/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": febbraio 2011

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domenica 27 febbraio 2011

Carlo Botta

Nasce a San Giorgio Canavese nel 1766. Nel 1786 si laurea in Medicina a Torino. Segue con entusiasmo la Rivoluzione francese e coltiva sentimenti repubblicani e di opposizione al governo sabaudo. Partecipa ad uno dei club giacobini torinesi e, quando si scatena la reazione, deve riparare in Francia, nel 1798 segue Napoleone nella campagna d'Italia come medico e diventa poi membro del governo provvisorio piemontese come segretario dell'istruzione pubblica.

Nel 1799, insieme con altri esuli di tendenze repubblicane, presenta al "Consiglio dei 500" di Parigi una proposta per la creazione di uno Stato italiano unito e indipendente.
Dopo la battaglia di Marengo (1800) è Deputato al Corpo Legislativo di Parigi per il Dipartimento della Dora. Durante i "Cento giorni" (1815) è Rettore all'Università di Nancy, poi (1817-1822) di quella di Rouen. La delusione per la politica di Napoleone lo farà orientare verso un recupero del riformismo moderato settecentesco.
Muore a Parigi nel 1837.
Le sue principali opere:
- la Storia della guerra d'indipendenza degli Stati Uniti d'America (1809)
- la Storia d'Italia dal 1789 al 1814 (1824)
- la Storia d'Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 (1832).Lo stile storiografico di Carlo Botta, ornato ed elegante, si ispira al modello dello storico latino Tacito, soprattutto per il giudizio morale con cui delinea i suoi personaggi.

L'Eccidio di Pontelandolfo

Era l’alba del 1° agosto dell’anno 1861. A Pontelandolfo si avvertiva nell’aria odore di fermento. I poveri raccolti non bastavano più a pagare le tasse ed i balzelli imposti dalle autorità piemontesi. I contadini avevano assistito increduli alle gesta del generale Garibaldi. Ben presto si erano resi conto che stava dalla parte dei borghesi, dalla parte dei signorotti. Gli eccidi di Bronte, Niscemi e Regalbuto l’avevano detta lunga sulla sua appartenenza di classe a da che parte stava.

