/**/ Associazione Culturale e Sportiva "Giuseppe Garibaldi": Il 1848 nel Veneto

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lunedì 5 settembre 2011

Il 1848 nel Veneto


Il 1848 è una delle date più importanti della storia, al punto da segnare un intero secolo. Non esiste un'unica chiave di lettura che da sola possa riassumere in sé le tensioni e le motivazioni che portarono mezza Europa a rivoltarsi contro l'ordine costituito. Che appellativo merita il '48?
"Primavera dei popoli", come exploit dei nazionalismi europei, o "Prima guerra d'indipendenza", come fu celebrata dalla retorica patriottico-savoiarda? Riscatto della classe lavoratrice oppressa, in sintonia con la Comune di Parigi celebrata da Marx, oppure congiura dei poteri occulti pilotata da una internazionale anglo-ebraica, come denunciato dagli ambienti tradizionalisti? E ancora: nel Lombardo Veneto si combatté davvero per un'idea nazionale italiana? La generalità del popolo veneto questi italiani li riconosceva come fratelli, oppure guardava a loro come foresti?
Analizzando con calma i fatti, possiamo considerare una prospettiva più vicina al sentire di allora. Il grande anelito di libertà che all'improvviso contagiò tutto il Veneto seguiva le tracce di una Patria sentita ancora tale da milioni di Veneti, una Patria che vantava 14 secoli di indipendenza. Questo comune sentire non fu suscitato dai fumi ideologici che si levavano dagli affiliati dei clubs carbonari (e che ex post vennero indicati come il deus ex machina di ogni avvenimento). L'avvicinamento del Veneto ai destini politici della penisola in quel tempo fu dovuto all'esigenza di tirarsi fuori dal giogo austriaco, un governo straniero distante da quel senso di appartenenza che aveva sempre legato i Veneti alla Serenissima. Siccome appariva improbabile una lotta di liberazione fatta da soli contro l’Impero, la classe dirigente veneta si richiamò esplicitamente, expressis verbis, ad un'idea federalista, secondo la quale i popoli italici si sarebbero aiutati a vicenda costituendo un fronte comune; certo nessuno allora immaginava di finire schiacciato da un regime fanatico e sanguinario, guerrafondaio e sfruttatore, quale si dimostrerà il Regno d'Italia. Una dozzina d'anni più tardi, quando tutte le comunità rurali della penisola, e con esse gli ambienti popolari cittadini, si ritroveranno oppressi da un governo di gran lunga peggiore di quelli che precedettero la tanto mitizzata "unità", le condizioni generali di vita dei ceti minori crolleranno in pochi mesi a livelli mai visti di miseria spaventosa.
Sullo sfondo, l'orchestra politica internazionale suonava un'antifona ormai facile da orecchiare: Carlo Alberto per muoversi voleva come contropartita l'acquisto alla sua corona di tutti i territori irredenti. Perché tali mire nel 1848 non poterono essere soddisfatte? Il disegno sabaudo fu osteggiato da tre correnti politiche avverse: 1. I patrioti delle piccole Patrie, come Daniele Manin e Niccolò Tommaseo (che - ad esempio - si richiamavano in senso ideale alla Repubblica Serenissima, pur seguendo un modello istituzionale aggiornato) evitarono il più possibile di legarsi al dominio piemontese; 2. Sovrani cattolici come Papa Pio IX e i Borboni caldeggiavano, con lungimirante acume politico, una federazione italiana di Stati cristiani svincolata dal tallone della maggiore potenza imperialista (la Gran Bretagna), ma anche dal giogo italiano-liberale, ed appoggiarono Veneti e Lombardi addirittura schierando in campo i loro eserciti contro la cattolica Austria; 3. Le forze sovversive più virulente e violente che facevano capo a Giuseppe Mazzini (capo segreto di una rete occulta internazionale che faceva capo a Londra, come del resto vi fece riferimento Garibaldi) erano protette ed armate dall'Inghilterra e rigettavano radicalmente l'idea di monarchia, quindi contrastarono in quel momento il dominio sabaudo. Le cospirazioni mazziniane furono concepite dalla rete di potere occulto anglosassone come una forza di sfondamento che doveva aprire la strada alle invasioni straniere di c.d. liberatori attraverso la violenza sovversiva. Così, a differenza di quanto avvenne con lo sbarco dei Mille nel 1860, il 1848 si presentò come un movimento ostico per la monarchia piemontese; in particolare, la corrente carbonara era animata da un repubblicanesimo intransigente, apertamente ispirato alla Rivoluzione Francese.
