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lunedì 26 marzo 2012

I movimenti politici » Il garibaldinismo


La spedizione dei Mille rappresentò il momento fondativo del garibaldinismo e la consacrazione definitiva della leadership di Giuseppe Garibaldi, il condottiero, che con le sue azioni, era stato capace di condurre il “popolo” alla vittoria.Totalmente privo di basi teoriche, sia in ambito politico che militare, il movimento garibaldino traeva le sue origini politiche, sociali e culturali dal mazzinianesimo e dal volontariato militare del Risorgimento.Il mazzinianesimo si rifletteva in una cultura politica diffusa su tutto il territorio nazionale che si prefiggeva il raggiungimento di un'Italia repubblicana, unita e indipendente attraverso un'insurrezione popolare. Il volontariato militare, ovvero la formazione di bande di uomini armati che combattevano per l'indipendenza dell'Italia, aveva caratterizzato tutto il processo risorgimentale.Più di 300 bande, ad esempio, erano sorte nel 1848 in tutta la Penisola e migliaia erano stati i volontari che avevano già combattuto sotto il comando di Garibaldi nel 1848, durante la prima guerra d'indipendenza, nel 1849, per la difesa della Repubblica romana e nella “fuga” verso Venezia e, nel 1859, durante la seconda guerra d'indipendenza.Il garibaldinismo non ebbe mai una organizzazione politica di tipo partitico o una rappresentanza elettorale strutturata in un gruppo parlamentare, ma incarnò, piuttosto, un'antropologia politica, un modo d'essere e uno stile di vita, una fedeltà personale verso un uomo simbolo come Garibaldi.I tratti distintivi del movimento garibaldino consistevano in un forte afflato ideale e un vigoroso slancio sprezzante di ogni pericolo durante la battaglia. Ugualmente forti nei suoi uomini erano l'atteggiamento personalmente disinteressato verso il potere e in una forte spinta verso l'internazionalismo, nel costante richiamo ai giovani e la costante ostilità nei confronti della Chiesa e le gerarchie ecclesiastiche.Il garibaldinismo ebbe una caratura militar-rivoluzionaria e una vocazione politica al tempo stesso nazionale ed internazionale. I garibaldini, infatti, formavano un mosaico di politici ed intellettuali, borghesi e artigiani, giovani e idealisti che svolse un ruolo determinante nel processo di unità nazionale ed esercitò una notevole influenza anche al di fuori dei confini italiani.In Europa orientale, Garibaldi e i garibaldini divennero l'oggetto delle speranze di quei democratici locali che, auspicando una soluzione alle loro rivendicazioni nazionali sulla scia dell'impresa esemplare dei Mille, sostenevano la necessità di una spedizione nei Balcani che avrebbe messo in crisi l'Impero asburgico.E in Polonia, nel 1863, il garibaldino Francesco Nullo venne ucciso in battaglia mentre era alla testa di una formazione di circa 600 volontari, tra cui alcune decine di camicie rosse, accorsi a combattere accanto agli insorti polacchi contro la dominazione russa.In Italia, il garibaldinismo rappresentò indubbiamente la più importante forma di adesione del “popolo in armi” al processo di unità nazionale. I garibaldini rappresentarono il simbolo dell'iniziativa popolar-democratica che si contrapponeva all'iniziativa statale del “partito” liberal-monarchico.Il primo nucleo di questo movimento fu costituito dall'Esercito meridionale garibaldino costituitosi in Sicilia, il 4 giugno 1860, durante la spedizione dei Mille e bizzarramente autonominatosi come 15° divisione dell'Esercito