/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": maggio 2011

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martedì 31 maggio 2011

L'Unità d'Italia attraverso le cartoline postali

Le cartoline postali per raccontare l’Unità d’Italia. Giovedì 2 giugno alle ore 12, in occasione della Festa della Repubblica, nella chiesa monumentale di San Francesco verrà inaugurata, alla presenza delle autorità e della banda cittadina, la mostra “L’Unità d’Italia attraverso le cartoline postali”, promossa dal Comune di Gualdo Tadino in collaborazione con il circolo filatelico e numismatico “Olivo Scatena” di Gualdo Tadino e il Polo Museale cittadino. La mostra resterà aperta sino al 26 giugno prossimo nei seguenti giorni: venerdì, sabato, domenica e festivi dalle ore 10,30 alle 13 e dalle 15 alle 18. L’evento rientra nei festeggiamenti organizzati dalla città di Gualdo Tadino in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. (VM)

domenica 29 maggio 2011

Grande successo per il convegno “LA NAZIONE CHE NON FU”


Grande successo per il convegno “LA NAZIONE CHE NON FU”

Ha riscosso un grandissimo successo di pubblico il Convegno “LA NAZIONE CHE NON FU” - Operazione Verità,  svoltosi nel pomeriggio del 27 maggio 2011 a Barcellona Pozzo di Gotto ed organizzato dall’Associazione Sindacale Culturale e Sportiva “Giuseppe Garibaldi” che mi onoro di presiedere.  La serata si è aperta con il messaggio di saluto che ho voluto porgere ai presenti, ringraziando inoltre le personalità politiche e non che hanno avuto a cuore il progetto. Quindi ho fatto spostare i presenti in una sala attigua dove l’Ensamble Flauti traverso del Comprensivo “Bastiano Genovese”, sotto la direzione della Prof.ssa Daria Grillo, ha eseguito ben tre pezzi correlati al periodo risorgimentale, tema del convegno stesso e che è stata premiata con una pergamena.A questo punto  il pubblico ha fatto ritorno nella sala principale ed hanno preso avvio le relazioni, a partire da quella della Prof. Patrizia Zangla, docente presso il liceo classico “Valli” di Barcellona P.G. che si è detta in pieno accordo con le tesi degli autori del saggio dissentendo  solamente  sulle  conclusioni a cui giungono gli autori. Quindi ha preso la parola  il Prof. Gino Trapani, presidente della Pro Loco cittadina il quale ha elogiato il saggio in quanto di facile lettura e  che suscita il dibattit.  La coautrice, la Dott.ssa Maria Rosaria De Stefano Natoli,  ha sostenuto come questo lavoro sia frutto di raccolta di documenti, quindi qualcosa che non può essere assolutamente confutato.  Quindi, attesissimo, ha preso la parola l’On Salvatore Natoli Sciacca che ha esordito : “il libro non ha alcuna attinenza col separatismo ne con gli ideali della Lega”, lanciando poi un messaggio di speranza:  “da 60 anni l’Europa dorme mentre il mondo va avanti. Ora la speranza sta nella creazione degli Stati Uniti d’Europa, con dignità, libertà ed eguali diritti e doveri. E tutto ciò nel nostro Paese, che nazione non è mai stata, sarà più semplice da attuare, rispetto ad altri paesi, quali la Francia, che nazione lo è sempre stata”. Ultimo intervento quello di un appassionato  Prof. Vito Natoli, artista e docente, di Gioiosa Marea come l’On. Natoli, che dopo essersi complimentato con la nostra Associazione e con me personalmente per l’impeccabile organizzazione della riuscitissima serata, ha dedicato una poesia al libro “La nazione che non fu”. Addetto stampa dell’evento è stato il Dott. Nino Mazzeo.Un ringraziamento particolare viene dedicato ai signori Maria e Nino Armenio quali titolari della Casa Editrice del libro”La Nazione che non fu”. Un rinfresco ha chiuso la serata.


sabato 14 maggio 2011

L'Associazione Sindacale Culturale E Sportiva "Giuseppe Garibaldi"

L’ Associazione Sindacale Culturale e Sportiva “Giuseppe Garibaldi” di Barcellona P.G., che ho fondato 10 anni orsono, si è sempre distinta per una attività svolta con l’obiettivo della promozione culturale, e in conseguenza di ciò, organizzando convegni, meeting sportivi, proiezioni cinematografiche ecc. In questo contesto un nuovo evento vi sarà il prossimo 27 maggio 2011, alle ore 18,30, presso i Saloni dell’Oasi di Barcellona P.G. Il convegno/dibattito “LA NAZIONE CHE NON FU” Operazione verità, vedrà gli interventi degli autori stessi, l’On. Salvatore Natoli Sciacca e la Dott.ssa Rosaria De Stefano Natoli. Inoltre relazioneranno il Prof. Gino Trapani, la Prof.ssa Patrizia Zangla ed il Prof. Vito Natoli. Vi sarà infine la presenza di intermezzi musicali ad opera dell’Ensemble Flauti traverso del Comprensivo “Bastiano Genovese”, diretti dalla Prof.ssa Daria Grillo. Alla fine della serata sarà offerto ai convenuti un breve rinfresco e l’Associazione farà fare, a chi lo volesse, un tour per vie cittadine che ricordano il passaggio delle truppe garibaldine. Addetto stampa della manifestazione è il Dott. Nino Mazzeo. Casa editrice: Maria e Nino Armenio.


IL PRESIDENTE

Carmelo Cicero

giovedì 12 maggio 2011

Barcellona P.G.: Incontro/Dibattito "LA NAZIONE CHE NON FU"


L’Associazione Sindacale Culturale e Sportiva “Giuseppe Garibaldi” di Barcellona P.G. organizza, con il patrocinio della Regione Sicilia e dell’Assessorato regionale Turismo, Sport e Spettacolo, l’incontro-dibattito "La Nazione che non fu - Operazione verità", titolo dell’omonimo libro di Salvatore Natoli Sciacca e Maria Rosaria De Stefano Natoli, edito da Armenio Editore.

