/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": marzo 2013

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venerdì 29 marzo 2013

Calà Ulloa Girolamo


Calà Ulloa Girolamo (Napoli, 1810 – Firenze, 1891)
Generale e patriota. Alfiere d'artiglieria dell'esercito borbonico, venne implicato (1833) col fratello Antonio (1807-1889) nella congiura di Cesare Rosaroll; assolto, fu riammesso nell'esercito e si dedicò agli studi militari.Deputato della provincia di Napoli (1848), nel 1849 partecipò alla difesa di Venezia e dopo la caduta della città andò in esilio a Parigi.Rientrato in Italia (1859), fu comandante in capo dell'esercito toscano; ma sospettato di favorire le aspirazioni di Girolamo Napoleone al trono di Toscana, fu costretto ad abbandonare il comando.Tornato a Napoli, seguì poi Francesco II a Roma (1861). Nel 1866 si stabilì a Firenze e si dedicò agli studi militari

venerdì 22 marzo 2013

Moti di Savigno (1843)



L’attività cospirativa dei patrioti che portò ai fatti del 1843 ebbe inizio diversi anni prima, nel 1837, in particolare per opera di Nicola Fabrizi, fondatore della Legione Italica, che doveva essere il “braccio armato” della Giovine Italia di Mazzini. Fin dal 1838 il Fabrizi, scrivendo a Pasquale Muratori, lo individuava come “candidato ideale” a capeggiare un moto insurrezionale sull’Appennino bolognese. Pasquale Muratori, infatti, conosceva bene il territorio, avendo proprietà (insieme al fratello Saverio) a Pramarano in Tignano, all’interno del comune di Monte San Pietro, proprio al confine con Praduro e Sasso. Il moto si sarebbe dovuto estendere progressivamente, per poi portare alla sollevazione di Bologna e alla caduta del Governo pontificio. Anche se Mazzini mostrò la sua opposizione al moto, Fabrizi decise per l’azione. Pasquale Muratori aveva già organizzato un gruppo armato, formato da alcune decine di rivoluzionari. Un rapporto del Priore di Praduro e Sasso, confinante con Monte San Pietro tramite il torrente Lavino, indirizzato al cardinale legato Spinola racconta come la situazione si era andata evolvendo già dalla notte del 13 agosto 1843. Il racconto era basato sulla testimonianza di Giuseppe Medici, colono nel podere “Casino Nuovo” di Monte San Giovanni, che denunciò come “nella notte della domenica 13 corrente agosto essendo circa le tre ore di notte comparvero nella casa colonica di detto podere la Canova circa 40 individui la di cui metà armati di schioppe, o schioppi da caccia, di pistole, e coltelli, e vollero ivi pernottare. Asserisce egli, che in detta conventicola erano li fratelli Pasquale e Saverio Muratori domiciliati in Pramarano in Tignano, giurisdizione del Comune di Monte S. Pietro, Gaetano Turri di Bologna con altri bolognese della classe plebea male vestiti, ed equipaggiati. Alle ore 7 circa antimeridiane d’oggi [15 agosto] sono partiti prendendo la carreggiata del Lavino verso la Badia sotto la Comune di Monte S. Pietro. Il 15 agosto la “conventicola” assaltò l’osteria di Savigno, dove si trovava una compagnia di carabinieri pontifici. Dopo un lungo combattimento i ribelli ebbero la meglio, lasciando sul posto i corpi di alcuni carabinieri e prendendo in ostaggio il capitano Castelvetri, che successivamente venne ucciso. Gli insorti erano in attesa della sollevazione di Bologna, ma dalla città non arrivò nessuna notizia in quel senso: si trovarono perciò ad essere inseguiti dalle truppe pontificie sulle colline tra la valle del Reno e del Lavino. Il 25 agosto l’inseguimento finì con la cattura dei ribelli. Muratori riuscì a fuggire oltrepassando il confine toscano e si rifugiò in Francia. Il moto per la liberazione dal potere pontificio era fallito.


domenica 17 marzo 2013

Il Mito della Gioventu'

