/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": Soccorso, pronto soccorso

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mercoledì 7 dicembre 2011

Soccorso, pronto soccorso

Carlo De Cristoforis e Carlo Pisacane, studiosi militari uniti dalla morte in combattimento per l'Italia, osservavano rispettivamente che i capi dovevano avere "l'energia, la continuità nell'esecuzione, la fermezza" e "Per concepire ed effettuare un disegno strategico è indispensabile la più difficile di tutte le qualità, il carattere". Il sessantottenne brigadiere Landi, patetico vegliardo, inizia il suo rapporto sulla battaglia con le parole: "Soccorso, pronto soccorso", sostiene "i nostri hanno ucciso il gran condottiero degli Italiani e presa la loro bandiera che noi conserviamo; sventuratamente un pezzo di artiglieria caduto dal mulo, è rimasto tra le mani dei ribelli, e questo mi spezza il cuore". Confonde Garibaldi con Schiaffino, farnetica di migliaia e migliaia di nemici che lo circondano, crede di essere stato assalito da truppe regolari "erano in numero immenso, temo di essere assalito nelle posizioni che occupo, mi difenderò finchè mi sarà possibile, ma se un pronto soccorso non mi giunge, dichiaro che non so come le cose finiranno".All'alba del sedici maggio abbandona Calatafimi, inizia una precipitosa ritirata, vanamente opponendosi il consiglio di guerra che ha convocato, "Di fatto parecchi soldati, uscenti rabbiosi dalle righe, con gravi voci chiedevano al brigadiere di combattere". Soccorrono le parole di Nelson "Se un uomo si consulta sul se deve combattere sicuramente la sua posizione è contraria al combattimento". E' un uomo fortunato, in Calabria i soldati del primo Reggimento di fanteria di linea inferociti dall'atteggiamento rinunciatario del generale Briganti lo uccideranno sulla strada di Monteleone. Racconta il De Sivo "il capo tamburo del 15° reggimento di linea ... gli si fece incontro, ordinandogli: "Dì Viva il Re!", poi a bruciapelo lo colpì con una fucilata. A quel colpo ne seguirono altri dieci, venti, cinquanta... poi una massa imbestialita di soldati si gettò sul cadavere e ne fece scempio".Landi non si ferma che a Palermo, tormentato per i 118 chilometri che separano Marsala da Palermo, dalle bande di picciotti che cominciano a insorgere, miserando esempio di quello che può la viltà e l'inettitudine di un capo sul valore dei soldati. Molti storici definirono quella di Calatafimi una scaramuccia e tale fu, ma ebbe una importanza immensa, segnò il principio della fine di una monarchia, la caduta di un re abbandonato da tutti tra lo stupore dell'Europa, la nascita di una nuova nazione che riuniva un paese diviso da 1.400 anni. Garibaldi così scriveva "La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del '60".Di fronte all'ignavia dei generali, "si mandavano innanzi i dappochi, rattenevansi in quartiere gli animosi" sta il coraggio dei soldati. Quando il 6 giugno 1860 Palermo è abbandonata ai garibaldini in modo vergognoso un soldato dell'ottavo reggimento di linea uscito dalle file, si rivolge al comandante in capo generale Lanza "Eccellenza, vè quanti siamo! E ce ne andiamo così?". Queste parole evidenziavano lo sbigottimento, la confusione, lo stupore di soldati sballottati da ordini diversi, incerti e confusi, sconfitti senza combattere da un nemico inferiore per numero e armamenti. Si ebbe con questo spirito il fenomeno straordinario di un esercito che da una serie di sconfitte uscì rinsaldato e depurato degli inetti e dei doppiogiochisti, si battè con valore sul Volturno, arrendendosi a Gaeta dopo un lungo assedio, nella vana speranza, come scriveva Machiavelli "che accordo o che aiuto esterno lo liberi". Del suo re va ricordato il proclama che rivolse l'8 dicembre 1860 ai Napoletani da Gaeta assediata "In mezzo a continue cospirazioni non ho fatto versare una goccia di sangue, e si è accusata la mia condotta di debolezza. Se l'amore più tenero per i miei sudditi, se la confidenza naturale della gioventù nell'onestà degli altri, se l'orrore istintivo del sangue, meritano tal nome; si, certo io sono stato debole. Ho preferito abbandonare Napoli, la mia cara capitale, senza essere cacciato da voi, per non esporla agli orrori di un bombardamento. Questi sono i miei torti. Preferisco i miei infortunii ai trionfi degli avversari". L'ottavo Cacciatori successivamente combatté valorosamente a Milazzo a difesa di Messina che dopo l'ignominiosa resa di Palermo era rimasta l'ultima piazzaforte siciliana in mano ai Borboni. In seguito trasferito via mare a Napoli e acquartierato a Caserta partecipò alla battaglia del Volturno, dopo aver riconquistato Caiazzo, causando ai Garibaldini la perdita di 1.500 soldati tra morti, feriti e prigionieri. Dopo la sconfitta lo ritroviamo in Gaeta, ove rimase in armi fino al 15 febbraio 1861, quando la bandiera del Regno delle Due Sicilie fu per l'ultima volta ammainata. Quale fu il destino di quei soldati? Travolti dal crollo generale, alcuni tornarono alle loro case accolti con scherno o indifferenza, altri finirono i loro giorni davanti ai plotoni di esecuzione dopo essere stati sbrigativamente etichettati come briganti, altri ancora si arruolarono nel Regio Esercito; frazionati tra i nuovi reggimenti furono trasferiti nelle caserme del nord Italia, ove spesso subirono lo sprezzo di ufficiali e sottufficiali piemontesi sulle cui capacità militari Custoza non si era ancora pronunciata. Scriveva Francesco Ferruccio secoli prima "Di niente è da imputare ai soldati, ma solo da imputare chi li comanda". L'Esercito Borbonico nove mesi dopo Calatafimi terminava la sua esistenza. Tutti i giudizi emessi su di esso furono negativi, molti sarcastici. Benedetto Croce napoletano nel quale l'altissima sapienza non fu mai disgiunta da un meridionale buon senso, scriveva nel 1924: "Confondendo due cose diverse, la saldezza politica degli eserciti e l'attitudine militare della nazione, si appagarono di un superficiale giudizio dispregiativo ...".

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