sardo. Nel novembre del 1860, però, dopo la partenza di Garibaldi per Caprera, il re Vittorio Emanuele II firmò il decreto che determinava lo scioglimento dell'esercito meridionale.L'acceso dibattito che si svolse nella primavera del 1861 sulla sorte dei reduci della spedizione dei Mille trovò contrapposte alcune personalità come Manfredo Fanti, che vide nei volontari in camicia rossa degli uomini nutriti di uno «spontaneo entusiasmo patriottico» e perciò utili solo in alcuni momenti di emergenza, e soldati di Garibaldi come Francesco Crispi che, invece, sottolineava il contributo positivo dato alla rivoluzione dai garibaldini e al processo di costruzione e consolidamento di uno Stato nazionale.La formazione del “Corpo volontari italiano”, nell'aprile del 1861, nel quale confluirono i garibaldini, e il suo successivo scioglimento, nel marzo del 1862, sancì, però, l'esclusione dei garibaldini dalle file dell'esercito regolare nel timore più che fondato di una politicizzazione delle forze armate in antagonismo al potere civile. I garibaldini furono, di fatto, esclusi e non integrati nel nuovo Stato nazionale che essi stessi avevano contribuito a formare.Negli anni successivi, si cercò, da un lato, di neutralizzare il garibaldinismo con un uso generoso di onorificenze – perfino con una pensione per i cosiddetti «Mille di Marsala» – create come forma di compenso per la mancata integrazione nell'esercito; dall'altro lato, i garibaldini vennero sottoposti ad un'opera sistematica di controllo poliziesco, qualificandoli come «sovversivi» e rivoluzionari pericolosi.All'emarginazione politica attuato dalla classe dirigente liberale corrispose, però, anche un'autoemarginazione da parte di molti degli stessi garibaldini attraverso l'organizzazione di alcune iniziative politiche al di fuori del Parlamento o addirittura contro il governo italiano, come le spedizioni ad Aspromonte nel 1862 e a Mentana nel 1867.Garibaldi, sostenuto da un ambiguo atteggiamento della monarchia, si fece promotore di queste due spedizioni, che si prefiggevano di liberare Roma e di abbattere lo Stato pontificio. Gli esiti furono fallimentari ma misero in evidenza, ancora una volta, la grande capacità di attrazione e di mobilitazione del volontarismo garibaldino.La partenza da Quarto. La scena del film "1860" richiama un soggetto classico dell'epica risorgimentale: l'addio del garibaldino alla madre Neanche fallimenti come quelli di Aspromonte e Mentana offuscarono la capacità attrattiva della figura di Garibaldi e della camicia rossa che, all'opposto, conservò una carica patriottico-mobilitante, soprattutto tra le giovani generazioni, nella terza guerra d'indipendenza nel 1866, nella campagna dei Vosgi nell'inverno del 1870-1871 e anche dopo la morte dello stesso Garibaldi, almeno fino alla Grande Guerra.Le spedizioni di volontari garibaldini nella guerra russo-turca del 1897, nel conflitto in Libia del 1911-12 e nelle Argonne, in Francia, durante la prima guerra mondiale,primachel'Italiadecidessedientrarenelconflitto,testimonianolagrandecapacitàattrattivaemobilitantedelgaribaldinismo.Dopo la morte di Garibaldi in moltihannorivendicato un legame con il lascito ideale dell'eroe ed è possibile individuare tracce del deposito storicodelgaribaldinismo, al tempo stesso patriottico ed internazionalista, popolare e borghese, in differenti tradizioni politiche novecentesche: dal radicalismo di destra a quello di sinistra, dal movimento operaio al nazionalismo, dal fascismo all'antifascismo.