I pontelandolfesi erano stanchi delle razzie piemontesi, della guardia mobile, dei loro notabili. Le nuove disposizioni del giugno 1861 circa la coscrizione di leva avevano agitato ancora di più le acque. I giovani preferirono la macchia al nuovo padrone piemontese, preferirono gli stenti, i sacrifici, la morte. Il popolo rimpiangeva i tempi in cui governavano i Borbone (vedi foto) e non aspettava altro che il momento in cui la rabbia di un anno di vessazioni sarebbe esplosa.
L’arciprete Don Epifanio De Gregorio assieme ad una moltitudine di attivisti borbonici manteneva i contatti con i contadini, sapeva infondere loro la speranza di un domani migliore in quanto con il prossimo ritorno di Re Francesco si sarebbe ristabilito il vecchio ordine. Finalmente ci si poteva organizzare attorno ai partigiani che stazionavano sui monti e cacciare i liberali dissacratori di chiese e saccheggiatori di beni.
Nonostante il servizio al corpo di guardia fosse stato rinforzato, il giorno 2 agosto, il partigiano Gennaro Rinadi detto Sticco, si presentò al sindaco Melchiorre consegnandogli una missiva su cui c’era scritto che il sergente dei regi Marciano, comandante della brigata partigiana Frà Diavolo, chiedeva al primo cittadino 8.000 ducati, due some di armi e viveri entro 48 ore, altrimenti avrebbe messo a ferro e fuoco le case dei traditori liberali. Tale somma doveva essere consegnata al latore del biglietto.
Chiamato dal sindaco, il 3 agosto giunse in paese il colonnello della Guardia Nazionale De Marco a capo di una colonna di 200 mercenari. Una cinquantina di guardie chiusero l’entrata della piazza mentre gli altri cominciarono a razziare le case dei pontelandolfesi. Ma era rimasto ben poco da rubare, la gente era affamata. Venne saccheggiata anche la chiesa di San Rocco dove De Marco e i suoi mercenari avevano preso alloggio.Durante la notte tra il 4 ed il 5 agosto le montagne che cingevano Pontelandolfo brulicavano di partigiani: i fuochi accesi erano tantissimi e davano coraggio alla popolazione, scoramento e paura ai liberali.
Il colonnello garibaldino De Marco inquieto diede ordine alla sua colonna di prepararsi ad abbandonare il paese.Il 6 agosto emissari di Don Epifanio raggiunsero al galoppo l’accampamento di Cosimo Giordano per invitare i partigiani regi in chiesa a ringraziare il Signore.
La brigata Frà Diavolo composta da circa trenta partigiani, dopo l’azione di guerriglia di San Lupo si diresse verso Pontelandolfo. Il paese era in festa per la fiera di San Donato in pieno svolgimento. Tutti aspettavano con impazienza l’arrivo dei loro eroi, l’arrivo dei partigiani regi comandati da Cosimo Giordano (vedi foto) che stava combattendo la guerra santa contro gli infedeli piemontesi.
Il 7 agosto mentre il campanile rintoccava la quinta ora pomeridiana, la brigata d’eroi giunse in paese tra ali di folla in festa. L’arciprete Don Epifanio de Gregorio cominciò a lodare il signore con il Te Deum per ringraziare Francesco II. I guerriglieri, seguiti da oltre tremila popolani, si diressero verso il Corpo di Guardia, disarmarono i pochi ufficiali rimasti e lo devastarono. I quadri di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi furono ridotti in mille pezzi, le suppellettili furono messe sottosopra. La bandiera tricolore fu staccata e dal panno bianco si strappò lo stemma sabaudo. Il popolo eccitato, come ubriacato dall’avvenuta libertà, urlava, gridava la propria gioia.
Angelo Tedeschi da San Lupo, ritenuto essere la spia dei piemontesi, fu scovato rannicchiato nella sua stalla, sotto il fieno, e freddato con un colpo di fucile da Saverio Di Rubbo. Nella bolgia, un colpo vagante colpì, ferendolo, Pellegrino Patrocco, eremita di Sassinoro, ed un altro colpì in casa sua, uccidendolo, Agostino Vitale. L’esattore Michelangelo Perugini, liberal massone e reo di aver spremuto e ricattato i contadini, fu ammazzato e la sua casa bruciata. Il popolo poteva sfogare la propria rabbia repressa da un anno di sudditanza totale, di dittatura, di terrore, di ruberie, di violenze subite e mal celate. Cosimo Giordano ed il suo vice, seguiti dal popolo, si diressero verso la casa Comunale, ove distrussero i registri dei nati per evitare la chiamata alle armi dei giovani di Pontelandolfo in caso che i piemontesi avessero rimesso i piedi nel paese. La bandiera tricolore fu bruciata sul balcone e al suo posto venne issata quella borbonica. I prigionieri furono liberati dal carcere. Venne istituito un governo provvisorio. Pontelandolfo, dunque, era diventata il centro della reazione borbonica nel Sannio. Guerriglieri dei paesi limitrofi, specialmente quelli di Casalduni e di Campolattaro, erano venuti ad ingrossare la banda di Giordano per tenere alto l’onore del Regno delle Due Sicilie e di Francesco II.Il 9 agosto, trenta partigiani furono scelti per attaccare la carrozza postale che ogni giorno passava per la provinciale, portando qualche passeggero e i soldi che servivano alle spese della truppa e degli impiegati piemontesi. Soldi e balzelli che il governo di Torino esigeva dalle popolazioni, che dovevano persino pagare la famosa tassa di guerra. Non vi fu alcuna azione cruenta, a tutti i passeggeri furono rubati solo i soldi ed i loro preziosi. Intanto Cosimo Giordano fece fucilare Libero D’Occhio dopo un processo sommario che lo riconobbe spia dei piemontesi e traditore della patria.
