/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": gennaio 2016

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lunedì 25 gennaio 2016

La nazione e la patria

La parola nazione (dal latino natio) non era certo nuova, ma fu soltanto al principio dell'Ottocento che si affermò nella cultura europea per definire una grande comunità omogenea che stava alla base della legittimità delle istituzioni; a cominciare naturalmente dallo Stato, che doveva comprendere tutti coloro che appartenevano ad una stessa comunità nazionale.Una tale comunità – si affermava – poteva essere definita come tale sulla base di elementi oggettivi (etnico-linguistici, culturali, storici) e soggettivi (la consapevolezza di un destino comune, la volontà di vivere assieme), diversamente miscelati nei diversi contesti storico-geografici. In ogni caso, per i movimenti che combattevano al fine di conquistare l'indipendenza della propria nazione, ma anche per gli esponenti politici liberali e democratici di Inghilterra o Francia, l'esistenza di un'Europa di liberi Stati nazionali corrispondeva a un ordine delle cose nello stesso tempo necessario e naturale. Scriveva ad esempio Cavour nel 1846 che «nessun popolo può raggiungere un alto livello di intelligenza e di moralità senza che sia fortemente sviluppato il sentimento della propria nazionalità».«Nazione» e «nazionalità» erano termini sostanzialmente equivalenti; come lo era, rispetto a «nazione», il termine «patria», caratterizzato però da una più marcata accentuazione affettiva: riferendosi alla propria nazione come «patria» si sottolineava il senso di attaccamento ad essa, la disponibilità – se necessario – a combattere fino al martirio per difenderla dai nemici o (nel caso di nazioni non indipendenti come l'Italia o la Polonia) per dare ad essa un'esistenza politica come Stato (nazionale).
Il risveglio dell'Italia,grazie all'affermarsi delle passioni nazionali, è l'intera politica europea che assumenel corso del XIX secolo un nuovo carattere: come scrisse lo storico Federico Chabod, «la politica, che nel Settecento era apparsa come un'arte, tutta calcolo, ponderazione, equilibrio, sapienza, tutta razionalità e niente passione, diviene con l'Ottocento assai più tumultuosa, torbida, passionale; acquista l'impeto, starei per dire il fuoco, delle grandi passioni; diviene passione trascinante e fanatizzante com'erano state, un tempo, le passioni religiose ».L'«amore sacro della patria» (come suona un verso della Marsigliese) dà una connotazione fortemente emotiva all'idea di nazione, fino al punto di fondare appunto una sorta di nuova religione, la religione della patria, che ha la sua fede, i suoi martiri, i suoi dogmi (in primo luogo l'assoluta necessità di ottenere o conservare l'indipendenza nazionale).In Italia – o meglio nell'ambito geografico comprendente la penisola, la Sicilia e la Sardegna – era diffusa da secoli la consapevolezza di far parte di una comunità definita da tratti letterari, storici e linguistici comuni. Negli anni della Restaurazione, la consapevolezza d'essere parte di una medesima nazione si affermò con forza presso i ceti colti dei vari Stati italiani, spinti a questo da una serie di opere diverse – tragedie, romanzi, poesie, drammi storici, melodrammi, dipinti –, che tutte però si riferivano a un insieme di valori, simboli, eventi storici (più o meno mitizzati), attinenti la nazione.Si pensi alle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo e dunque alla «nostalgica rivisitazione» dei grandi poeti della tradizione letteraria italiana compiuta dal protagonista «nel suo ultimo viaggio per l'Italia, da Petrarca a Parini e fino alle tombe di Santa Croce» in Firenze (G. Nicoletti). O, ancora, alla riscoperta/invenzione del passato nazionale realizzata attraverso opere come L'assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi o Ettore Fieramosca di Massimo d'Azeglio.La presenza della censura aveva impedito che nei vari Stati italiani si potesse affrontare liberamente il tema della nazione e della sua indipendenza; ma proprio questo «ebbe l'effetto imprevisto di rendere più sofisticato il discorso nazionale, e di spostarne l'ambito di elaborazione verso generi di più ampio consumo e diffusione» (A. M. Banti).Il discorso nazional-patriottico che si diffuse nei primi decenni dell'Ottocento non si limitava a rappresentare la nazione, ad accreditarne l'esistenza come un soggetto storico necessario e ineliminabile, secondo quel che era un indirizzo della cultura del tempo e in particolare della cultura di matrice romantica, così sensibile al tema delle radici e delle specificità nazionali. Quel discorso, rappresentando la nazione italiana come asservita a dinastie straniere, incitava a lottare per dare all'Italia, alla propria patria, libertà e indipendenza.Mazzini fu tra i primi a definire la nazione italiana richiamando, accanto agli elementi linguistici e culturali, l'elemento, attivo e soggettivo, della volontà di chi vi apparteneva. Fin dalle origini della Giovine Italia affermò infatti che, a costituire una nazione, non sono principalmente né la lingua, né il territorio, né il passato condiviso, né la comune appartenenza etnica – tutti questi soltanto indizi della sua esistenza – bensì la coscienza e la volontà comune degli appartenenti.La nazione – affermava – non esisteva nel passato ma «spetta[va] al futuro», era cioè il prodotto dell'azione rivoluzionaria. Questa concezione della nazione doveva avere un impatto rilevantissimo in una situazione come quella italiana, in cui il sentimento di appartenenza nazionale era affidato prevalentemente alla tradizione storico-letteraria: alimentò infatti l'idea che la nazione, più che in un corpus di elementi passivamente ricevuti (come la lingua, la tradizione comune ecc.), consistesse nell'intenzione di farne parte, ciò che anzitutto implicava la disponibilità a combattere per darle esistenza effettiva.