L’evento si svolgerà nella Sala Convegni del Palazzo "G. Spagnolo" (OASI) di Barcellona P.G. il prossimo 27 maggio 2011 alle ore 18,30. Alla presenza degli Autori di un libro di grande attualità, anche nel contesto delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, relazioneranno Gino Trapani, presidente della Pro Loco cittadina, Patrizia Zangla, docente presso il Liceo “Valli” e Vito Natoli, artista e docente.

La serata verrà impreziosita da intermezzi musicali dell’Ensamble Flauti traverso dell'Istituto Comprensivo "Bastiano Genovese", sotto la direzione di Daria Grillo. Un evento di indubbio prestigio organizzato nei minimi particolari e con grande entusiasmo da un instancabile Carmelo Cicero, Presidente dell’Associazione “Giuseppe Garibaldi” che mira a regalare alla propria città appuntamenti di alto spessore culturale. (ALFREDO ANSELMO)

domenica 8 maggio 2011

G.Garibaldi: ricevuto dispaccio n° 1073.Obbedisco

Il 10 giugno 1866 giunge a Caprera un emissario del governo italiano per invitare Garibaldi a prendere il comando dei volontari che si stanno radunando in vista dell’imminente guerra contro l’Austria. “Io dimentico presto le ingiurie … . Lo stesso giorno si partì con un piroscafo per il continente”, scrive Garibaldi. L’Italia, alleata con la Prussia, prepara la terza guerra di indipendenza con un disegno strategico vago e vertici militari impreparati e discordi. Il re è comandante in capo ma non ha né la capacità né gli strumenti per dirigere e coordinare due armate di fatto separate: quella di Lamarmora sul Mincio e quella di Cialdini sul Po.