domenica 25 marzo 2012

Spaventa Silvio


Bomba (Chieti), 1822 – Roma, 1893
Fratello del filosofo Bertrando; si recò a Napoli (1843) per studiare diritto, ma si occupò principalmente di filosofia, seguì le lezioni di Pasquale Galluppi e di Ottavio Colecchi, aprì (1846) con Bertrando una scuola privata di filosofia che fu soppressa dalla polizia (1847).Prese parte ad un tentativo di insurrezione in Calabria che fu represso e riparò in Toscana. Qui conobbe Gino Capponi e Vieusseux. Quando il re di Napoli, Ferdinando II, concesse la Costituzione, rientrò in patria per sostenervi la causa della libertà e della rivoluzione napoletana. Deputato al Parlamento napoletano, e fondatore del «Nazionale» (1848), propugnò la partecipazione di Napoli alla guerra d'indipendenza.Non prese parte alla giornata insurrezionale del 15 maggio 1848, ma fondò con Luigi Settembrini, Cesare Braico e Filippo Agresti la società segreta dell'Unità italiana, allo scopo di cacciare i Borboni e di diffondere l'idea unitaria.Arrestato (1849), dopo un lungo processo fu condannato a morte, ma, commutatagli la pena nell'ergastolo (1852), fu relegato nell'isola di Santo Stefano, dove rimase per circa 6 anni, che furono per lui di fervida attività intellettuale.Commutatagli la pena (1859) nell'esilio perpetuo, fu imbarcato con altri, tra cui Luigi Settembrini, alla volta dell'America, ma riuscì con i suoi compagni a farsi sbarcare in Irlanda, e si recò a Londra e di qui a Firenze dove strinse rapporti con Ricasoli e poi a Torino. Nella capitale sabauda definì la linea politica degli esuli napoletani in accordo con la prospettiva cavouriana.Tornato a Napoli (1860), si adoperò perché la rivoluzione si compisse nel continente in nome di Vittorio Emanuele, prima dell'arrivo di Garibaldi. Ministro di polizia della luogotenenza napoletana, condusse una guerra a fondo contro la camorra. Deputato (1861-89), fu segretario generale al ministero dell'Interno nel gabinetto Farini-Minghetti; a lui fu fatta risalire la maggiore responsabilità della sanguinosa repressione delle dimostrazioni torinesi contro la Convenzionedi settembre (1864).Consigliere di Stato (1868), ministro dei Lavori pubblici (1873), legò il suo nome a una serie di convenzioni per il riscatto e il passaggio allo Stato di importanti linee ferroviarie, ma la sua proposta di adottare l'esercizio di Stato urtò contro la resistenza del gruppo dei moderati toscani, che si staccò dalla maggioranza, provocando la caduta della Destra (1876). Dal 1889 senatore del Regno, lo stesso anno fu nominato presidente della IV sezione del Consiglio di Stato, da lui stesso auspicata, come organo della giustizia amministrativa.Temperamento di giurista, ma con vigoroso abito filosofico del pensare, pose al centro della sua dottrina politica il concetto hegeliano dello Stato, concepito come organo supremo destinato a impersonare la coscienza direttiva della nazione e a guidarla ai fini più alti dell'umanità.Da questo deriva un certo suo autoritarismo, ma anche la vigorosa esigenza di un efficiente sistema parlamentare fondato sui due partiti classici e la richiesta di una netta distinzione fra politica e attività amministrativa. I suoi scritti principali sono raccolti nei volumi: La politica della Destra (1910); Discorsi parlamentari (1913); Dal 1848 al 1861 (1923); Lettere politiche (1926).