La bandiera gigliata sventolava sui pennoni più alti. Con i soldi sequestrati dai partigiani furono sfamate le famiglie che più avevano bisogno. Al Comune si distribuiva il pane, i muri delle case erano tappezzati di manifesti inneggianti alla rivolta contro i piemontesi e le strade piene di volontari. I manifesti affissi durante la notte dai partigiani della banda Giordano riportavano il proclama del Comandante in Capo Chiavone (vedi foto) che operava tra la Ciociaria e gli Ausoni.
Su ordine del Generale Cialdini il 13 agosto partì da Benevento una colonna di bersaglieri, tutti tiratori scelti, comandata dal Generale Maurizio De Sonnaz detto Requiescant per le fucilazioni facili da lui ordinate e per il massacro di parecchi preti e l’attacco ad abbazie e chiese. Il generale piemontese era a capo di novecento bersaglieri assassini e criminali di guerra. Il colonnello Negri procedeva a cavallo, con al suo fianco il garibaldino del luogo de Marco e due liberali pure del posto a far da guida ai cinquecento bersaglieri, che costituivano la colonna infame che stava dirigendosi verso Pontelandolfo. Un’altra colonna di quattrocento bersaglieri si stava portando verso Casalduni.
Era l’alba del 14 agosto. Gli ordini di Cialdini erano precisi: Pontelandolfo doveva pagare con la morte la sfida fatta al potente Piemonte.La banda di Cosimo Giordano bivaccava a circa un chilometro dal paese, nella selva, tra i monti presso la località Marziello. I partigiani avvertiti dai pastori, s’erano appostati per tendere un agguato ai piemontesi, ma erano solo cinquanta. Una scarica di pallottole colse di sorpresa i bersaglieri. Tutti scesero da cavallo, qualcuno cadde morto, altri furono feriti, altri ancora risposero al fuoco, ma era ancora buio e la selva copriva le ombre dei partigiani borbonici, i quali continuavano a sparare sul mucchio, alla cieca, non potendo mirare giusto data l’ora mattutina. La sparatoria durò pochi minuti, ma fu feroce e ravvicinata. Gli uomini di Giordano, avvantaggiati dall’effetto sorpresa vedendo che i bersaglieri prendevano posizione di combattimento e presagendo una sconfitta, naturale, date le forze in campo, si diedero alla fuga. I bersaglieri contarono venticinque morti. Il colonnello Negri, anziché inseguire i patrioti di Giordano, diede ordine al plotone di comporre le salme dei caduti e di proseguire la marcia verso Pontelandolfo. L’esercito piemontese circondò il paese, fucile alla mano, pronto a far fuoco. Un plotone, con il De Marco e due liberali, entrò nella città ad indicare le case dei settari massoni da salvare. Portata a termine l’operazione salvataggio dei settari, che non superavano la decina, i bersaglieri si gettarono a capofitto nei vicoli e nelle strade di Pontelandolfo. Erano le quattro del mattino quando ebbe inizio l’eccidio. Le case furono incendiate. Gli abitanti, armati di roncole e forche, tentarono una sterile difesa, ma i fucili dei piemontesi ebbero inesorabilmente la meglio su di loro. Alcuni vennero stesi nella propria abitazione, altri dormienti nel proprio letto, altri mentre fuggivano. Qualcuno riusciva ad oltrepassare la porta di casa ma veniva abbattuto sull’uscio senza pietà. Grida, urla, gemiti dei feriti, pianti dei bambini. Pontelandolfo fu messa a ferro e fuoco. Tutto il paese bruciava. Nicola Biondi, contadino sessantenne, fu legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri, i quali denudarono la figlia Concettina, di sedici anni, e tentarono di violentarla. Ma la ragazza difese strenuamente l’onore. Dopo un’aspra colluttazione, sanguinante cadde a terra esanime. Una scarica micidiale di pallottole abbatté il padre Nicola. Decine e decine erano i cadaveri disseminati nei vicoli, nelle strade, nelle piazze. Alle ore sei metà paese era in fiamme, mentre i bersaglieri continuavano la mattanza Ancora uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla. I vecchi venivano fucilati subito e così i bambini che ancora dormivano nei loro letti. Dopo aver ammazzato i proprietari delle abitazioni, le saccheggiavano: oro, argento, catenine, bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti. Il sangue scorreva a fiumi per le strade di Pontelandolfo. Prima ad essere saccheggiata fu la chiesa di San Donato, ricca di ori, di argenti, di bronzi lavorati, di voti, persino le statue dei santi furono trafugate. Il saccheggio e l’eccidio durarono l’intera giornata del 14 agosto 1861. Donne seminude, sorprese mentre dormivano, cercavano scampo fuggendo; ma, se vecchie, venivano subito infilzate, se giovani ed avvenenti, venivano violentate e poi uccise. I morti venivano accatastati l’uno sull’altro. Chi non riusciva a morire subito doveva anche sopportare la tortura del fuoco, che veniva appiccato sopra i cadaveri con legna secca e fascine fatte portare lì da giovani sotto la minaccia delle baionette.
Dopo ore di stragi, di eccidi, di massacri, di ruberie, il generale De Sonnaz fece suonare l’adunata ed il ritiro della colonna infame. Al suono del trombettiere tutti si ritirarono. Inquadrati sull’attenti al cospetto del generale De Sonnaz e del colonnello Negri, si diressero verso Benevento, ove il giorno dopo, nei loro alloggiamenti, mercanteggiarono tutto il bottino sacro profanato. Il laconico messaggio del colonello Negri, di passaggio da Fragneto Monforte, recitavaL’ennesimo truculento eccidio era stato portato a compimento con forsennata ferocia e senza pietà alcuna verso una popolazione inerme, fiera del suo Re Borbone, fiera della sua dignità, fiera della sua libertà, fiera della sua storia ultrasecolare, fiera di essere italiana, fiera della sua religione.

