamento di sudditi piemontesi. Quasi per caso anche le navi inglesi aumentarono di numero lungo le coste siciliane.
Il governo napoletano era consapevole di quanto stava avvenendo, ma le sue legittime proteste in sede diplomatica non vennero ascoltate. Formalmente non c’era nessun sostegno militare alla spedizione di Garibaldi.Alla partenza della spedizione, nella notte tra il 5 ed il 6 maggio, vi erano ben quattro navi da guerra duosiciliane a vigilare le coste; eppure, stranamente, persero tempo. Intanto Francesco II, su suggerimento del generale Filangieri, indicava a Castelcicala, suo luogotente con pieni poteri in Sicilia, dove occorreva concentrare l’esercito per aspettare e contrastare i mercenari garibaldini: Salemi. Luogo dove poi, effettivamente, Garibaldi proclamò la sua dittatura sull’isola.
Castelcicala, nonostante avesse una guarnigione solo a Palermo di 20.000 uomini a sua disposizione, non seguì le indicazioni che gli provenivano da Napoli, tergiversando su ulteriori rinforzi che riteneva gli fossero necessari. All’alba dell’11 maggio avvenne lo sbarco a Marsala, presidiato dalle navi inglesi, e gli sbarcati furono accompagnati dai “picciotti di maffia” del barone di Sant’Anna venuti ad accoglierli. I baroni siciliani si erano subito messi a disposizione di Garibaldi per liberarsi dai Borbone, che avevano nel passato provato a ridurre i loro poteri, e restare così padroni dell’isola.
Il 19 agosto 1860 l’ammiraglio Persano, a capo della Marina napoletana, così scrive nel suo Diario:
“La casa della Rue di Genova aprirà in Napoli, presso il banchiere De Gas, un credito illimitato a mia disposizione. E in una lettera a Cavour del 30 agosto: “Ho dovuto, eccellenza, somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti e quattromila al comitato: Mi toccò contrastare il Devincenzi, presente il marchese di Villamarina; egli chiedeva più di ventimila ducati; e io non volevo neanche dargliene tanti”.
Fu così che iniziò quella spedizione, altro che 1000 volontari improvvisati. E ciò che avvenne dopo ancora meglio chiarirà quanto nulla di eroico ci sia stato in Giuseppe Garibaldi.