/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": agosto 2013

Visualizzazioni totali

venerdì 23 agosto 2013

Carlo Troya

Napoli, 1784 – ivi, 1858
Storico. Esiliato per aver preso parte ai moti del 1820-1821, si dedicò a studi di storia medievale, iniziati con il Veltro allegorico di Dante (1825), seguito dal Veltro allegorico dei Ghibellini (1832), promossi con la fondazione a Napoli della Società Storica, che presiedette (1844-47), e culminati nella Storia d'Italia nel Medioevo (4 voll., 1839-55), nella quale si sostiene l'importanza determinante del papato nella formazione della civiltà italiana medievale. Di tendenza neoguelfa, durante la rivoluzione del 1848 collaborò al giornale "Il Tempo" e fu presidente di gabinetto.

sabato 17 agosto 2013

Porta San Pancrazio

Durante i drammatici avvenimenti della primavera e dell’inizio estate del 1849, quando le truppe francesi aggredirono militarmente la Repubblica Romana ponendo la città sotto assedio per un intero mese, Porta San Pancrazio rivestì un ruolo di primaria importanza nella difesa disperata di Roma capeggiata da Giuseppe Garibaldi.In memoria di quell’eroica resistenza, per la quale sacrificarono la propria vita uomini come Emilio Dandolo, Luciano Manara, Goffredo Mameli, nella ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Porta San Pancrazio diventa sede di un museo dedicato alla Repubblica Romana del 1849 e alla tradizione garibaldina. Luogo fortemente evocativo dei fatti, la porta costituisce anche un punto privilegiato di lettura dell’area storico-monumentale del Gianicolo che di quella dura battaglia conserva ad oggi ampia memoria a livello monumentale.L’attuale porta S. Pancrazio, situata sull’altura del Gianicolo nel perimetro delle mura urbaniane o gianicolensi, fu costruita nel 1854-57 dall’architetto Virginio Vespignani sulle rovine della porta realizzata da Marcantonio De Rossi nel 1648 e semidistrutta durante le vicende belliche del 1849. A sua volta la porta seicentesca aveva sostituito l’antica porta Aurelia che si apriva nel recinto delle mura aureliane in posizione leggermente arretrata rispetto a quella odierna.Il 19 aprile 1951 l’Amministrazione Comunale consegnò i locali all’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini per la realizzazione del Museo. Nel contempo fu avviato l’ordinamento dei materiali e della documentazione per la costituzione del Museo che è stato aperto al pubblico nel 1976 con due sezioni: la prima riguardante la Storia garibaldina risorgimentale e la seconda la storia e le vicende della Divisione italiana partigiana Garibaldi.