I volontari costituiscono una terza formazione cui Garibaldi e forse lo stesso Vittorio Emanuele vorrebbero affidare il compito di sbarcare sulle coste dalmate e di qui muovere verso il cuore dell’impero austro-ungarico con il supporto degli insorti locali. Si potrebbero concentrare in tal modo tre direttrici d’attacco su Vienna: dalla Prussia, dall’Italia e dai Balcani. Non se ne fa nulla per il parere contrario di Lamarmora e a Garibaldi è assegnata un’azione concorrente verso il Trentino sulla sinistra dell’armata del Mincio.
All’inizio della guerra oltre la metà dei circa 30.000 volontari arruolatisi sono ancora in Italia meridionale e i preziosi rinforzi dell’esercito regolare, soprattutto le artiglierie, arriveranno solo a ostilità già iniziate. I tempi ristretti di radunata e la lontananza dei centri di raccolta dal teatro di operazioni non hanno consentito alcuna attività di addestramento e di amalgama; l’equipaggiamento e l’armamento dei volontari sono come al solito di scarsa qualità: sono effetti negativi della legge approvata il 24 luglio 1861 per impedire la formazione della guardia nazionale come proposta da Garibaldi.
Ai volontari è assegnata come uniforme la camicia rossa e Garibaldi ricorda che alcuni di loro, per insufficienza delle scorte, sono costretti a combattere in abiti borghesi. A queste difficoltà si aggiunge la carenza qualitativa dei quadri; i migliori sono già diventati generali dell’esercito italiano, quelli che restano non sempre sono all’altezza e i loro limiti diventano ancora più evidenti davanti alle difficoltà della zona di operazioni. Le forze assegnate a Garibaldi sono suddivise in diverse aliquote tra Valtellina, val Camonica e valle del Chiese. Da quest’ultima deve partire l’offensiva verso Trento, ma le numerose valli che vi confluiscono devono essere controllate con conseguente dispersione delle forze. E’ difficile esercitare l’azione di comando e controllo in un territorio così vasto e compartimentato; ancora più arduo progredire in attacco lungo le valli che per loro natura favoriscono la difesa. Garibaldi rimedia adottando la tattica che egli stesso definisce del “fare l’aquila”: occupare le alture prima di avanzare a fondo valle.
Ma il nemico che fronteggia i volontari non è impreparato; a difendere il sud Tirolo (così gli austriaci chiamano il Trentino) è chiamato il generale Kuhn con circa 14.000 uomini, 32 pezzi di artiglieria e alcune compagnie di cacciatori tirolesi. Questi ultimi sono armati di ottime carabine che sanno usare al meglio e che mettono ancora di più in risalto la pochezza dell’armamento dei volontari.
Quando il 23 giugno iniziano le operazioni il generale Kuhn fa occupare i passi dello Stelvio verso la Valtellina e del Tonale verso la val Camonica. Entrambe le valli sono già presidiate da unità territoriali assegnate a Garibaldi, il quale rinforza la val Camonica e occupa il ponte sul Caffaro e monte Suello che garantiscono il controllo della valle del Chiese nella zona immediatamente a nord del lago d’Idro.
Un reggimento rimane a Salò per il controllo della sponda occidentale del lago di Garda su cui naviga quasi indisturbata una flottiglia austriaca di otto unità con 48 cannoni. Garibaldi ottiene il comando delle poche imbarcazioni da guerra italiane quasi tutte inefficienti e provvede a farle riparare e a fornirle di equipaggi traendo gli uomini dai suoi volontari: una ulteriore dispersione di forze.
Gli errori commessi a Custoza il 24 giugno sconvolgono ogni piano e Garibaldi deve concentrare i volontari su Lonato per garantire la protezione da nord all’armata del Mincio che si sta ritirando sull’Oglio: “… verso il 26, giorno probabile dell’apparizione del nemico, noi non avremmo potuto opporre al di sopra di ottomila uomini con una batteria da montagna e un pezzo da 24 della flottiglia, collocato sull’altura di Lonato”. Fortunatamente per l’esercito italiano, il nemico non insiste nel movimento verso ovest. Dopo pochi giorni Garibaldi riceve l’ordine di riprendere l’offensiva verso il Trentino e il 1° luglio una brigata formata da due reggimenti, un battaglione bersaglieri e una batteria di artiglieria muove verso monte Suello che nel frattempo gli austriaci hanno rioccupato e fortificato.
Il 3 luglio si combatte aspramente per la conquista di monte Suello dove i volontari diventano bersaglio delle micidiali carabine dei cacciatori tirolesi. Lo stesso Garibaldi è colpito a una coscia e per il resto della campagna sarà costretto a muoversi in carrozza. La battaglia si conclude con un nulla di fatto, ma l’indomani gli austriaci si ritirano in seguito agli ordini che il generale Kuhn già il giorno precedente riceve dall’arciduca Alberto, comandante dell’armata austriaca del sud (fronte italiano), per lasciare le posizioni più avanzate.
L’andamento delle operazioni sul fronte nord contro la Prussia è sfavorevole agli austriaci e l’imperatore Francesco Giuseppe ritiene di dovere rinforzare quel teatro di operazioni a scapito del fronte italiano. Quando poi il 3 luglio i prussiani vincono a Sadowa Francesco Giuseppe fa ritirare dall’Italia un corpo d’armata, ma le truppe del generale Kuhn restano a difesa del Tirolo. Si combatte il 4 luglio a Vezza d’Oglio in val Camonica. Gli austriaci occupano l’abitato, contrastano una forte resistenza ma poi ripiegano verso il passo del Tonale. All’alba dell’11 luglio in Valtellina gli austriaci sono respinti da Bormio verso lo Stelvio.
A difesa di queste valli è impiegata - sotto il comando di Garibaldi - una legione della guardia nazionale formata dal 44° battaglione val Camonica e dal 45° battaglione Valtellina. I due battaglioni - annota il Corsi - sono stati “levati e armati in fretta sul rompere delle ostilità e rinforzati d’un centinaio tra carabinieri reali, doganieri e guardie forestali, una compagnia di bersaglieri volontari e una cinquantina di tiratori volontari di Como e di Chiavenna, con 8 pezzi d’artiglieria regolare, 6 dei quali da montagna”.
L’azione nella valle del Chiese prosegue e il 15 luglio Garibaldi occupa l’abitato di Storo dove stabilisce il suo quartiere generale. Ha dovuto nel frattempo assicurarsi la valle del Caffaro, affluente di destra del Chiese, occupando Bagolino e ha fatto risalire alcuni reparti fino a Condino a nord di Storo per fermare eventuali infiltrazioni austriache. Su Storo sbocca da est la valle d’Ampola, protetta dall’omonimo forte che sbarra l’accesso verso il lago di Ledro, da cui si scende verso Riva del Garda: è l’itinerario più diretto per Trento. Arriva finalmente una brigata di tre batterie campali con “quindici magnifici pezzi da 12” in rinforzo dalla “nostra artiglieria italiana, ch’io stimo con orgoglio non seconda a nessuno nel mondo”. Garibaldi ne farà buon uso assecondato dal valido comandante della brigata, maggiore Dogliotti. Gli austriaci reagiscono il 16 luglio all’occupazione di Condino e i combattimenti investono anche l’abitato di Cimego, più a nord, dove alcuni volontari sono avanzati contrariamente agli ordini di Garibaldi. Si fa ancora sentire la superiorità delle carabine dei cacciatori tirolesi e gli italiani sono respinti da Cimego. Garibaldi interviene di persona e ferma la reazione degli austriaci utilizzando con tempestività ed efficacia le artiglierie.
Nei giorni successivi è posto l’assedio al forte d’Ampola che si arrende il 19 luglio. Alla manovra di accerchiamento viene mancare il 2° reggimento che Garibaldi ha fatto muovere da Gargnano sul lago di Garda per giungere attraverso le montagne a sud e a est del forte. “Molti furono i disagi e le fatiche sofferti in quella marcia dal 2°, e non pochi gli errori commessi”; non è l’unico caso in questa campagna in cui Garibaldi rileva errori commessi dai suoi subordinati, che tuttavia non cita quasi mai per nome e, se si rammarica, lo fa solo per la sorte delle sue unità. Sensibilità di comandante.
Dopo la caduta del forte d’Ampola Garibaldi può muovere verso la valle di Ledro. L’esercito italiano ha modificato intanto la sua articolazione: l’armata del Po agli ordini di Cialdini è diventata armata di spedizione e sta occupando il Veneto e il Friuli; l’armata del Mincio, ora agli ordini del re, rimane a controllare le fortezze del Quadrilatero. La 15^ divisione, agli ordini del generale Medici, deve risalire la Valsugana per ricongiungersi a Trento con i volontari di Garibaldi: un incontro anche simbolico tra due vecchi commilitoni. L’avanzata di Medici provoca qualche iniziale incertezza in Kuhn che tuttavia decide di fermare prima le forze di Garibaldi. Il punto chiave è l’abitato di Bezzecca su cui scende da nord la val Conzei mentre proseguendo verso est si sbocca su Riva. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio Garibaldi manda un battaglione a occupare le alture sul fianco destro della valle all’altezza di Bezzecca. “Codesto battaglione, non so per colpa di chi o se per caso, trovossi all’alba avviluppato da forze nemiche considerevoli”. Gli austriaci riescono a portarsi su Bezzecca e occupano posizioni dominanti minacciando il fianco destro dei volontari.
Sul posto giunge Garibaldi che è partito all’alba del 21 in carrozza da Storo e ha ordinato l’afflusso di rinforzi tra cui il 9° reggimento: “E ben ci valsero, poiché la salvazione prima della giornata furon quelle posizioni, occupate dai prodi di quel reggimento, capitanati, lo dico con vero orgoglio, da mio figlio Menotti”. Misurata fierezza di padre, che subito dopo ricorda anche i nomi dei due comandanti di battaglione “Cossovich e Vico Pellizzari, ambi dei Mille e ben degni d’esserlo”.
Il centro e la destra dei volontari sono tuttavia costretti a retrocedere e alle 10 del mattino gli austriaci sono padroni di Bezzecca. Sei pezzi di artiglieria del maggiore Dogliotti riescono e ripiegare e riprendono posizione con altri tre pezzi in riserva. Assicuratosi il supporto di fuoco ora Garibaldi si adopera per rianimare i suoi e riportarli al contrattacco. L’artiglieria dalle nuove posizioni “… fulminava il nemico con tiri tali, che più sembravano fuoco di moschetteria anziché di cannone, tale era la loro celerità”. Gli austriaci si ritirano e Bezzecca è riconquistata. Le perdite sono elevate da entrambe le parti, ma ora Kuhn deve solo pensare a difendere Trento, visto che anche Medici sta avanzando in Valsugana.
Il 22 luglio Garibaldi va a Pieve di Ledro dove finalmente incontra il comandante del 2° reggimento che non era arrivato in tempo al forte d’Ampola e non era intervenuto a Bezzecca dove avrebbe potuto prendere gli austriaci alle spalle. Questa volta Garibaldi cita per nome il comandante, colonnello Spinazzi, che si giustifica dicendo di non essere intervenuto per mancanza di munizioni. L’ufficiale è arrestato e processato e dagli atti del processo sembra che, dopo essersi consultato con i suoi ufficiali, abbia deciso di marciare verso Bezzecca senza però arrivare in tempo per la battaglia. Garibaldi accenna a una possibile forma di demenza del colonnello Spinazzi, ma il suo giudizio è inflessibile: “.. quando il cannone rugge, e si sa essere i compagni impegnati, non v’è scusa che tenga, là si deve marciare. Vi mancano munizioni, ebbene, i feriti ed i cadaveri possono provvedervele”.
Mentre si combatte a Bezzecca le forze a presidio di Condino nella val di Chiese respingono a cannonate un tentativo di diversione fatto da un reparto di cavalleria austriaca. Garibaldi allora si assicura che la valle del Chiese sia sgombera fino ai forti di Lardaro presso il colle di Roncone che immette verso nord nella valle del Sarca; di qui si potrebbe scendere a Tione e muovere su Trento. Vengono anche fatte affluire attraverso la val di Fumo e la val Daone le forze già a presidio della val Camonica attraverso itinerari che superano i 2.000 metri di quota. Assicuratosi la val di Chiese, Garibaldi decide di arrivare a Trento proseguendo dalla valle di Ledro su Riva del Garda, ma la politica fa tacere le armi il 25 luglio. Garibaldi si rammarica che in quel giorno: “… non si trovavan più nemici sino a Trento; che Riva si abbandonava, gettando i cannoni delle fortezze nel lago; che per due giorni non si poté trovare il generale nemico, a cui si doveva partecipare la sospensione”. Una nuova mediazione della Francia, più corretto sarebbe definirla ingerenza, pone fine alla guerra. Si saprà poi che la cessione del Veneto era stata concordata tra Napoleone III e Francesco Giuseppe già nei primi giorni di luglio. Un telegramma con poche parole di testo e la famosa “Obbedisco” è l’epilogo di questa campagna che replica in maniera ancora più bruciante la disillusione di Villafranca nel 1859. Garibaldi dà prova di essere un soldato leale nei confronti del re ma soprattutto si conferma comandante generoso: “In tutta la campagna del 66 io fui molto secondato dai miei ufficiali superiori, non potendo io stesso assistere a dovere i movimenti e le operazioni di guerra per essere obbligato ad andare in carrozza”. Non sono parole di circostanza, visto che quando c’erano errori da rimarcare lo ha fatto. Conclusa la campagna i volontari si riuniscono a Brescia dove il corpo viene sciolto. Garibaldi ancora una volta torna a Caprera.