sabato 24 marzo 2012

Il potere temporale » Lo Stato della Chiesa


1l 24 maggio 1814 Pio VII faceva trionfalmente ritorno a Roma insediandosi nuovamente al Quirinale alla testa dell'antico Stato della Chiesa. Si chiudeva così la lunga parentesi iniziatasi circa 15 anni prima con l'arrivo degli eserciti napoleonici nella Penisola che aveva portato prima al distacco dallo Stato delle sue provincie settentrionali e adriatiche inglobate nella Repubblica cispadana e successivamente nel Regno d'Italia, e poi alla sua dissoluzione con l'annessione all'Impero francese (17 maggio 1809).Al Congresso di Vienna la restaurazione dello Stato pontificio avvenne sostanzialmente senza discussione, benché fosse chiaro a molti il suo carattere ormai arcaico e l'intrinseca debolezza di quell'antica teocrazia. Infatti, per i sovrani cristiani, impegnati ad affermare il principio di legittimità, era difficile, oltretutto nel nuovo clima culturale romantico segnato da un grande revival religioso, pensare di sopprimere l'antico dominio del papa.Vero protagonista della lotta contro Napoleone e dell'operazione restauratrice dello Stato fu l'abile cardinale Consalvi negoziatore a Vienna, tornato nuovamente ad essere segretario di Stato. Consalvi, pur con l'ostilità della Curia saldamente in mano agli esponenti più retrivi, cercò almeno in certa misura di ammodernare le strutture amministrative e giuridiche dello Stato accentrando il ruolo del governo centrale. Rafforzò dunque il potere dei delegati pontifici nei distretti provinciali, abolì gli statuti delle città-stato patrizie, cancellò definitivamente il feudalesimo, cercò di introdurre un codice civile e di commercio che però andò incontro alla bocciatura della Congregazione cardinalizia, riorganizzò l'amministrazione della giustizia, tra l'altro rendendo obbligatoria in tutte le sentenze la motivazione e disponendo l'uso generalizzato della lingua italiana negli atti giudiziari (disposizione peraltro cancellata dal successore di Pio VII).Ma nulla poté il Consalvi contro quello che era un carattere consustanziale dello Stato della Chiesa, che ne rappresentava il dato più anomalo, e che si rivelò alla fine la sua condanna.Il fatto cioè che in esso tutti o quasi i gradi più alti delle carriere politico-amministrative erano riservate agli ecclesiastici, perlopiù quelli formatesi nei grandi collegi della capitale.L'aristocrazia era difatti virtualmente esclusa dal governo dello Stato (le era riservato quello dei comuni con la carica di “gonfaloniere”, cioè sindaco), potendovi accedere solo se in abito talare. L'effetto di tale pratica era l'affollarsi di nobili negli alti ranghi della prelatura. Ancora nel 1860 la percentuale dei nati non nobili tra i cardinali era appena del 15 per cento.Al contempo, tuttavia, dopo la Restaurazione la carriera ecclesiastica si era andata burocratizzando, divenendo appunto una carriera, e dunque vedendo assegnare all'età una funzione decisiva ai fini dell'avanzamento. Ormai non si diventava più cardinali tra i 20 e i 30 anni, come avveniva nel Settecento, specie fra i figli dell'aristocrazia romana, ma intorno ai 55 anni.Al di là comunque di tutti i tentativi di riorganizzazione interna restava la fragilità della compagine statale, che aveva la sua dimostrazione più evidente nella sostanziale dipendenza dello Stato stesso dalle diplomazie e dalle armi straniere. Ormai una guarnigione austriaca era di stanza praticamente in permanenza nelle Legazioni, in qualche modo protagoniste di un processo di larvata autonomizzazione rispetto al centro romano, e/o ad Ancona, mentre dopo il '48 la garanzia anche militare francese diventerà essenziale per la sopravvivenza dello Stato.L'esistenza del sovrano pontefice e del suo dominio temporale, insomma, era ormai una faccenda sempre più decisa interamente e solamente dagli equilibri politici internazionali. Ciò cominciò ad essere chiarissimo per l'appunto nella grave crisi del 1831, allorché una rivolta scoppiata in tutte le Legazioni e ad Ancona, in concomitanza con il moto di Modena, non solo portò al massiccio intervento militare austriaco (e in piccola parte anche francese), protrattosi poi fino al 1838, ma ad un Memorandum stilato da una conferenza di ambasciatori delle principali potenze europee, riunitasi appositamente a Roma, con cui si chiedeva al governo pontificio di varare al più presto un programma di riforme. Il Memorandum rappresentava di fatto l'affermazione di una sorta di protettorato internazionale sui domini papali.Una svolta significativa nella vita dello Stato avrebbe potuto essere l'elezione nel giugno 1846, dopo il lungo pontificato del reazionario Gregorio XVI (1831-1846), del cardinale Giovanni Mastai