/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": Peppa a Cannunera

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sabato 23 luglio 2011

Peppa a Cannunera

L'8 aprile scoppiano in città gravi tumulti: fanno eco alle rivolte di Palermo e di Messina. Oltre tremila catanesi scendono armati nelle strade adunandosi nel piano del Duomo al grido di "Viva Palermo", "Viva l'unità d'Italia", "Viva Vittorio Emanuele II".

Gli insorti e le truppe borboniche entra in contatto: violentissimi i primi scontri. Il comandante della piazza, generale Tommaso Clary, ordina alle truppe di ritirarsi nelle caserme e nel castello Ursino. Per evitare un ulteriore spargimento di sangue, il generale borbonico e le autorità civili concludono una tregua. Ma il giorno 10, a sera, la rivolta divampa nuovamente, anche se per poche ore. L'11 maggio Giuseppe Garibaldi con le sue "camicie rosse" sbarca a Marsala. La Sicilia si infiamma. Catania segue con entusiasmo le notizie dell'avanzata delle truppe garibaldine, che premono su Palermo.
La città è fortemente presidiata dai riparti del generale Clary. E i patrioti? Si annidano in tutte le case. Le squadre organizzate convergono alla spicciolata a Mascalucia, Acireale e Lentini. Le comanda il colonnello Giuseppe Poulet, ministro della Guerra nel 1848-49. Nella notte fra il 30 e 31 maggio una drammatica riunione si svolge a Mascalucia. Numerosi ufficiali accusano il colonnello di indecisione e di vigliaccheria: "voi non volete attaccare perché non avete coraggio". E Poulet, rinunziando al piando di far convergere contemporaneamente le tre squadre sulla città, non potendo avvertire subito le colonne attestate ad Acireale e Lentini, rompe gli indugi: "Si marci su Catania". Le squadre di Mascalucia contano poco meno di mille uomini e dispongono di tre cannoni. A queste esigue forze male armate si contrappongono i tremila soldati di Clary, affiancati da forti squadroni di cavalleria. Ma gli insorti non si curano di questa sproporzione di forze. Ormai la decisione è presa.
All'alba del 31 maggio, le campane delle chiese del Borgo suonano a distesa: la rivolta comincia. Altri rintocchi fanno eco dalla chiesa del Carmine. I borbonici sono all'erta: Clary li ha dislocati nel cuore della città facendo innalzare barricate sulla via del Corso, dalla piazza San Francesco alla piazza San Placido, e nelle piazze del Duomo e dell'Università. I soldati sono in allarme.
I mille insorti adunati a Mascalucia scendono in città: al Borgo il primo contatto con i cavalleggeri borbonici. Partono le prime fucilate mentre bandiere tricolori spuntano sui balconi. La cavalleria indietreggia precipitosamente fino a piazza Università e salda dietro e barricate attorno alle quali presto si accende una lotta accanita.
Ecco, ora, inserirsi nella lotta l'intrepida popolana Peppa (Giuseppa) Bolognara, nata a Barcellona Pozzo di Gotto. Si combatte aspramente attorno alle barricate, in via Stesicorea, ai Quattro Cantoni, nella via Mancini e nella strada degli Schioppettieri: un gruppo di insorti, guidati dall'eroica donna, riesce a trascinare un cannone alle spalle delle truppe e a piazzarlo nell'atrio del palazzo Tornabene, nel piano dell'Ogninella. A un ordine secco di Peppa, gli insorti spalancano il portone e la popolana, accesa la miccia, scarica una cannonata contro i borbonici, i quali, colti di sorpresa, si riparano in piazza degli Studi e nel palazzo degli Elefanti, abbandonando sulla via un cannone. "Prendiamolo", grida Peppa e, lanciata una robusta fune, riesce a ghermire quel pesante pezzo e a trascinarlo dalla sua parte. Il combattimento, a mezzogiorno, ancora infuria nel cuore della città.
"Gl'insorti avevan quasi esaurito le munizioni, sicchè il loro attacco incominciò ad infiacchire. Di ciò si accorse il generale Clary che cercò con una carica di cavalleria per alla via del Corso di aggirare la destra dei suoi avversari. Giusto in quel punto un gruppo di insorti, con la testo Giuseppa Bolognara, sboccava in piazza San Placido dalla cantonata di casa Mazza, trascinando il cannone guadagnato ai borbonici per cercare di condurlo nel parterre di casa Biscari e lanciare qualche palla contro la nave da guerra che già bombardava la città, coadiuvata dal fuoco dei due mortai posti sui torrioni del castello Ursino. Appena però quei popolani sboccarono sulla via del corso videro, in fondo a piazza Duomo, due squadroni di lancieri che si apparecchiavano alla carica. Temendo di essere presi, scaricarono all'improvviso i loro fucili abbandonando il cannone già carico. Ma Giuseppa Bolognara restò impavida al suo posto e con grande sangue freddo improvvisò uno stratagemma, dando nuova prova del suo meraviglioso coraggio. Sparse della polvere sulla volata del cannone e attese tranquilla che la cavalleria caricasse. Appena gli squadroni si mossero, essa diede fuoco alla polvere e i cavalieri borbonici credettero che il colpo avesse fatto cilecca prendendo fuoco soltanto la polvere del focone. Si slanciarono perciò alla carica sicuri di riguadagnare il pezzo perduto; ma appena avvicinatisi di pochi passi, la coraggiosa donna li attendeva a pie' fermo, diede fuoco alla carica con grave danno degli assalitori e riuscì a mettersi in salvo".
L'esito della gloriosa giornata non è tuttavia quello sperato. Poco dopo mezzogiorno i patrioti non hanno più una cartuccia. Giuseppe Poulet, in redingote, cilindro e guanti bianchi, si porta allo scoperto nella piazza Università, balza sulle brigate e grida, animato da indomita fede: "Arrendetevi, siete nostri fratelli".Clary reprime la rivolta: dalle porte della città entrano le colonne napoletane scacciate dagli altri centri dell'isola dai reparti garibaldini. Entrano a Catania e sulla città di Sant'Agata scaricano il loro livore e la loro ira.Ma ecco, improvviso, l'ordine di sgombrare: i borbonici si allontanano il 3 giugno. Su tutte le torri, dal castello Ursino al castello di Aci, dal campanile del Duomo ai balconi del palazzo di città garriscono al vento le bandiere tricolori.
Vien costituita immediatamente la guardia nazionale: suo comandante è l'intrepido marchese di Casalotto, Domenico Bonaccorsi. Dieci giorni dopo la città ha un nuovo patrizio, il barone Francesco Pucci.

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