Pisacane e i 300(1 Luglio 1857)

Il 25 giugno 1857 Pisacane s'imbarcò con altri ventiquattro sovversivi, tra cui Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, della Società Rubattino, diretto a Tunisi. Pilo si occupò nuovamente del trasporto delle armi, e partì il giorno dopo su alcuni pescherecci. Ma anche questa volta Pilo fallì nel compito assegnatogli e lasciò Pisacane senza le armi e i rinforzi che gli erano necessari. Pisacane continuò senza cambiare piani: impadronitosi della nave durante la notte, con la complicità dei due macchinisti britannici, si dovette accontentare delle poche armi che erano imbarcate sul Cagliari.
Il 26 giugno sbarcò a Ponza dove, sventolando il tricolore, riuscì agevolmente a liberare 323 detenuti, poche decine dei quali per reati politici, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Il 28, il Cagliari ripartì carico di detenuti comuni e delle armi sottratte al presidio borbonico. La sera i congiurati sbarcarono presso Sapri, probabilmente, per la precisione, in contrada "Uliveto" nel comune di Vibonati, a circa 1,5 km dal confine con il comune di Sapri. Lo sbarco, infatti difficilmente sarebbe potuto avvenire nella baia di Sapri in quanto i fondali non lo permettevano. Inoltre, la mappa trovata addosso a Pisacane riportava una X sulla località "Oliveto", territorio di Vibonati.
Si sa che non trovarono ad attenderli quelle masse rivoltose che si sarebbero aspettati. La causa di ciò è da attribuirsi allo scollamento che c'era tra gli ex liberali (Gallotti) ed il popolo. Anzi la presenza di molti banditi attivi in quei territori nelle file dei ribelli provocò l'assalto della stessa popolazione, che li costrinse alla fuga. Il 1° luglio, a Padula vennero circondati e 25 di loro furono massacrati dai contadini. Gli altri, per un totale di 150, vennero catturati e consegnati ai gendarmi. Padula oggi accogli le spoglie di 58 di loro, nell' Ossario dei Trecento, sito presso la Chiesa della Santissima Annunziata.
Pisacane, con Nicotera, Falcone e gli ultimi superstiti, riuscirono a fuggire a Sanza dove furono ancora aggrediti dalla popolazione. Perirono in 83. Pisacane e Falcone si suicidarono con le loro pistole, mentre quelli scampati all'ira popolare furono poi processati nel gennaio del 1858, ma, condannati a morte, furono graziati dal Re, che tramutò la pena in ergastolo. I due britannici, per intervento del loro governo, furono dichiarati non perseguibili per "infermità mentale"

L'Ultima battaglia dei Mille(1 Ottobre 1860)

Alle ore 13 Garibaldi lascia Sant’Angelo per tornare a Santa Maria, ormai convinto della vittoria. In piedi, sulla linea del fuoco dello stradone verso Sant’Angelo, mangia un intero cesto di fichi e qualche biscotto inglese che gli ha portato Jessie White. I borbonici sono penetrati nella linea garibaldina per molti chilometri lungo le pendici del Tifata, dividendo la divisione di Santa Maria da quella di Sant’Angelo. La compagnia francese, rimasta isolata, continua a resistere dall’alba nella Masseria della Valle. Garibaldi impiega un’ora per tornare a Santa Maria. Appena giunto decide la mossa finale: richiamare su Santa Maria tutta la riserva rimasta, 3000 uomini, con Türr e Rüstow. Il trasferimento avviene in pochi minuti utilizzando la ferrovia, che si rivela il mezzo di trasporto decisivo per lo svolgimento della giornata. La brigata De Giorgis sale sui vagoni, mentre la brigata Eber si mette in marcia. Nella brigata Eber Garibaldi incontra sei marinai inglesi della fregata Hannibal, in libera uscita, che gli chiedono un fucile per combattere. Divisi in due contingenti, 1500 uomini vanno verso Sant’Angelo e prendono alle spalle i borbonici; 1500 verso la sinistra garibaldina tagliano la ritirata dei nemici verso Capua.