Va sottolineato che - caso unico in tutti movimenti rivoluzionari dell'Ottocento in Italia - nel Veneto ci fu una vera lotta di popolo contro la monarchia regnante, in quel caso incarnata dagli Asburgo. In Lombardia il fronte si sfaldò, al punto che tanti contadini al ritorno delle truppe austriache inneggiarono a Radetzky, a scorno dei borghesi che avevano guidato la sollevazione. Occorre, dunque, spiegare come mai solo in una parte del Regno Lombardo Veneto, cioè nelle antiche terre di San Marco, il popolo nel suo complesso - tanto nelle città (ceto borghese, intellettuali e popolo minuto) quanto nelle campagne (contadini, piccoli artigiani, professionisti e persone istruite) - abbiano avuto l'impulso di sollevarsi tutti insieme. Ciò, poi, contrasta con le insurrezioni successive, che ebbero l'obiettivo ufficiale di fare l'Italia unita: esse vedranno la Carboneria e le sette segrete operare con congiure e sanguinosi attentati, con milizie arruolate di nascosto tra gli adepti delle società segrete, che in ogni caso dovettero fronteggiare non solo gli eserciti monarchici, ma - soprattutto al Sud - il popolo inferocito, quella semplice gente di paese che andava a respingere i cosiddetti “patriotti” armata di forconi e fucili da caccia, menandone strage o consegnandoli alle autorità.
Non v'è dubbio che le comunità rurali del Meridione videro nei Carbonari una forza oscura ed ostile, una grave minaccia al mondo contadino attaccato alla Tradizione Cattolica, allo stesso modo in cui i contadini del Nord insorsero contro le armate napoleoniche, nelle quali avevano visto non solo l'invasore straniero, ma anche i portatori della rivoluzione liberale, che era la negazione di tutti i loro valori, spirituali ed umani.
Nei secoli XVII e XVIII le idee illuministe avevano contribuito a forgiare l'assolutismo. La Rivoluzione Francese segnò il momento in cui la legittimazione del potere si staccò in via definitiva da Dio. Fino ad allora il popolo aveva percepito la legittimazione della politica proprio nella sua discendenza dall'Eterno. Infatti, alla mentalità popolare rimase sempre estranea l'idea di far derivare da un pezzo di carta il modello di società, in forza di un atto politico-giuridico sintesi di principî astratti (le c.d. "libertà borghesi"). L'effetto prodotto dalle Costituzioni cartacee fu quello di accentrare il potere pubblico in poche mani, strapparlo dalla Tradizione e ridurre la società a materia bruta, che lo Stato ha ora il sacro compito di plasmare a suo capriccio.
Ma veniamo ai motivi per cui nel 1848 il popolo si sollevò quasi all'unisono contro l'Impero asburgico. Il Congresso di Vienna del 1815 non aveva affatto messo riparo alle violenze perpetrate dallo sconfitto Napoleone, ma vi aveva dato una sorta di sanzione definitiva: il Congresso stabilì la soppressione della Repubblica di San Marco, la più prestigiosa, longeva e popolare generata dalla storia, per assorbirla in quell'artificiosa e ambigua creazione che fu il Regno Lombardo Veneto, un precario simulacro di autonomia nelle mani di Vienna. Va ricordato che la Veneta Serenissima Repubblica, che per secoli era stata additata dai più illustri politologi come miglior esempio di democrazia (benché avesse forma aristocratica), fu conglobata nel 1815 nell'imperiale Regno Lombardo-Veneto al termine di vent'anni di guerre napoleoniche con un’operazione disinvolta, ammantata da giustificazioni giuridiche inesistenti. La gloriosa Repubblica di San Marco fu trattata come preda bellica al termine di una guerra alla quale essa era rimasta neutrale ed estranea dal primo all'ultimo minuto; anzi va rimembrata la viltà estrema del pseudo-eroe Bonaparte, che le dichiarò guerra dopo aver proditoriamente violato la pace, dopo aver circondato Venezia e solo pochi giorni prima di schiacciarla.
Oltre a questo, va osservato che tutti gli Stati rimessi in piedi dalla Restaurazione, in realtà, non erano più gli stessi di prima. La Rivoluzione liberale aveva vinto nelle idee, prima ancora che nei campi di battaglia, penetrando in profondità nella cultura politica dei regnanti, persino in casa d'Asburgo.