Il Generale Giuseppe Sirtori

Venerdì 3 giugno alle ore 21 presso le Scuderie di Villa Greppi gli alunni della V Ginnasio, assieme al loro docente di Latino e Greco, presenteranno i risultati del loro lavoro di ricerca sul Generale di Casate Vecchio, Giuseppe Sirtori, che fu il “braccio destro” di Garibaldi nella celebre Spedizione dei Mille (1860). Nato a Casate Vecchio nel 1813, sacerdote, il Sirtori smise l'abito talare nel 1844 e si recò a Parigi, dove prese parte alla rivoluzione del febbraio del 1848. Tornato in Italia, partecipò con G. Pepe alla difesa di Venezia e alla sua caduta andò esule a Londra (1849); in contatto con gli ambienti mazziniani, fu presto in disaccordo con la loro rigida pregiudiziale repubblicana e preferì tornare a Parigi, continuando lì la sua attività di propaganda a favore dell'unità d'Italia. Rientrato in patria (1859), nel 1860 fu eletto deputato e prese parte, come capo di Stato Maggiore, alla celebre Spedizione dei Mille, nel corso della quale fu nominato dittatore provvisorio di Palermo e poi pro-dittatore di Napoli. Al comando di una divisione dell'esercito regolare durante la guerra del 1866, collocato a riposo per le critiche avanzate agli alti comandi dopo la battaglia di Custoza, fu riammesso nell'esercito nel 1872. Morì a Roma nel 1874.