Il contrattacco garibaldino

I soldati borbonici continuano a cercare lo sfondamento. Alle 13,30 il generale Luigi Tabacchi cerca di conquistare porta Capuana. Alle ore 15,00 Garibaldi assume il comando della riserva. Lo schieramento del contrattacco da Santa Maria viene così ordinato da Garibaldi: a ovest Türr comanda la brigata Eber all’attacco sulla strada per Capua, con il 1° reggimento Bassini e il battaglione bersaglieri Tanara; verso nord-ovest con la brigata De Giorgis e uno squadro- ne di cavalleria ungherese comandati da Figydmesy; verso Nord, a riconquista dello stradone, Sirtori comanda elementi della brigata Eber con il 12° reggimento Cossovich, la compagnia Wolf e la legione ungherese guidata dal tenente colonnello Adolfo Magiarody e i calabresi di Pace. In quel momento, mentre parte il contrattacco garibaldino, i borbonici tentano un’azione per circondare i volontari a San Prisco, venendo respinti. La brigata Marulli comincia ad arretrare verso i Cappuccini e viene coperta in ritirata dal 9° reggimento fanteria del colonnello Landi.

sabato 7 maggio 2011

La rivolta della Gancia

Il 4 aprile del 1860 alcune decine di uomini con a capo il mastro fontaniere Francesco Riso, muovendo da un magazzino del convento della Gancia, diedero inizio all'insurrezione palermitana che avrebbe convinto definitivamente Giuseppe Garibaldi a organizzare una spedizione in Sicilia.

Si trattò di una rivolta organizzata e decisa da un gruppo di artigiani e di popolani membri della minoranza democratica del Comitato Rivoluzionario palermitano, decisa ad agire senza tentennamenti, incertezze, attendismi per dare vita a una rivoluzione politica e sociale contro l'opinione della maggioranza moderata, titubante sul successo dell'impresa e timorosa di un sbocco insurrezionale difficilmente pilotabile. Fu Riso a rompere gli indugi e a prendere autonomamente la decisione di insorgere all'alba del 4 aprile. Da un punto di vista militare l'insurrezione fu un fallimento: cinque insorti furono uccisi in combattimento, quattordici furono catturati quello stesso giorno e altre centinaia nei giorni seguenti durante i combattimenti fuori Palermo. Tredici degli insorti, tra cui il padre di Riso furono fucilati il 14 aprile mentre Francesco morì alla fine del mese per le ferite riportate il 4.
La rivolta, se pur stroncata facilmente, proseguì nelle campagne offrendo il modo a Crispi di dimostrare a Garibaldi come l'isola fosse pronta ad accogliere la spedizione che questi avrebbe organizzato di lì a poco.
Riso, in punto di morte, amareggiato per il fallimento della rivolta e per la mancata sollevazione della città, non immaginava che il 4 aprile sarebbe stato celebrato dall'Italia unita come un mito civile. Il 29 settembre, infatti, alla vigilia del plebiscito, il prodittatore Mordini decretò che il 4 aprile e il 27 maggio fossero compresi tra le feste nazionali in Sicilia e dal 1861 la rivolta della Gancia divenne protagonista di celebrazioni ufficiali nelle scuole e in città con distribuzioni di medaglie ai superstiti, inaugurazioni di monumenti e di lapidi, pubblicazioni, orazioni, cortei studenteschi in pellegrinaggio nei luoghi dell'insurrezione, della fucilazione dei tredici ecc. Un vero e proprio rito laico.
Nei primi decenni dello Stato unitario il 4 aprile divenne uno dei tasselli di questa religione civile attraverso la quale l'Italia creava i propri eroi, miti, monumenti, tradizioni. Nel 1924 le autorità scolastiche palermitane soppressero la vacanza del 4 aprile e l'ultima volta che questa data è stata degnamente celebrata è stato nel 1960, in occasione del centenario. Allora il presidente della Regione siciliana Majorana commemorò la rivolta del 4 aprile con un discorso al teatro Politeama mentre una solenne cerimonia funebre rievocativa dei martiri fu celebrata proprio nella chiesa della Gancia.
Forse è esagerato scrivere che, senza la rivolta della Gancia, Garibaldi non sarebbe entrato a Palermo e che fu essa a permettere la realizzazione della rivoluzione del 1860 ma indubbiamente gli avvenimenti di quel 4 aprile impressero una accelerazione straordinaria agli eventi e, retrospettivamente, possiamo oggi affermare che le campane della Gancia annunciarono la morte del Regno delle Due Sicilie e la nascita dell'Italia unita.

venerdì 6 maggio 2011

L'Italia Post-Unitaria

Il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia dal parlamento piemontese. Con i plebisciti del 1860 all’unità del Paese mancavano ancora il Veneto (1866), Roma (1870) e il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia (1918). Al di là delle importanti questioni concernenti il compimento del processo unitario, permanevano problemi irrisolti.