A scuola si dice che gli intellettuali liberali che influenzarono le corti regnanti ne avrebbero attenuato le tendenze autoritarie (si parla di "monarchie illuminate"). È vero il contrario. Anche il mondo asburgico tra Sette ed Ottocento assorbì lo spirito dei tempi, irrigidendo lo Stato in un megalitico apparato burocratico. Non era stato così nel passato. Il Sacro Romano Impero nell'Alto Medioevo aveva tratto il suo motivo fondante nella difesa della Cristianità dal dilagare di Unni, Avari ed Arabi prima e dei Turchi poi. Si trattava di un meraviglioso mosaico di popoli, ognuno per lo più autonomo sul proprio territorio. Per secoli la Civiltà Cristiana aveva trovato un grande equilibrio unificatore su due principî: la Maestà Temporale (sfera politica) e la Maestà Divina (sfera religiosa). La versione ottocentesca dell’Impero assomigliava, invece, ad un soffocante Stato poliziesco, dove spie e delatori la facevano da padrone, per di più agendo sotto la pressione del nazionalismo austro-tedesco.
Il governo di Vienna durante l'Ottocento sembrò aver smarrito i valori cristiani che ne avevano animato l'opera per secoli; guidato da un'ottusità a volte ingenua, sembrava ignorare la desolante situazione in cui erano scivolate le classi popolari nelle sue terre ed agiva quasi volesse coalizzare i propri nemici a proprio danno. Tuttavia, qui occorre fare una distinzione fondamentale: gli errori dell'Austria furono tutti di natura politica, ma non ebbero il carattere di deliberato sfascio sociale e morale che avranno con il Regno d'Italia. Vediamo alcuni aspetti sgraditi della politica di Vienna. La Serenissima aveva paternamente difeso per secoli tanto le comunità rurali quanto le città venete, sviluppando tutti i comparti economici e produttivi, mantenendo gli usi collettivi ed i beni civici (che coprivano dal 20 % al 40 % del territorio); questi ultimi si rifacevano a consuetudini antichissime, che consentivano ai ceti popolari poveri di raccogliere legna e pascolare il bestiame a gratis in vaste estensioni di terreno. Questo sistema tradizionale di utilizzo delle risorse pubbliche garantiva una dignitosa possibilità di sostentamento anche ai più poveri. L'Austria vessò le classi popolari, tanto per cominciare emanando una legge nel 1839 con cui svendette tutti i beni comunali alla ricca borghesia. Una riforma agraria operata al contrario, che ebbe l'effetto di una condanna alla schiavitù per i ceti popolari che vivevano nelle campagne e in montagna. Gli Austriaci davano l’impressione di vendicarsi di quel popolo veneto che aveva osato crescere libero e felice per secoli, giungendo a mettere in ombra l'Impero già al tempo della guerra contro i Franchi, nel IX secolo. Si ricordi poi la guerra che Massimiliano d'Asburgo mosse nel '500 assieme al Papa e alla Lega di Cambrais contro la nostra Repubblica. I suoi assalti poterono essere respinti soprattutto grazie all'eroismo del contado veneto. Si consideri anche lo sviluppo economico, manifatturiero e agricolo promosso da Venezia nel Settecento in Terraferma: i primi insediamenti industriali veneti si distinsero in Europa grazie alla brillante conduzione del patriziato lagunare, mentre nelle mani di Vienna l’asse dello sviluppo produttivo si spostò a tutto vantaggio dei lombardi, come pure il porto di Venezia fu affossato a beneficio di Trieste, e così via.