venerdì 25 febbraio 2011

Torino ritorna capitale d'Italia

Unità d’Italia: Torino torna capitale con celebrazioni del 150esimo


Capitale d’Italia per soli quattro anni (1861-1865) prima di “passare la mano” a Firenze, Torino torna al suo ruolo originario in occasione dei 150 anni dell’Unità. La città dei Savoia che ha guidato il processo risorgimentale si presenta all’appuntamento comune programma fitto di eventi. “Esperienza Italia”, il nome prescelto per le manifestazioni, imperniate su Venaria reale e sulle Officine grandi riparazioni (Ogr), in cui a fine ‘800 venivano aggiustati i convogli ferroviari. Da marzo a dicembre, la reggia alle porte della città, residenza dei Savoia, sarà teatro di esposizione ed eventi sulla moda, il genio italico di Leonardo, il paesaggio e l’enogastronomia; nel grande complesso di archeologia industriale saranno invece esposte le mostre “Fare gli italiani”, “Stazione futura”, sulle nuove tecnologie, e “Artieri domani”, dedicata all’artigianato e al lavoro manuale.Ma non mancheranno i luoghi storici in cui “fu fatta” l’Unità: la ricostruzione del primo Senato a Palazzo Madama, in cui il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II proclamò la nascita del Regno d’Italia, il museo del Risorgimento completamente restaurato a Palazzo Carignano o la riapertura del museo dell’automobile e di Palazzo Reale. E ancora, dalla realizzazione del Parco Dora, in un’area lungo il fiume dove fino a pochi anni fa sorgevano fabbriche e officine, alla ristrutturazione del Mastio della cittadella fortificata. “Abbiamo investito quell’orgoglio che abbiamo costruito con le Olimpiadi”, dice il sindaco Chiamparino. Per il governatore Cota, “rappresentante dell’ala federalista del comitato”, come si autodefinisce, i 150 anni dell’Unità saranno invece “un’occasione importante per guardare al futuro e dal al Paese uno Stato più moderno ed efficiente, anche attraverso i decreti sul federalismo in via di attuazione in questi giorni”. E a smentire i luoghi comuni sull’indifferenza per la ricorrenza provvede il presidente della Provincia di Torino, Antonio Saitta: “Contrariamente a quanto si pensa c’è grande entusiasmo”.

mercoledì 23 febbraio 2011

Carlo Bossoli

Carlo Bossoli nasce a Lugano nel 1815. Verso il 1820 si trasferì con la famiglia a Odessa in Russia. Impiegato in una libreria acquisì l'interesse per il disegno copiando numerose stampe. Queste prime esperienze saranno fondamentali, come pure fondamentale sarà il suo apprendistato presso un pittore scenografo; qui imparò a dipingere quelle vedute di paesaggi, quei panorami, che trattò poi per tutta la vita.

Tra il 1831 e il '40 fece il suo primo viaggio in Italia, Roma soprattutto, Napoli e Milano. Dopo un nuovo soggiorno in Crimea si trasferì a Milano (1844-1853) dove assistette alle Cinque Giornate (dipingendone vari episodi).
Nel 1850 si recò in Inghilterra e in Scozia. Costretto dal governo austriaco a lasciare Milano, terrà dimora a Torino dal 1853 al 1884.
Nel 1848-'49 tornò a soggiornare nella nativa Lugano dov'è sepolto.
Ritrasse le campagne risorgimentali del 1859-'60-'61, per incarico del "Times" e del principe Eugenio di Savoia Carignano. Andando di persona sui campi di battaglia, ne trasse centinaia di quadri, bozzetti, schizzi.
Nel 1862 gli vennero conferite le patenti reali di “Pittore di storia”.
Muore a Torino il 1° agosto 1884.
In occasione del centenario dalla sua morte il Museo Nazionale del Risorgimento di Palazzo Carignano di Torino commemorò il pittore con una ricca esposizione di soggetti risorgimentali.

Luigi Cibrario

Nato a Torino nel 1802 si iscrisse alla Facoltà di Belle lettere, dopo aver vinto un posto gratuito presso il Collegio delle province di Torino, e si laureò nel 1821. Si fece apprezzare dal latinista Carlo Boucheron, che lo raccomandò a Prospero Balbo, allora ministro degli Interni e magistrato per la riforma degli studi, grazie al quale divenne applicato del ministero. Dopo che nel 1824 si era laureato anche in diritto civile e canonico, Giuseppe Manno, incaricato per gli affari dell'isola di Sardegna, gli affidò una divisione ministeriale. Grazie a un'ode scritta per la nascita del principe Vittorio Emanuele, Cibrario entrò in rapporti speciali con Carlo Alberto. Nel 1827 pubblicò la sua prima opera storica, i due volumi Delle storie di Chieri. Nel 1829 divenne sostituto procuratore generale del re nella Camera dei conti e nel 1830 fu cooptato nell'Accademia delle Scienze. La possibilità di accedere agli archivi lo indusse a sviluppare interessi per la storia sabauda, e cominciò a pubblicare articoli, memorie e poderose sintesi (tre memorie lette all'Accademia nel 1831 furono riunite con il titolo Delle finanze della monarchia di Savoia nei secoli XIII e XIV). Carlo Alberto incaricò Cibrario e Domenico Promis di raccogliere in Francia e in Svizzera documenti sui Savoia delle origini: ne nacquero opere come Documenti, sigilli e monete appartenenti alla storia della monarchia di Savoia raccolti in Savoia, in Isvizzera ed in Francia (1833) e Sigilli dei principi di Savoia (1834). L'opera che gli procurò fama anche internazionale fu L'economia politica del Medioevo (1839), ma non abbandonò il sabaudismo: fra 1840 e 1844 pubblicò i tre volumi della Storia della monarchia di Savoia sino al 1383, nel 1846 i due volumi della Storia di Torino, mentre per la neonata Regia Deputazione di Storia patria fu responsabile della sezione Chartae degli Historiae patriae monumenta.