Tra questi possiamo ricordare il divario tra Nord e Sud, accentuato, all’indomani della spedizione garibaldina dei “Mille” da un accordo tra la borghesia industriale piemontese e i grandi proprietari terrieri del Meridione. La “questione meridionale” assunse rilievo soprattutto a causa del fenomeno del brigantaggio che richiese addirittura l’intervento dell’esercito (legge Pica - 1863) per essere fermato. Il problema finanziario costituiva un altro punto delicato per un Paese uscito da un lungo periodo di guerre. La risposta più immediata fu quella di giungere ad un pareggio di bilancio che però ebbe come prezzo un disinteresse per la questione sociale.
L’esigenza di definire l’assetto da dare al Paese aprì il confronto tra la Sinistra, più favorevole ad una politica decentrata che riconoscesse le autonomie locali, e la Destra orientata all’accentramento e alla “piemontesizzazione”. Pochi mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia Cavour morì e le questioni aperte vennero affrontate dalla Destra storica che, in parlamento, ebbe il sopravvento sulla Sinistra.
La Destra affrontò il problema di Roma capitale seguendo sia le strade diplomatiche, sia incoraggiando soluzioni militari, non sempre però con piena convinzione. Il ministro Rattazzi permise infatti a Garibaldi di muovere dalla Sicilia verso Roma, ma poi intervenne a fermarlo in Aspromonte (agosto 1862) a causa della decisa opposizione di Napoleone III che guardava con attenzione al problema di Roma. In Francia il potere di Napoleone III poggiava su una stretta alleanza con la Chiesa e l’imperatore non voleva minarla.
Nel 1864 possiamo ricordare la “Convenzione di Settembre” con cui, da un lato, il ministro Minghetti accettava di trasferire la capitale da Torino a Firenze, mentre Napoleone III attenuava, dall’altro lato, la presenza militare francese a Roma. Sempre in quell’anno, in dicembre, il papa Pio IX, con l’enciclica Quanta cura e il documento annesso il Sillabo, denunciava gli errori del liberalismo.
Il conflitto internazionale riprese con la Terza guerra d’Indipendenza che si inseriva in un gioco di alleanze promosso dal cancelliere prussiano Bismarck, nell’ottica di aprire un conflitto con l’Austria sia sul fronte settentrionale che su quello meridionale. Il nostro esercito non ebbe successo e così anche la marina, solo Garibaldi ottenne una vittoria in Trentino. La Prussia riuscì invece a sconfiggere l’Austria e in base agli accordi militari il nostro Paese ottenne l’annessione del Veneto (ottobre 1866).
Garibaldi promosse un altro intervento rivolto alla liberazione di Roma con l’impresa di Mentana (1867). Napoleone III inviò un contingente militare ma il Piemonte non intervenne. Affinchè la liberazione di Roma potesse avvenire, occorreva distogliere l’attenzione francese dalla capitale. Un’occasione in tal senso fu fornita dalla sconfitta di Napoleone III nella guerra franco-prussiana del 1870. Il Piemonte colse l’occasione per intervenire, con il generale Raffaele Cadorna, a Porta Pia (20 settembre 1870) e l’anno successivo si effettuò il trasferimento della capitale a Roma. Questo ulteriore passo nel senso dell’unità nazionale aprì il problema dello scontro tra Stato unitario e Chiesa. Il Piemonte promulgò le leggi delle guarentigie che regolavano i rapporti tra Stato e Chiesa, ma si muoveva al di là di un accordo bilaterale e il papa lo respinse. La posizione della Chiesa si radicalizzò ancor più con la dichiarazione del non expedit (1874) con la quale si invitarono i cattolici a non partecipare alla vita politica e in particolare alle elezioni. Nel 1876 la Destra riuscì a conseguire il pareggio di bilancio, ma il rigore della politica economica seguita aveva attenuato gli appoggi politici e si verificò uno spostamento a sinistra con una “rivoluzione parlamentare” che portò all’affermazione della Sinistra storica con Depretis.
Il governo del Depretis (1876-1887) fu però caratterizzato da una politica “trasformista” che prevedeva alleanze e appoggi con esponenti della Destra. La rivoluzione parlamentare proposta risultò quindi attenuata nei suoi intenti. La Sinistra realizzò alcune delle riforme proposte, dall’istruzione (1876), all’allargamento del diritto di voto (1882). Abolì la tassa sul macinato che tutelava gli interessi dei grandi latifondisti del Meridione e pesava sulle classi meno abbienti con un costo più alto del pane.
In politica estera Depretis aderì alla proposta di Bismarck di dar vita ad una Triplice Alleanza tra Prussia, Austria e Italia. Il nostro Paese era mosso in tal senso soprattutto dall’esigenza di tenere a freno un’eventuale espansione della Francia a nostro danno. Il rinnovo del 1887 prevedeva importanti clausole per risolvere la questione del Trentino e del Friuli Venezia Giulia (compensi all’Italia nel caso di una espansione dell’Austria verso i Balcani). Con Depretis prese avvio una politica di espansione coloniale che acquisiva con lui soprattutto un significato demografico: creare spazi per risolvere il surplus demografico nel Meridione. Lo scontro di Dogali si risolse però in una sconfitta del nostro contingente. L’insediamento coloniale resterà così circoscritto ad alcune regioni dell’Eritrea, ma l’Etiopia ci resterà preclusa. L’ultima iniziativa presa dal Depretis, prima della sua morte, fu la definizione di una tariffa doganale decisamente protezionista, a causa della “grande depressione” (1873-96), che contribuirà a segnare i caratteri di un particolare modo di intendere i rapporti economici e poi politici tra gli Stati: l’età dell’imperialismo.
Crispi, primo ministro dopo la morte di Depretis, attuerà una politica coloniale molto più decisa, sia in Eritrea che in Somalia e accentuerà il conflitto doganale con la Francia. In quegli anni si definirà la posizione politica del mondo operaio. Il papa Leone XIII affrontò i problemi sociali con l’enciclica Rerum Novarum (1891), mentre, sul versante della sinistra, si costituirono le prime associazioni operaie: le Camere del Lavoro (1891), i Fasci dei lavoratori in Sicilia (1892-93) e il Partito Socialista Italiano (1893). Crispi, dopo una breve ma significativa presenza del ministero Giolitti (significativa soprattutto per le posizioni di apertura da lui assunte in riferimento alla questione sociale), tornò al governo e si mosse con durezza nei confronti delle forze socialiste e delle organizzazioni operaie. Lo scontro coloniale portò nuovamente Crispi a spingersi verso l’Etiopia, come già fece Depretis, ma il nostro esercito subì una nuova e più grave sconfitta ad Adua (1896). Crispi fu costretto a dare le dimissioni.
Il periodo che va dal 1896 al 1901 prese il nome di “crisi di fine secolo” a causa dei gravi disordini sociali che lo percorsero nonché dei tentativi reazionari che fallirono. Manifestazioni popolari scoppiarono in varie città italiane, ma la più grave fu quella sul caro pane a Milano che venne repressa con l’intervento dell’esercito sotto la guida del generale Bava Beccaris (1898). Il tentativo di attuare leggi repressive venne ostacolato dal ricorso dei parlamentari di sinistra alla pratica dell’ostruzionismo. All’inizio del nuovo secolo (luglio 1900) l’assassinio del re Umberto I ad opera dell’anarchico Bresci segnò il punto culminante della crisi. Il nuovo sovrano, Vittorio Emanuele III, figlio di Umberto, si apprestò a regnare nei primi anni di un secolo che si apriva all’insegna della belle époque. Nel 1901 prese avvio l’età giolittiana che accompagnò la storia del nostro Paese fino alle soglie del primo conflitto mondiale.