Ma qui dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare: l'amministrazione austriaca era onesta ed efficiente e ancora informata a quella carica di onestà e di servizio ai cittadini con cui viene rimpianta ancor oggi. Che fine ha fatto quella classe dirigente locale, legata alla tradizione cattolica? Un mistero per i più, che certamente non avranno mai sentito parlare del marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, che sarà mandato nel 1866 da Casa Savoia a fare piazza pulita di dipendenti pubblici, dei professori dell'Università di Padova, dei rappresentanti politici nelle congregazioni provinciali e nelle deputazioni comunali con l’accusa di essere "austriacanti" (oltre a imporre tante altre “riforme”, quali l'espropriazione radicale degli istituti ecclesiastici che assistevano i poveri, l'abolizione degli ordini religiosi regolari, il matrimonio civile, la scuola di Stato, ecc.). Ebbene, a seguito di questa gigantesca epurazione, i posti di pubblico impiego, anche di prestigio, andranno ai compari liberali e libertini al par suo, in gran parte importati dalle lontane lande meridionali. La totale sottomissione dell'apparato pubblico agli adepti liberal-savoiardi (da noi ancor oggi la casta dominante è antiveneta) darà poi luogo a quella rete di corruzione e di camorre che rende ancor oggi famosa l'amministrazione italiana in tutto il mondo. L'Ottocento portò il più grave flagello di miseria e di decadenza che la storia avesse mai riservato al nostro popolo, che appariva sottonutrito e afflitto dalla pellagra nelle campagne, o cencioso e ridotto all'accattonaggio nelle strade cittadine. Finché ha governato Vienna, l'idea di un riscatto nazionale ha trovato facile esca in una situazione di oppressione politica ed economica che colpiva trasversalmente e in forme diverse tutte le classi sociali (fatta esclusione per i soliti collaborazionisti). Quando Roma prenderà il suo posto, al tracollo economico si sommerà uno sconvolgimento morale e sociale, esasperato dal continuo fomentare guerre coloniali e mondiali da parte dell’apparato filo-massonico savoiardo. Nessuno, però, a metà Ottocento avrebbe potuto prevederlo, perché l'idea prevalente non era uno stato unitario, ma di stampo federale. La vasta partecipazione popolare all'insurrezione si dovette anche al riferimento istituzionale che fu prescelto, con piena consapevolezza, nello stabilire il nuovo ordine: il 22 marzo 1848 fu proclamata ufficialmente in piazza San Marco la "Repubblica Veneta" (non "di Venezia" come viene detto da qualcuno con calcolata inesattezza: anche dopo la perdita della Terraferma, non furono mai deliberati nomi diversi).
Questo è il motivo per cui vi fu una sollevazione corale di tutto il Veneto ed il Friuli, fatto che non avverrà mai nel cosiddetto "Risorgimento Italiano" (tutto intessuto all'interno di società esoteriche e trame internazionali). Il nazionalismo italiano fu una costruzione artificiosa di matrice illuministica, quindi incomprensibile ai ceti popolari, mentre il ricordo ancora fresco della Serenissima - 14 secoli di libertà e giustizia per tutti - era un ideale che qualunque veneto era in grado di abbracciare, se non ancora come coscienza nazionale, almeno nel non lontano ricordo che un tempo le cose andavano in modo diverso. E proprio questa fondamentale spinta popolare, spontanea e genuina, ne spiega il fallimento. Il '48 non godette infatti del necessario appoggio delle grandi potenze. Nessuno Stato straniero ebbe interesse a far rinascere un popolo libero come lo era stato fino a mezzo secolo prima. La Francia si mobilitò in un primo tempo per fornire ai Veneti un appoggio militare che avrebbe potuto dimostrarsi decisivo, ma fu fermata dall'Inghilterra e dal Piemonte, che vedevano assai male un movimento di liberazione nazionale sorto fuori dal loro controllo, in particolare non condizionato dalle trame internazionali che metteranno - una ventina d'anni dopo - la museruola illuminista-liberale alla cosiddetta unificazione italiana.
Venezia terrà duro da sola un anno e mezzo, in una resistenza eroica e disperata, assediata e bombardata sotto gli occhi sbigottiti di tutto il mondo, strangolata dalla fame e dal colera. Così i signori della politica internazionale resteranno tutti alla finestra a guardare l'ottusa Austria intenta ad annichilire il nostro popolo, aspettando il giorno che assedianti ed assediati, ormai esausti, sarebbero stati facile preda delle nuove emergenti superpotenze liberali.
Come per il 1797, anche nel 1848 gli storici rimprovereranno ai Veneziani di non aver sostenuto la terraferma veneta p.e. rifornendoli delle armi requisite all'Arsenale e nelle caserme lagunari durante la sollevazione di marzo (30.000 fucili), oppure provando a riarruolare la grande massa di contadini veneti e friulani che avevano disertato dai ranghi asburgici.
Lo sviluppo degli eventi meriterebbe un’analisi dettagliata, ma in ogni caso si può affermare che Daniele Manin fu un leader di assoluta levatura politica, strategica e morale, dotato di un ascendente fortissimo sulla compagine politica e militare; egli conquistò il cuore del popolo, che lo seguì instancabilmente in qualsiasi sua scelta.