Quanti si impegnarono nelle cospirazioni e nelle battaglie risorgimentali erano per lo più giovani: ad esempio, i patrioti arrestati nel 1833-34 perché appartenenti alla rete clandestina mazziniana della Lombardia avevano generalmente tra i venti e i trent'anni.Questa prevalente partecipazione giovanile aveva anche a che fare con la prestanza fisica che certe imprese militari richiedevano e con la minor presenza, nel caso dei giovani, delle responsabilità familiari che inevitabilmente condizionavano le scelte degli adulti. Ma una tale partecipazione si inseriva soprattutto in un clima culturale europeo caratterizzato da un'esaltazione della gioventù e del suo ruolo nella storia. Clima che naturalmente faceva sentire i suoi effetti quasi soltanto nei ceti più abbienti e acculturati della società dell'epoca.I giovani cospiratori avevano appreso a sentirsi parte di una stessa generazione – avevano cominciato a percepirsi appunto come «giovani» – attraverso la lettura delle sofferenze per cui erano passati il giovane Werther di Goethe e il giovane Ortis di Foscolo; o anche attraverso la lettura del «pellegrinaggio» di cui era protagonista un altro degli eroi letterari dell'epoca, il giovane Harold di Byron.I giovani dell'epoca avevano ricavato dalla lettura di Jean-Jacques Rousseau, in particolare dell'Emilio, l'idea che la gioventù fosse un'età ancora immune dalla corruzione e dall'ipocrisia che caratterizzavano invece la società degli adulti.  Le stesse biografie di grandi poeti come Byron, Shelley, Keats (morti rispettivamente a 36, 30 e 26 anni) rendevano familiare l'idea che il momento centrale della vita andasse collocato nella giovinezza. Un dato, quest'ultimo, che era reso a tutti evidente dalla facilità con cui si poteva morire prima ancora di diventare adulti.L'idea di una peculiare disponibilità della gioventù alla rivoluzione e alla lotta era perfino banale per la nuova cultura borghese e aristocratica del tempo: i giovani – aveva scritto nei primi anni dell'Ottocento il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte – «recano in petto un mondo tutto nuovo e diverso». Si trattava di una convinzione evidentemente connessa ai tumultuosi avvenimenti del periodo rivoluzionario e napoleonico.La Rivoluzione dell'89 infatti, interrompendo la continuità storica, presentandosi come rifiuto del passato e della tradizione, aveva anche accreditato il ruolo centrale dei giovani in quanto naturali protagonisti di una rifondazione della società. La strettissima connessione tra la gioventù e il processo rivoluzionario scaturito dall'89 aveva poi trovato la sua massima espressione in Napoleone: i suoi soldati, quando entrarono a Milano nel 1796, scrisse Stendhal nella Certosa di Parma, avevano «tutti meno di venticinque anni, e il loro generale in capo, che ne aveva ventisette, passava per il più vecchio».Come avrebbe scritto Alfred de Musset nella Confessione di un figlio del secolo (1836), sintetizzando una percezione diffusa nella cultura europea dei primi anni o decenni dell'Ottocento, dietro i giovani c'era «un passato per sempre distrutto davanti a loro, l'aurora di un immenso orizzonte, i primi chiarori dell'avvenire».«La gioventù – scrisse Mazzini nel 1831 nella sua lettera aperta a Carlo Alberto – è bollente per istinto, irrequieta per abbondanza di vita, costante ne' propositi per vigore di sensazioni, sprezzatrice della morte per difetto di calcolo». Mazzini, se mostrava così di condividere un mito che circolava nella cultura del tempo, diede però al richiamo alla gioventù un essenziale significato politico. L'associazione da lui fondata nell'esilio francese, la Giovine Italia, si rivolgeva anzitutto ai giovani, come indicavano la sua stessa denominazione e il fatto che l'adesione fosse espressamente riservata a chi non aveva superato i quarant'anni.Il ruolo privilegiato della gioventù si giustificava sulla base della lettura che Mazzini dava allora della rivoluzione francese del luglio 1830 e dei tentativi italiani del 1831, interpretati appunto nei termini di un conflitto generazionale. Nella rivoluzione di luglio – scriveva – era stata la gioventù a vincere; ma gli uomini della generazione precedente, che pure «alcuni anni addietro avevano comunicato l'impulso,  s'erano ritratti atterriti» e avevano accettato la monarchia orleanista.Analogamente, nella rivoluzione dell'Italia centrale i giovani, infiammati «al sole della novella civiltà», fiduciosi nelle «idee di patria comune, di fratellanza italiana», si