mercoledì 4 maggio 2011

La sosta di Giuseppe Garibaldi

Tra gli eventi accaduti nel paese di Arquata del Tronto vanno ricordati l'arrivo ed il pernottamento di Giuseppe Garibaldi, nell'anno 1849, che qui si fermò quando partì alla volta di Roma. Questa fu la terza ed ultima tappa in territorio ascolano.
La cronaca ci perviene dagli scritti di Candido Augusto Vecchi, fermano, capitano del 23° di linea piemontese e storiografo della guerra del 1848, che fu tra i più fedeli e cari amici del generale. Questi, al passaggio dell'eroe dei due mondi nella città di Ascoli Piceno si unì al gruppo, ma lo seguì fino a Rieti per poi proseguire da solo e raggiungere Roma dove svolse il suo mandato di deputato partecipando ai lavori dell'Assemblea Costituente.
In questo viaggio Garibaldi era già accompagnato da Nino Bixio, quale ufficiale d'ordinanza, Gaetano Sacchi, Marocchetti, Andrea d'Aguyar, servitore, e Guerrillo il suo piccolo cane, azzoppato da una ferita, che aveva l'abitudine di seguire il suo padrone camminando tra le zampe del suo cavallo.
Durante il trasferimento da Ascoli Piceno a San Pellegrino di Norcia fu ospitato nel paese di Arquata dal locale governatore Gaetano Rinaldi, capo della reazione clericale. Il generale dormì presso casa Ambrosi nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1849. Giunse ad Arquata il giorno di venerdì del 26 gennaio 1849 quando, dopo aver lasciato la città di Ascoli Piceno, si avviò verso le zone montane attraversando la parte più alta della valle del Tronto tra gli Appennini. Egli e il suo seguito lasciarono Ascoli intorno alle dieci del mattino raggiungendo la consolare Salaria accompagnati tra le vie cittadine dai carabinieri a cavallo, la guardia civica, la banda comunale, dodici carrozze e una folla festante. Giunti a porta Romana il generale congedò tutti e regalò una spada a Matteo Costantini, detto Sciabolone, quale segno della sua amicizia e rifiutò, per l'ennesima volta, la sua scorta sulle strade di montagna.
La prima sosta di ristoro avvenne ad Acquasanta Terme, dove Garibaldi, sceso da cavallo, si accomodò su un sedile di travertino per accendere il suo sigaro.
Ripreso il cammino la spedizione arrivò ad Arquata dove fu accolta ed ospitata con molto riguardo. Candido Augusto Vecchi racconta di un lungo pranzo che durò fino a mezzanotte. Il mattino seguente, 27 gennaio 1849, prima del sorgere del sole, il generale e i suoi lasciarono il paese per dirigersi verso Rieti. Il governatore d'Arquata regalò loro quattro libbre di tartufi come viatico. Si avviarono così alla volta di San Pellegrino percorrendo la strada che conduce a Pretare e quindi a Forca di Presta. Furono scortati dal figlio del governatore d'Arquata che portò con sé, e in loro onore, fino sulla cima della montagna, un vessillo tricolore di seta.
Il generale ricordò così la sosta ad Arquata nelle sue Memorie: «(...) ed io per le via di Ascoli e la valle del Tronto, con tre compagni per percorrere ed osservare la frontiera napoletana. Valicammo gli Appennini, per le scoscese alture della Sibilla, la neve imperversava, mi assalirono i dolori reumatici che scemarono tutto il pittoresco del mio viaggio. Vidi le robuste popolazioni della montagna, e fummo ben accolti, festeggiati dovunque, e scortati da loro con entusiasmo.»
Ad Arquata quali segni di questo evento rimangono la Via Garibaldi e una lapide affissa sulla parete esterna di casa Ambrosi, qui spostata dalla primaria collocazione sul muro della torre civica, in cui si ricorda la sosta del generale. L'iscrizione così recita: «QUI - NEL 19 FEBBRAIO 1849 - TRAENDO ALLA VOLTA DI ROMA - FU - GIUSEPPE GARIBALDI - IL SUO NOME E UNA STORIA E UN'EPOCA - A PERPETUA RICORDANZA - MUNICIPIO E POPOLO D'ARQUATA - POSERO - NEL 20 AGOSTO 1882» Corre l'obbligo di precisare che la data 19 febbraio, scolpita sulla pietra, è inesatta poiché Garibaldi arrivò e pernottò tra il 26 e il 27 gennaio. L'iniziativa di apporre una lapide commemorativa a ricordo dello straordinario evento della sosta del generale fu presa da un comitato promotore e sostenuta dal municipio dopo la morte dell'eroe dei due mondi che avvenne il 2 giugno 1882.
La cronaca dell'evento dell'inaugurazione della pietra ci giunge dalle corrispondenze di Girolamo Rilli e di Marietta Zocchi Girardi, rispettivamente pubblicate sulla Gazzetta di Ascoli Piceno del 23 e del 24 agosto del 1882. Lo scoprimento della lapide avvenne il 20 agosto 1882, alle dieci e trenta del mattino, seguito dall'esecuzione dell'inno garibaldino e dai discorsi delle autorità e dei membri del comitato promotore. Sulle pagine della Gazzetta si leggono riportate anche la commossa ed entusiasta partecipazione di tutta la cittadinanza intervenuta e la moltitudine di drappi, bandiere e festoni che sventolavano dalle finestre del borgo affacciate sulla piazza.