Operò il miracolo, che nessuno di noi oggi potrebbe neppure concepire, di tenere in piedi una società ed un'economia per oltre 17 mesi in condizioni terribili, in perpetuo stato d'assedio, sotto le bombe, messo sotto pressione non tanto dal nemico, quanto dalle brame espansioniste di Carlo Alberto e dalla follia rivoluzionaria dei mazziniani: arrivò persino a respingere le pelose proposte di "aiuto" (tra virgolette) di Garibaldi. Oggi c'è chi sostiene che le genti venete si sarebbero dovute trasformare in un poderoso presidio armato in grado di respingere le incalzanti armate austriache: forse si pretende un po’ troppo. In realtà, la gran parte dei nostri contadini non avrebbe mai voluto saperne d'imbracciare un fucile, se non per difendere il proprio villaggio, come facevano le Cérnide sotto la Serenissima. E poi, chi avrebbe potuto guidare questa forza militare, se eccezion fatta per Venezia non c'era una classe dirigente da mettere alla testa di un movimento veneto di liberazione nazionale? Si pensa davvero che Venezia avrebbe potuto controllare ogni cosa da tanta distanza? L'insorgenza era riuscita in tutto il Veneto e Friuli perché tutti si erano sollevati allo stesso tempo ognun per sé, salvo mettersi tutti sotto l'ala della rinata Repubblica Veneta, che però non era tenuta salda in un blocco politico con il resto del territorio. Il problema non era Venezia. Il problema erano le città venete e friulane. Per secoli il patriziato veneziano aveva protetto le comunità rurali dalle prevaricazioni dei nobili del posto e così si sarebbe dovuto fare nel 1848, perché non era facile che i signorotti di campagna trovassero un'unità d'intenti con i contadini. Il ceto benestante di possidenti e latifondisti era stato favorito dall'Austria, come in seguito i grossi borghesi abbracceranno il nuovo regime savoiardo. Manin e Tommaseo avrebbero anche potuto rimettere in piedi la Nazione, ma non certo nell'arco di un anno e mezzo e con le artiglierie imperiali puntate addosso.
Daniele Manin e la nuova Repubblica Veneta
Nel quadro di decadenza che affliggeva sia Venezia che il Veneto, il 13 settembre 1847 si apriva a Venezia il IX Congresso degli Scienziati italiani, presieduto dal principe Giovannelli, per l'iniziativa soprattutto di Manin e Tommaseo; furono pubblicati in quell'occasione i poderosi volumi "Venezia e le sue lagune", al cui interno Manin produsse un pregevole saggio sulla giurisprudenza veneta. Riunendo l'elite intellettuale si facevano circolare le idee, si stabilivano contatti e si favoriva la presa di coscienza sulla situazione politica. Difatti i due leaders colsero l'occasione per avanzare richieste politiche a beneficio dei Veneti. Il Congresso si concluse il 29 settembre, ma già il 18 gennaio 1848 furono arrestati entrambi.
Due mesi dopo, il 17 marzo arrivò da Trieste un piroscafo che portò notizie di sommosse nelle strade di Vienna e la caduta di Metternich. Allora una folla enorme si raccolse in piazza San Marco acclamando alla liberazione dei due prigionieri; pur esitando, il governatore Palffy acconsentì a rilasciarli, con l'intento di impedire una sollevazione generale, sicché la folla portò il Manin in trionfo per la città. Sin dal 3 gennaio 1848 l'Austria aveva imposto la legge marziale a seguito dei disordini a Milano. Nel Lombardo Veneto aveva dislocato 50.000 uomini: 13.000 a Milano, 8.000 a Venezia, 13.000 nel Quadrilatero. Si noti come nel corso di tutto questo marasma i Veronesi, caso unico in tutto il Veneto, restarono del tutto estranei agli eventi perché imbrigliati nel sistema difensivo asburgico.
Ma lungi dall'essersi ristabilito l'ordine, il giorno dopo, il 18, gli studenti di Padova e i Nicolotti (popolani di Cannaregio e Dorsoduro), si concentrarono in piazza e scoppiarono tumulti. Disselciarono i maxegni scagliandoli contro i soldati, che aprirono il fuoco: nove feriti gravi e otto veneziani morti. A quel punto la Municipalità ottenne il permesso di formare una guardia civica di duecento effettivi, ma in poche ore ne arruolò 2.000.