lunedì 18 gennaio 2016

GARIBALDI E IL SUO LEGAME CON LA SICILIA


Di Bettino Craxi
Dalla sua morte passeranno ancora 65 anni prima che si realizzi l'ideale della Repubblica mentre ad un secolo di distanza, di quel tipo di dottori di cui egli parlava, politicanti di bassa taglia, ce n'è purtroppo in circolazione ancora un numero eccessivo a rendere più fragile e pericolosamente inquinata la vita delle nostre istituzioni democratiche e repubblicano.L'ultimo viaggio che fece, due mesi prima di morire, vecchio e quasi paralizzato, fu proprio in Sicilia nell'aprile del 1882. Contro il parere di tutti, degli amici e dei medici, Garibaldi decide di partecipare alle celebrazioni dei Vespri Siciliani a Palermo. Tornando nella terra che era stata ventidue anni prima teatro della più grande impresa della sua vita, ritrova un popolo che lo ama, i compagni d'arme, le donne siciliane di cui egli aveva conosciuto il coraggio e lo spirito patriottico.Si rivolge a tutti scrivendo personalmente messaggi di saluto con grande fatica, per la mano rosa dal male. Saluta la Sicilia "terra della grandi iniziative", "ai miei cari prodi messinesi", dice "io mi trovo qui in famiglia"; saluta Palermo "maestra nell'arte di cacciare i tiranni" e i palermitani "veri rappresentanti dell'Italia", si rivolge ai "picciotti": "Credete forse che io vi abbia dimenticato? lo mi ricordo che coi vostri poveri fucili, ma col cuore da leoni, voi caricavate i borboni e li fugavate", saluta "di cuore gli operai di Palermo che seppero sempre tenere alta la bandiera della libertà, della indipendenza, della patria". i "picciotti", le donne siciliane, i patrioti siciliani in particolare erano stati protagonisti al fianco dei "Mille" nella vittoriosa impresa che da Marsala al Volturno aveva travolto il regno del Borbone, sconfitto uno dei più forti eserciti dell'Europa dell'epoca; realizzata la congiunzione unitaria tra il nord ed il sud dell'ItaliaL'impresa dei Mille partì dallo scoglio genovese di Quarto, ma la scintilla politica e rivoluzionaria dell'impresa scaturì qui in Sicilia ad opera dei patrioti siciliani. Con questo scritto intendiamo dare una risposta anche a quegli imbecilli che ci tempestano di messaggi con la inevitabile litania del " garibaldi appoggiato dalla mafia " o " ma come mai con 1000 uomini ha conquistato la Sicilia ?Tutte argomentazioni che non vanno al nocciolo del rapporto tra Gariballdi - la Sicilia in generale e il meridione in particolare . Garibaldi non aveva bisogno di Mafiosi , di Massoni , di forzieri pieni di oro . Aveva il popolo dalla sua parte - E tanto gli bastava -

venerdì 8 gennaio 2016

L'Incontro di Teano

Dopo la sconfitta dell'esercito pontificio a Castelfidardo e la presa di Ancona, Vittorio Emanuele II assunse il comando supremo delle forze militari sarde, il 3 ottobre, e, con al fianco il ministro dell'Interno Luigi Carlo Farini e il ministro della Guerra Manfredo Fanti, varcò i confini del Regno borbonico il 10 ottobre 1860.L'esercito sabaudo avanzò lungo la costa adriatica e si diresse verso la Terra di Lavoro, dove erano stati inviati, per ostacolare l'avanzata piemontese, un migliaio di soldati borbonici, comandati dal generale Luigi Scotti-Douglas, supportati anche da alcune migliaia di contadini insorti, le cui ribellioni, ormai, si stavano diffondendo sempre più nel Molise, nell'Abruzzo e nel Sannio.Il 17 ottobre, infatti, una colonna di circa 1.200 volontari comandata da Francesco Nullo, partita da Maddaloni per ristabilire l'ordine, venne attaccata e sconfitta, fra le gole di Pettorano e Castelpetroso, vicino Isernia, da alcuni reparti borbonici affiancati da migliaia di contadini insorti.Tre giorni dopo, però, il 20 ottobre, le truppe sabaude comandate dal generale Cialdini sconfissero i borbonici e le bande contadine al passo del Macerone ed occuparono Isernia. Nei giorni successivi l'esercito piemontese occupò Venafro e si diresse verso Capua mentre le truppe borboniche, temendo di essere accerchiate, si ritirarono verso il fiume Garigliano lasciando soltanto una guarnigione a Capua.La ritirata dei borbonici permise a Garibaldi, con i suoi uomini, di passare il Volturno il 25 ottobre e di avanzare verso Teano per incontrare l'esercito piemontese.Il generale, che veniva da Caiazzo, e Vittorio Emanuele II, che veniva da Venafro, si incontrarono, la mattina del 26 ottobre 1860, lungo la strada che porta a Teano, al quadrivio di Taverna della Catena, presso Vairano, nel punto dove si incontrano le strade di Cassino-Calvi e Venafro-Teano.Dopo aver cavalcato insieme per alcuni chilometri, scesero da cavallo, probabilmente nei pressi del ponte di Caianello, e continuarono la loro conversazione seguiti dai loro ufficiali. Poi ripresero a cavalcare e arrivarono a Teano dove il re si diresse verso Palazzo Caracciolo mentre Garibaldi si avviò in una stalla ai margini del paese.Vittorio Emanuele II, nel colloquio con Garibaldi sulla strada per Teano, gli comunicò che le operazioni militari, da quel momento, sarebbero state condotte dall'esercito regio e che avrebbe concesso ai volontari di essere soltanto la riserva delle truppe che combattevano sul Volturno.