lunedì 12 agosto 2013

Mario Pagano

Francesco Mario Pagano nacque a Brienza, nei pressi di Potenza, l’8 dicembre 1748 da una famiglia di avvocati. Dopo essere rimasto orfano di padre, nel 1762 si trasferisce a Napoli, per intraprendere gli studi umanistici; impara la filosofia sotto la guida dello zio prete Gerardo degli Angioli, grazie da cui viene introdotto alla conoscenza di Vico.Nella grande città borbonica, poi, studia alla facoltà di giurisprudenza ed ha modo di conoscere Antonio Genovesi, di cui fu allievo, e Gaetano Filangieri, suo amico, con il quale condivide l’interesse per la criminologia. Si laurea appena ventenne e Genovesi, che vede in lui un erede, lo invita a partecipare ad un concorso per la cattedra di etica che Pagano perderà, però un anno dopo la otterrà in sostituzione del suo maestro morto improvvisamente. Nel 1769 è già considerato come un grande esperto di cultura classica ed è chiamato “avvocato filosofo” per le sue arringhe ricche di citazioni intellettuali. Successivamente ottiene la cattedra di economia e poi quella di giurisprudenza. Attratto dalla riflessione sul rinnovamento della legislazione penale divenne “avvocato dei poveri”, una sorta di avvocato d’ufficio per i delinquenti più bisognosi; attività per cui sarà sospettato di attività sovversive.Nel 1785 pubblica i “Saggi politici”, con la sua concezione dello Stato e della sua organizzazione. Sempre nello stesso periodo la sua attività dedicata al diritto lo porta a scrivere opere come “Considerazioni sul processo criminale” (1787) o “ Logica dei probabili o teoria delle prove” che lo pongono sullo stesso piano dei grandi illuministi italiani Beccaria e Filangieri e rappresentano il rinnovamento del pensiero giuridico illuminista del Settecento. Si impegna per abolire la tortura: "la confessione, estorta tra i tormenti, è l'espressione del dolore, non già l'indizio della verità".Pubblica tre tragedie: “Gli esuli tebani” (1782), dedicata a Filangieri; “Agamennone” (1787), ambientata in Grecia; “Corradino” (1789) ambientato nel medioevo.Nel 1792 nacque la “Società patriottica” a cui Pagano aderì; questa era una società di uomini illuminati, senza alcun fine rivoluzionario ma con la speranza di portare il sovrano all’interesse verso la cultura. Le autorità borboniche decisero in quegli anni una brusca svolta repressiva e nel 1794 tre giovani patrioti vengono processati per cospirazione antimonarchica e condannati a morte. La “Società” è sciolta ed inquisita e Pagano assumerà la sua difesa nel 1794 nella “Gran causa dei rei di Stato”. Si impegna a fondo per dimostrare l’infondatezza dell’accusa e il fine non eversivo dell’organizzazione; non riesce a salvare i tre giovani dal patibolo ma ne salva altri grazie alla sua abilità; tuttavia 48 persone saranno condannate all’ergastolo o all’esilio e dal ’94 al ’98 ci saranno ben tremila carcerazioni per altri nemici dei Borbone.La sua bravura gli venne riconosciuta e fu nominato giudice del tribunale dell’Ammiragliato ma nel 1796 fa arrestare un avvocato corrotto che accusa Pagano di averlo fatto arrestare per la sua fedeltà al Re. Questo dà ai Borbone il pretesto per liberarsi di lui nonostante il suo prestigio; da tempo il sovrano aveva scatenato le sue spie contro il mondo della cultura napoletana. In febbraio dello stesso anno il filosofo viene arrestato e trattenuto per ben 29 mesi in carcere senza alcun processo; nel 1798, non essendosi trovate alcune prove contro di lui, viene liberato.Dopo la scarcerazione si rifugiò a Roma, accolto con entusiasmo dalla Repubblica Romana che offrirà all’esule una cattedra di diritto pubblico con uno stipendio che gli consente a malapena di sopravvivere. Quando la Repubblica cade, Pagano va a Milano ma il 23 gennaio 1799 a Napoli viene abbattuta la monarchia e Pagano ritorna subito nella città e diviene membro del governo e presidente del Comitato di legislazione. Il filosofo è l’assoluto protagonista: da febbraio ad aprile fa approvare diverse leggi volte a rivoluzionare l’apparato del Regno di Napoli e dà alle stampe la Costituzione Repubblicana che tuttavia non entrerà mai in vigore a causa della breve durata della repubblica (cinque mesi). Il 5 giugno, infatti, il Governo provvisorio è costretto a richiamare alle armi la popolazione perché le armate reazionarie si stanno avvicinando, aiutate dagli inglesi. Anche Pagano combatte strenuamente per la difesa di San Martino ma purtroppo sarà costretto poco dopo a trattare la resa con gli inglesi del celebre Ammiraglio Nelson, l’artefice del crollo della Repubblica Partenopea. È una resa condizionata e la condizione, per Pagano, prevede la sua detenzione su una nave inglese in attesa di giudizio. I patti non saranno rispettati e Re Ferdinando IV si fa consegnare il filosofo da Nelson per rinchiuderlo a Castel Nuovo nel Maschio Angioino. Per fiaccarne le forze sarà messo dentro alla “fossa del coccodrillo”, la zona più buia e umida riservata ai criminali più pericolosi. In seguito sarà rinchiuso a Poggioreale assieme ad altri 119 rivoltosi. Il processo a cui viene sottoposto è già segnato: il giudice gli disse che non avrebbe preso atto della sua dichiarazione in quanto sia la Corte, sia il popolo volevano la sua morte. Pagano rispose che auspicava un futuro in cui il popolo avrebbe parlato attraverso di sé e non per i suoi rappresentanti così bugiardi e corrotti come il giudice del suo processo.Il 29 ottobre 1799 un Pagano ormai distrutto anche fisicamente dalla dura prigionia viene impiccato in piazza Mercato assieme a Domenico Cirillo, Giorgio Pigliacelli ed Ignazio Ciaja. Per uno strano ricorso storico, l’illuminista sarà impiccato lo stesso giorno (29 ottobre 1268) e nello stesso punto in cui venne impiccato Corradino di Svevia, a cui Pagano aveva dedicato una tragedia.