Ferretti col nome di Pio IX.Almeno inizialmente Pio IX non deluse le attese con cui la sua designazione era stata salutata negli ambienti del liberalismo moderato verso cui inclinava una parte considerevole dei ceti borghesi e proprietari, specie nel Nord dello Stato.Un certo allentamento della censura, amnistia per i reati politici, istituzione della Guardia civica, anche se per il momento solo a Roma, progetti per la costruzione di ben 5 linee ferroviarie e per una lega doganale con altri Stati italiani, il tutto culminato nella famosa esclamazione «Gran Dio benedici l'Italia» in un proclama del febbraio 1848, valsero a creare intorno al papa un'atmosfera di forte simpatia non solo nel suo Stato ma presso tutto l'ormai consistente “partito patriottico” formatosi nella Penisola.A conferma del quale venne la concessione nel marzo 1848 di una Carta costituzionale la quale, benché di contenuto ancora fortemente elitario (ogni legge approvata dalla Camera bassa, per esempio, doveva essere ratificata dal Concistoro e approvata dal papa) rappresentava tuttavia, se non altro a motivo dell'istituzione di un governo formato da laici, una rottura con il regime assolutistico clericale.L'esperimento costituzionale schierò lo Stato della Chiesa accanto a tutti gli altri Stati italiani – dal Piemonte al Regno di Napoli – che in quella primavera del '48 avevano imboccato la medesima strada riformatrice e, per quasi logica conseguenza, quella della guerra all'Austria. Anche Pio IX mandò un contingente militare verso i campi di battaglia del Lombardo-Veneto. Si vide tuttavia costretto a ritirarli ben presto (29 aprile), allorché si rese conto della insostenibile difficoltà in cui lo metteva – lui capo della Chiesa universale – la partecipazione ad una guerra “italiana” contro la più importante potenza cattolica d'Europa.La decisione del papa, e dunque il fallimento di tutti i progetti coltivati dal neoguelfismo, produssero, all'interno dello Stato, specie nella sua parte settentrionale, una forte radicalizzazione politica in senso democratico – cui non erano estranei motivi di difficoltà economica negli strati più poveri della popolazione –, in seguito alla quale sorse una vasta rete di club sul modello francese. Fu in questo clima che maturò l'assassinio di Pellegrino Rossi, la fuga di Pio IX da Roma e la proclamazione della Repubblica romana.Caduta la Repubblica, la restaurazione del potere pontificio sotto la dura guida del cardinale Antonelli ebbe una forte impronta reazionaria caratterizzata da persecuzioni e dalla totale cancellazione di quanto di costituzionale e di moderno era stato messo in opera solo pochissimo tempo prima. Il distacco del potere dai gruppi moderati e ispirati a qualche desiderio di progresso divenne in tal modo incolmabile, mentre ormai lo Stato era presidiato stabilmente da truppe austriache e francesi e i tre quarti del suo debito pubblico era in mani straniere. Il risultato fu un immobilismo privo di vita cui non riuscivano certo a fare da contrappeso sporadiche iniziative nel campo delle comunicazioni (costruzioni ferroviarie e telegrafo) o dei servizi urbani. La crisi del 1859-60 vide il più completo isolamento della Santa Sede di fronte all'iniziativa franco-piemontese. Questa portò dapprima al distacco/annessione al Piemonte delle Legazioni e poi, con l'invasione sarda dell'estate del 1860, al distacco anche delle Marche e dell'Umbria dal corpo dello Stato, che ormai si ridusse a Roma e al Lazio, presidiati da una guarnigione francese.Quelli dal 1860 al '70 furono, per lo Stato della Chiesa, gli anni di una lenta agonia. Roma divenne un luogo di raduno per tutti gli esuli della Penisola che non accettavano il nuovo regime sabaudo, a cominciare da Francesco II delle Due Sicilie, in segreto collegamento con i movimenti insurrezionali nel frattempo scoppiati nel Mezzogiorno. Accorsero anche nella città dai paesi cattolici d'Europa molti ardenti giovani, spesso aristocratici, imbevuti di fede religiosa fino al misticismo, impazienti di mettere il loro braccio al servizio del cattolicesimo e del Romano Pontefice.Ma ormai era solo questione di tempo. Falliti tutti i tentativi del governo italiano di far scoppiare un'insurrezione all'interno dell'Urbe e fallito a Mentana nel 1867 il tentativo d'invasione garibaldino per la resistenza delle truppe francesi.Solo quando Parigi, in seguito alla guerra con la Prussia, nel 1870 decise di rinunciare a continuare a difendere il dominio papale, il governo italiano poté finalmente ordinare al generale Cadorna di conquistare militarmente la città. Ciò che avvenne il 20 settembre 1870 dopo che Pio IX aveva ordinato di opporre una resistenza esclusivamente simbolica.