Studioso di successo, burocrate scrupoloso, curò relazioni altolocate e fu fedelissimo alla dinastia regnante: aveva tutto per diventare uomo di fiducia di Carlo Alberto nel periodo delle riforme. Nell’ottobre del 1848 fu eletto senatore del Regno, fu poi per breve tempo nel 1852 ministro delle Finanze nel governo di Massimo D’Azeglio e successivamente dell’Istruzione pubblica (1852-55). In seguito alla guerra di Crimea sostituì per sei mesi Cavour al ministero degli Esteri (1855-56). Nonostante l’impegno politico continuò a dedicarsi con intensità agli studi storici: Descrizione storica degli Ordini cavallereschi (2 volumi, 1846); Origini e progresso della monarchia di Savoia fino alla costituzione del Regno di Sardegna (2 volumi, 1854-55); Della schiavitù e del servaggio e specialmente dei servi agricoltori, (2 volumi,1868). Morì nella tenuta dei Conti Odorici a Trobiolo sul lago di Garda il 1° ottobre 1870.

Anita Garibaldi

ANITA GARIBALDI


Giornalista e pubblicista, ha studiato e lavorato in Italia e all'estero. Da anni svolge attività culturali e sociali per la Comunità Europea e per vari Enti privati. E' Presidente del Centro Studi Politiche Europee (CESPEURO) che cura ricerche sulla piccola e media impresa, sull'artigianato e sulla formazione professionale. Ha promosso l'Associazione "Amici del Gianicolo", che ha operato per incentivare il recupero dell'area Gianicolense e il restauro delle statue di Giuseppe e Anita Garibaldi. Ha curato varie pubblicazioni su problemi sociali, tra le quali La donna del Generale (Rusconi Editore) che ha l'obiettivo di divulgare i risultati della ricerca storica compiuta dall'autrice in Sud Amercia sulla vita della sua omonima bisnonna, Anita Garibaldi. E' socio fondatore e membro attivo di molte Associazioni di ambito politico-culturale e sociale. Dal 1999 presiede l'Associazione Nazionale Garibaldina, aperta a tutti coloro che vogliono ricordare e commemorare l'epopea risorgimentale e tramandarne la conoscenza alle nuove generazioni. Ha scritto, nel 2003, Nate dal mare, edito da "Il Saggiatore", una saga storica che copre 150 anni di avvenimenti italiani e le vicende di tre generazioni di Garibaldi. Nel 1999 le è stata conferita l'onorificenza di Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana. Dal 2004 ha fatto parte, quale Presidente Onorario del Comitato Promotore per il bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi istituito a Nizza, sotto l'Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, presieduto dal Ministro degli Affari Esteri italiano. E' discendente in linea diretta di Giuseppe e Anita Garibaldi, dal nonno Ricciotti e dal padre Ezio Garibaldi.