domenica 4 agosto 2013

Giuseppe Sciva, unico martire dei moti del 1847

La targa che ricorda i moti dell'1 settembre 1847
Girando per le vie della nostra città, spesso ci si domanda chi sia il personaggio storico cui la stessa è intitolata. Molti sono nomi che non ci dicono nulla. Eppure, dietro quei nomi, magari accompagnati da una data, spesso c’è una vita interamente dedicata alla città.
È il caso di Giuseppe Sciva, un calzolaio di 27 anni, giustiziato dopo i moti dell’1 settembre 1847 che, di fatto, diedero il viale all’insurrezione che nel 1848 infiammò l’intera Europa.Pochi mesi prima, nel luglio del 1847 il poeta Luigi Settembrini, mazzinianio della Giovine Italia, scrisse un libello, “Protesta del popolo delle Due Sicilie”, che era un duro atto d’accusa contro il governo di Ferdinando II di Borbone e sulle conseguenze per il popolo delle Due Sicilie.
“Questo Governo -scriveva Settembrini- è una immensa piramide la cui base è fatta dagli sbirri e dai preti, la cima dal re. Ogni impiegato, dal soldato al generale, dal gendarme al ministro di Polizia, dal prete al confessore del re, ogni piccolo scrivano è un despota spietato e lo è peggio su quelli che sono a lui soggetti, mentre è un vilissimo schiavo nei confronti dei suoi superiori! Onde chi non è fra gli oppressori si sente da ogni parte schiacciato dalla tirannide di mille ribaldi, e la pace, le sostanze, la libertà degli uomini onesti dipendono dal capriccio, non dico di un principe o di un ministro, ma di ogni impiegatuccio, di una baldracca, di una spia, di un gesuita, di un prete. O fratelli italiani, o generosi stranieri, non dite che queste parole sono troppo aspre, e non scrivete nei vostri giornali che dovremmo parlare con più moderazione e freddezza; venite fra noi, sentite voi pure come una vera mano di ferro ci stringa e ci bruci il cuore; venite a soffrire quanto soffriamo noi, e poi scrivete e consolateci. Noi pregheremmo Iddio di donare senno a questo Ferdinando, se sapessimo che Dio ascolta la voce del popolo, che è pure la voce di Dio. Non ci resta dunque che far palesi le nostre miserie, mostrare che siamo immeritevoli di soffrirle e che è vicino il tempo in cui dovrà finire per noi tanta vergogna”.La reazione di Ferdinando II fu immediata, nonostante alcune promesse e la riduzione dei dazi sul sale, sul vino e sul grano, ma ormai i meccanismi che avrebbero portato alla rivoluzione del ’48 si erano già stati messi in moto. I circoli mazziniani erano al lavoro per organizzare la sollevazione e anche Messina si preparava a fare la propria parte. Alcuni Comitati come quelli di Cosenza, Catanzaro e Palermo cercavano di prendere tempo sostenendo che le città non erano pronte, Reggio Calabria e Messina erano di parere opposto e riuscirono ad imporre la propria tesi. Contrari e no, decisero comunque di giocarsi il tutto per tutto il 10 settembre di quell’anno. Come spesso accadde durante le Guerre di Indipendenza che portarono all’Unità d’Italia, all’ultimo momento alcune città fecero un passo indietro. Solo le due città dello Stretto si mossero contro i Borboni. Impreparati e divisi, i cospiratori fallirono l’obiettivo. Il piano preparato con cura (impadronirsi delle armi durante un banchetto degli ufficiali organizzato per l’1 settembre) fu rinviato, ma non tutti furono avvertiti. Chi rimase tagliato fuori si mosse, ignaro di ciò che lo aspettava. Un conciatore, Antonio Pracanica, guidava gli insorti. Troppo pochi per avere ragione dei militari, gli insurrezionisti furono sconfitti dopo un aspro combattimento con le truppe borboniche. Molti dovettero andare in esilio, parecchi furono catturati, uno solo fu ucciso.Ferdinando II reagì con estrema durezza ed immediatamente dopo il fallimento del moto, che si concluse il 10 settembre dopo aspri combattimenti iniziarono i processi. In nove, tra i quali anche preti come Giovanni Krimi e frati, furono condannati all’ergastolo, dieci riuscirono a fuggire, alcuni morirono in prigione. Giuseppe Sciva fu fucilato il 2 settembre. Del calzolaio ventisettenne, che perse la vita per l’Unità d’Italia, restano soltanto vaghi accenni nei libri di storia locale ed una via a lui intitolata a Montepiselli.