venerdì 23 marzo 2012

Curci Carlo Maria


Napoli, 4 settembre 1810 – Careggi (Firenze), 8 giugno 1891
 Entrò nella Compagnia di Gesù il 13 settembre 1826, e fu ordinato sacerdote il 1° novembre 1836. Dopo due anni di insegnamento a Lecce e uno come predicatore a Faenza, venne richiamato a Napoli, sua città natale, dove si occupò della cura spirituale dei reclusi nelle carceri.Nel 1843 entusiasta del Primato di Gioberti, ne curò un edizione stampata a Benevento assieme ad altri due confratelli. Nel 1845, però, di fronte alle accuse rivolte ai gesuiti nei Prolegomeni del Primato, pubblicò a Imola Fatti ed argomenti in risposta alle molte parole di Vincenzo Gioberti intorno ai Gesuiti, opera di notevole successo con la quale confutava le accuse rivolte alla Compagnia dal sacerdote piemontese, e negava che i gesuiti fossero avversari della civiltà moderna.Esule nel 1848 a Malta e poi a Parigi, continuò la polemica contro Gioberti e il suo Gesuita moderno del 1847 con l'opera Una divinazione sulle tre ultime opere di Vincenzo Gioberti, stampata a Parigi nel 1849 e letta con interesse da Pio IX a Gaeta.Rientrato a Napoli alla fine di quello stesso anno, sviluppò un progetto caro al papa, finalizzato alla creazione di un periodico che chiarisse i principi fondanti della civiltà cristianagiudicasseconquest'otticalepubblicazionicontemporanee.Nasceva così la «Civiltà Cattolica».La rivista, che iniziò le sue pubblicazioni a Napoli ma venne presto trasferita a Roma, vide la collaborazione fin dagli esordi dei padri Luigi Taparelli d'Azeglio, Matteo Liberatore e Antonio Bresciani.Esiliato a Bologna dal dicembre 1854 al luglio 1857 per le critiche rivolte al governo napoletano nelle Memorie della Civiltà Cattolica. Primo quadriennio, rientrato a Roma non si sentì più pienamente a suo agio nella redazione del periodico, e scelse nel 1864 di ridurre sensibilmente la sua collaborazione, poi definitivamente interrotta nel 1866.In più di quindici anni scrisse comunque sulla «Civiltà Cattolica» circa duecento articoli di diverso argomento, dal tono sempre polemico e conservatore.Un mese dopo la presa di Roma, nell'ottobre 1870, fece uscire a Firenze La caduta di Roma per le armi italiane considerata nelle sue cagioni e nei suoi effetti, in cui oscillava tra l'incredulità per quanto accaduto e la fiducia nella provvidenza, prendendo comunque atto del definitivo crollo del potere temporale.Nonostante le critiche ricevute, ribadì questo principio nelle prefazioni di due successive opere: Sopra l'internazionale del 1871 e la Ragione dell' opera, premessa alle Lezioni esegetiche e morali sopra i quattro Evangeli, del 1874.In una nuova stesura della Ragione dell'opera, inviata nel giugno 1875 a Pio IX in via riservata, proponeva la partecipazione massiccia dei cattolici a nuove elezioni e invitava il nuovo Parlamento a riconoscere il re come una autorità data da Dio, al fine di impedire l'approvazione di leggi contrarie alla religione, e di creare al papa le condizioni per restare a Roma come sovrano d'Italia. Considerando insolente la proposta, Pio IX proibì la pubblicazione del saggio, che poi avvenne all'insaputa dello stesso Curci nella «Rivista europea» del febbraio-marzo 1877.Questo evento provocò forte tensione con il nuovo generale della Compagnia del Gesù, Beckx, tensione che determinò, dopo alcuni tentativi di mediazione, le dimissioni di Curci dall'ordine, il 22 ottobre 1877. Dopo l'elezione di Leone XIII, Curci formulò un piano di riforma della Chiesa, che anticipava alcuni aspetti del Concilio Vaticano II, in tre distinte opere: apparse tra il 1881 e il 1884 esse vennero immediatamente messe all'Indice, mentre la pubblicazione delle seconda gli procurò la sospensione a divinis, a cui seguì, nel settembre 1884, una sua ritrattazione pubblica.Interessato fin dagli anni della «Civiltà Cattolica» alle tematiche sociali, nel saggio sul Socialismo cristiano del 1885 denunciò il pauperismo, l'alienazione dell'operaio e la pace armata tra lavoratori e operai come inevitabili conseguenze del sistema economico in vigore. Nuovamente ammesso nella Compagnia nel maggio 1891, morì a Careggi, presso Firenze, l'8 giugno dello stesso anno.