erano gettati nella mischia con entusiasmo. Ma era subentrata la delusione quando il loro coraggio si era dovuto scontrare con la «lentezza» e la «incapacità» dei capi, bollati dal fondatore della Giovine Italia come «uomini del passato». Non poteva non essere sensibile all'appello rivolto da Mazzini alla gioventù quella parte consistente di esuli che era appunto formata da giovani: come scrisse in un suo rapporto il prefetto di Marsiglia, i rifugiati italiani, «in maggioranza giovani, hanno abbracciato con entusiasmo le sue idee».Dalla Giovine Italia noi «siamo messi da parte – scriveva nel 1832 un esule a un corrispondente   giacché vi si proclama che il segreto del secolo sta nelle mani dei nati col secolo. Noi siamo dei barbogi del tempo degli Argonauti». Un analogo malumore traspariva dalle parole di un esule che aveva partecipato ai moti del 1821, il quale accusava i mazziniani di non fidarsi «che di ragazzi e di gente incapace».Mazzini chiarì più volte che il limite dei quarant'anni non andava inteso alla lettera e che dunque la Giovine Italia avrebbe accolto volentieri quanti, pur nati in un'epoca anteriore, erano disposti a seguirne i princìpi. Nonostante questa apertura, restava il fatto che definire i cospiratori più anziani come «uomini del passato» costituiva, tanto più in un'epoca dominata dall'idea di progresso, un'arma polemica efficacissima.Chi era invecchiato in un sistema di idee superato, chi restava ancorato al materialismo e all'individualismo del XVIII secolo, secondo Mazzini difficilmente avrebbe potuto mutare le proprie convinzioni e guidare con successo la battaglia per l'indipendenza nazionale.Fu soprattutto con i moti del 1848-1849 che la centralità dei giovani si allargò oltre i ranghi della cospirazione (mazziniana e non solo) diventando un fenomeno diffuso. Le insurrezioni del '48 videro infatti protagonista la gioventù intellettuale urbana, ma anche tanti giovani e ragazzi del popolo.Allo scoppio delle ostilità tra il Piemonte e l'Austria, furono migliaia i giovani che si arruolarono nelle formazioni volontarie; un fenomeno, quello del volontariato, che avrebbe poi scandito a più riprese la lotta per l'indipendenza e l'unità nazionale. Uno degli episodi più famosi del '48, destinato a simboleggiare come forse nessun altro la partecipazione dei giovani al Risorgimento, fu quello degli studenti universitari toscani (in gran parte dell'ateneo di Pisa) che, arruolatisi volontari, combatterono eroicamente contro gli austriaci a Curtatone e Montanara, a poche miglia da Mantova, riportando molte perdite.Proprio l'episodio appena citato di Curtatone e Montanara doveva legare la partecipazione dei giovani alla loro accentuata disponibilità al sacrificio e al martirio, alla loro capacità di far prevalere l'amore per l'Italia su ogni altro sentimento e affetto.Ecco ad esempio le parole dell'«addio del volontario» cantato allora dai giovani studenti toscani: «Addio, mia bella addio, / l'armata se ne va; / se non partissi anch'io / sarebbe una viltà! Tra quanti moriranno / forse ancor io morrò; / non ti pigliare affanno, / da vile non cadrò».Il 1848-1849 popolarizzò (e consegnò alla leggenda) il binomio gioventù ed eroismo anche attraverso una delle figure più famose tra i caduti del Risorgimento, il mazziniano Goffredo Mameli.Morto a ventisette anni nella difesa della Repubblica romana, aveva composto poco prima (nel 1847) le parole del futuro inno nazionale italiano; un inno nel quale, non per caso, Mameli richiamava la figura di Balilla, l'eroe giovinetto che secondo la tradizione a metà del Settecento aveva incitato i genovesi alla ribellione contro gli austriaci che occupavano la citta'.

domenica 3 marzo 2013

Giuseppe Bandi


Scrittore e patriota (Gavorrano, Grosseto, 1834 - Livorno 1894), mazziniano, preparò una rivolta in Toscana nel 1857, che fallì e costò al B. due arresti e un anno di prigionia. Nel 1859 entrò nell'esercito piemontese, che abbandonò nel 1860 per partecipare alla spedizione dei Mille; di nuovo ufficiale regio, partecipò alla battaglia di Custoza (1866). Dopo il 1870, si diede al giornalismo fondando e dirigendo due giornali, la Gazzetta livornese (1872) e il Telegrafo (1877). Nell'opera I Mille, pubblicata a puntate sul Messaggero e sul Telegrafo dal 1886 (raccolta poi in volume nel 1902), lasciò i ricordi dell'impresa; essa, insieme con le Noterelle dell'Abba, è la più vivace e limpida rievocazione della spedizione garibaldina. Morì assassinato da un anarchico.