Lo statuto Albertino

LA PROMULGAZIONE DELLO STATUTO

Il 1° febbraio Carlo Alberto scrive al ministro degli interni che il re di Napoli, concedendo al suo popolo una costituzione, non poteva compiere un atto più fatale alla tranquillità d'Italia; aggiunge inoltre che egli è fermamente deciso a non accordare nulla. Due giorni dopo si raduna il consiglio di conferenza composto dai ministri e dal re i quali seppure tristemente si accordano per concedere la costituzione. Dopo un lungo e difficile lavoro Carlo Alberto firma lo statuto. Era il 4 marzo 1848.
ANALISI DELLO STATUTO:
ALCUNE CARATTERISTICHE DELLO STATO COSTITUZIONALE
Lo statuto Albertino segna il tramonto dello stato assoluto e la nascita di un sistema di governo costituzionale moderno. I poteri si distinguono in legislativo, esecutivo e giudiziario. Quello legislativo ha il compito di fare leggi, e quello esecutivo di farle rispettare e quello giudiziario che ha per oggetto l'attuazione della giustizia. In uno stato assoluto questi tre poteri sono accentrati in un'unica persona che porta sempre alla perdita o alla limitazione della libertà dei cittadini. Lo stato moderno oltre che costituzionale è anche democratico organizzato cioè in modo per garantire la partecipazione del popolo all'esercizio del potere. Questo accade attraverso l'elezione dei rappresentanti che godono la fiducia ed esprimono la volontà dei cittadini.
LA CARTA OTTRIATA
Una costituzione può nascere in due modi: può esser deliberata da un'apposita assemblea costituente o elargita dal sovrano, in questo caso prende il nome di ottriata. Nell'introduzione l'espressione irrevocabile viene interpretata in vari modi, ma l'interpretazione esatta e quella di Cavour il quale dice che la costituzione può esser modificata in base alle esigenze.
IL POTERE LEGISLATIVO
Il potere legislativo è esercitato dal re e da due camere: la camera dei deputati e Senato. I senatori sono nominati dal re a vita mentre i deputati sono eletti dal ristretto e privilegiato gruppo di cittadini. I deputati possono ricevere istruzioni dagli elettori, ma non sono tenuti a seguirli. Essi rimangono in carica cinque anni. La formazione delle leggi avviene così: proposta la legge, essa viene esaminata dalle giunte, poi viene discussa e approvata da una camera e trasmessa all'altra. Dopo che è stata provata dalle due camere la legge viene presentata al re, il quale la approva e attesta l'esistenza della legge. Se la legge viene respinta, il progetto non può esser presentato nella stessa sessione, uno dei tanti periodi che compongono la legislatura. I parlamentari si avvalgono di alcuni privilegi: non possono essere perseguiti a causa delle opinioni espresse e dei voti dati e non possano essere arrestati senza l'autorizzazione delle rispettive camere. Essi inoltre non ricevono alcun compenso per il servizio prestato e se non hanno un reddito personale non possono svolgere attività parlamentare.
IL POTERE ESECUTIVO
Il potere esecutivo appartiene al re. Il re è il capo supremo dello stato ciò significa che è rappresentante di se stesso. Il re esercita questa funzione assieme ai ministri, nominati e rovesciati da esso, che sono responsabili degli atti del sovrano. Il re è infatti esente da ogni responsabilità attraverso l'inviolabilità regia.
L'ORDINE GIUDIZIARIO
All'età dell'assolutismo il re era primo giudice del regno, i magistrati erano funzionari regi strettamente dipendenti dal sovrano; ora lo statuto dice che i giudici ottengono l'inamovibilità dopo tre anni di servizio, in pratica esso permette ai giudici di svolgere la loro funzione in modo autonomo. Un'altra garanzia tendente ad assicurare il libero e corretto funzionamento della giustizia, la possibilità di seguire da parte di tutti i processi.
DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI
Tutte le costituzioni degli stati moderni riconoscono ai cittadini i diritti di libertà. Nel continente europeo i diritti comuni a tutti gli uomini si affermano per la prima volta nella "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino". I passi più importanti sono: gli uomini nascono o che vivono liberi e uguali nei diritti; la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri; tutti i cittadini hanno diritto concorrere personalmente o per mezzo di rappresentanti alla formazione delle leggi; nessuno dev'esser disturbato nelle sue opinioni; la libertà di pensiero è uno dei diritti più importanti. Alcuni diritti sanciti dallo statuto sono: la libertà individuale è garantita; nessuno può essere arrestato se non nei casi previsti dalla legge; il domicilio è inviolabile e diritto di libertà di stampa. Questi diritti sono riconosciuti dallo statuto, ma non garantiti e cioè non sia l'inviolabilità assoluta di quei diritti.