domenica 1 maggio 2011

L'eroe Garibaldi, le donne e gli amori


 L'anticlericalismo era una delle tante peculiarità di Giuseppe Garibaldi, guerrigliero, stratega, personalità complessa e sfaccettata, dotato di un fascino in cui brillava il coraggio fisico e l'assoluto disinteresse nel segno di una causa che per lui significava libertà. Proprio qui a Padova, in Prato della Valle l'eroe tenne un comizio sulfureo occupato in gran parte da un'invettiva feroce contro i preti. Il suo «livre de chevet» era il «Nouveau Christianisme» di Saint Simon, un credo senza gerarchie e autorità, quasi un panteismo venato di fratellanza massonica. Il generale si inserisce perfettamente nel milieu culturale di Padova, una polveriera dal 1848 in poi, un serpeggiare di confraternite, società segrete, complotti antiaustriaci che affiancavano studenti e docenti universitari, professionisti, operai, contadini, un mix formidabile e incendiario. C'è anche una «coté» mangereccia di questa inquietudine che si estendeva ai ceti popolari del Portello, di borgo Santa Lucia e delle viuzze delle botteghe artigiane attorno al centro storico: «vuoi puenta e sepe o risi, bisi e fragole?». Preferisci il giallo e il nero, colori asburgici, cibo austriacante o il bianco rosso e verde di una ricetta primaverile e curiosa? Il libro di Colasio, ricchissimo di illustrazioni, srotola un filo rosso che percorre tutto il Risorgimento, rievoca personaggi e avvenimenti nel contesto monumentale della città: il Pedrocchi, il Prato, il palazzo del Bo. Agosto 1866. Garibaldi aveva sconfitto gli austriaci a Bezzecca e si accingeva a puntare su Trento. Ma riceve un dispaccio, il 1073, mentre si trova nel paesino di Storo, è firmato dal generale La Marmora, dice: «Considerazioni politiche esigono imperiosamente la conclusione dell'armistizio per il quale si richiede che tutte le nostre forze si ritirino dal Tirolo. D'ordine del re ella disporrà quindi in modo che per le ore 4 antimeridiane di posdomani 11 agosto, le truppe da lei dipendenti abbiano ripassato la frontiera del Tirolo». Una copia di quest'ordine è conservata nel Museo del Risorgimento di Padova. La risposta di Garibaldi è anche nei libri di storia di scuola media. Il messaggio arrivò al Comando Supremo dell'Esercito che si trovava a Palazzo Mantua Benavides in piazza Eremitani. Questo il testo: «Ho ricevuto il dispaccio 1073. Obbedisco. G. Garibaldi». Risposta, appunto, telegrafica, nessun commento, anche se piegare il capo deve essergli costato parecchio. Nel 1867 il condottiero nizzardo si concede un viaggio nel Nordest, non è il riposo del guerriero, piuttosto una perlustrazione e un sondaggio degli umori. Il 5 marzo è a Padova ospite di Paolo Da Zara. In quell'occasione il generale incontrò gli studenti universitari. Fu un momento di grande entusiasmo, i giovani volevano imbracciare le armi e partire con lui. Oggi in via Umberto una targa ricorda il soggiorno dell'eroe in camicia rossa: «Giuseppe Garibaldi, nel marzo del 1867 con sua breve dimora, glorificò questa casa per secoli». Fu posta nel 1883 un anno dopo la morte di Garibaldi. Si era spento il 6 giugno del 1882 e la città aveva deciso di erigere alla memoria un grande monumento. Il lavoro fu affidato allo scultore Ambrogio Borghi: Garibaldi è ritratto a figura intera, sciabola al fianco, mantello, la testa leonina, sul risvolto della giubba pende un paio di occhiali a pince-nez. La statua su un alto piedistallo fu collocata in piazza dei Noli, oggi piazza Garibaldi, ma negli anni Trenta fu trasferita nell'area dei giardini dell'Arena. Al suo posto la Madonna dei Noli, opera seicentesca del Bonazza. Sia il Veneto che Padova con la sua Università parteciparono alla spedizione dei Mille con una schiera numerosa. I padovani erano una ventina, c'era anche un ragazzino di 11 anni a condividere la passione e i rischi dell'impresa con il padre. Ma uno dei personaggi di spicco, trasportati dai due vapori da Quarto alla Sicilia fu il padovano Ippolito Nievo. Scrittore, brani delle «Confessioni di un Italiano» li abbiamo letti nei sussidiari delle medie. Vibrante di patriottismo e malato d'amore, tratto comune in molti giovani di allora, Nievo ebbe una parte importante nella spedizione non solo come combattente, ma anche per il delicato incarico di tesoriere. Muore nel naufragio del piroscafo Ercole, nella notte tra il 4 e il 5 marzo del 1861 mentre attraversa il mare da Palermo a Napoli. Umberto Eco nel suo ultimo romanzo «Il cimitero di Praga» lascia trapelare un sospetto: l'inabissamento dell'Ercole fu frutto di un attentato. Insomma, Nievo come Mattei, vittima di un misterioso intrigo. Le donne e l'eroe. Garibaldi è quasi un santo-guerriero per il mondo femminile del tempo. Antonia Masanella, al secolo Tonina Marinelli di Cervarese Santa Croce si traveste da uomo e combatte in Sicilia con i Mille, ma anche nei salotti della nobiltà, a Padova e a Venezia si trama contro l'Austria e a favore di Garibaldi. Due nomi: Leonilde Lonigo e Maddalena Montalban Comello. Volantinaggi, sottoscrizioni, carbonari nascosti in casa. Ma, più curioso, il progetto di regalare a Garibaldi una daga con il manico finemente cesellato. Le due patriote volevano anche organizzare un battaglione femminile che desse manforte agli insorti. Garibaldi tenne con entrambe un fitto carteggio concludendo ogni sua lettera con la frase «Vi baccio le mani». Indubbiamente era più uomo di spada che di lettere. Particolare macabro. La Montalban teneva in casa come una reliquia il braccio imbalsamato del generale Giacomo Antonini che gli era stato amputato nella difesa di Vicenza. Leonilde e Maddalena condannate per alto tradimento scontano un anno e mezzo ai Piombi di Venezia. Questa l'Italia del Risorgimento calda di amor di patria e di spirito di sacrificio: «Chi per la patria muor, vissuto è assai». Un neo: l'Italia nasce a Torino nel 1861. Alle elezioni partecipa l'1 per cento degli italiani: 240 mila maschi con un carico di imposta di almeno 40 lire.