La sera del 18 arrivò la notizia che l'Impero aveva concesso lo Statuto e gli animi sembrarono quietarsi, ma Manin continuò a prendere accordi segreti con elementi della Marina militare: puntava a prendere l'Arsenale. Il 22 fu la volta degli Arsenalotti, cioè i popolani di Castello che lavoravano all'Arsenale. Aggredirono il colonnello Marinovich, cioè il Capo ispettore che li sovraccaricava di lavoro e li pagava male. Lo uccisero e la situazione rimise in gioco Manin, che si recò sul posto con suo figlio Giorgio di 16 anni e poche guardie civiche. Riuscì ad entrare mentre affluivano a dargli man forte altre guardie civiche ed operai, dopo di ché gli ufficiali austriaci ordinarono alla truppa di disperdere l'assembramento. E qui succedette l'imponderabile, perché i soldati austriaci, che in realtà erano contadini veneti, capirono la situazione e si rifiutarono di sparare contro i Veneziani. Il mistero è che non intervenne neppure il contingente croato, che in pratica tradì gli Austriaci in favore dei Veneti.
Il colonnello Buday, un barone ungherese, sguainò la spada ma fu sopraffatto dagli arsenalotti. Erano le tre del pomeriggio e la città era in mano agli insorti. Alle quattro e mezzo Daniele Manin, salito in piedi su un tavolino del caffè Floriàn in piazza, concluse un breve discorso davanti ad una folla in delirio con le parole: - Viva dunque la Repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco! Poco dopo il governatore militare Zichy firmava la capitolazione davanti alla municipalità. La gran parte della guarnigione militare di stanza a Venezia passava alla causa veneta. La notte dopo i membri influenti della borghesia si riunirono nello stesso luogo e affidarono a Manin il governo.
Il corrispondente di un giornale di Augsburg descrisse così il clima tra il popolo: «Io vidi alcuni vecchi cadere in ginocchio piangendo davanti al sacro vessillo [la bandiera di San Marco] e pregare Dio di lasciarli ancora vivere. Le donne e i fanciulli ne seguivano l'esempio». L'entusiasmo popolare straripava, cortei immensi si mettevano in marcia verso San Polo e Rialto, la gente urlava "Viva la Repubblica!".
La nuova Repubblica Veneta si estese a tutti i territori veneti e friulani, ma l'impossibilità di organizzare un vero esercito, i rovesci militari di Carlo Alberto e le false promesse francesi spianarono la strada alla riconquista austriaca. Il territorio libero si ridusse in breve alla laguna e ai forti sulla gronda. Il 4 luglio 1848 il governo cedette alle insistenze dei Piemontesi, che avevano promesso l'invio immediato di 2.000 soldati regolari e aiuti finanziari, sicché l’Assemblea Provinciale votò una risoluzione per entrare nel Regno d'Italia con 127 sì e 6 no: ma fu un voto dettato dalla disperazione, cui erano contrari in cuor loro gli stessi Manin e Tommaseo, che dovettero dimettersi, ma vi si adattarono per aggrapparsi all'unica carta che, giocata bene, ancora poteva sottrarli al totale isolamento internazionale. Tutto inutile: l'intervento di Carlo Alberto si risolse con la vergogna della rotta di Custoza (23 luglio 1848) e dell’ignominioso armistizio firmato dal generale Salasco il 9 agosto, con cui il re fuggiva alle porte di Milano abbandonando i Veneti e tradendo i Milanesi (dopo aver impedito ai Francesi di intervenire in nostra difesa). L'11 agosto alle 8 di sera il popolo si raccolse in Piazza San Marco: la folla prese d’assalto il palazzo governativo nelle Procuratie Nove cacciando i commissari piemontesi Colli, Cibrario e Castelli e pretese che il potere fosse rimesso nelle mani di Manin: si era riformata la Repubblica Veneta indipendente.
L'animo popolare veneziano fu pervicace nel difendere l'ideale repubblicano ed ostinato nel sentimento nazionale veneto: di conseguenza non perdette occasione nel dimostrare avversione verso la dinastia sabauda e l'idea di una "fusione", come allora si era voluto chiamare l’annessione. I gondolieri coniarono una canzonetta che dileggiava i fusionisti: «No intendo ben sto termine che sento dir "fusion"; me par che i se dexmentega de metar prima un "con"». I pescatori di Santa Marta fecero due energiche manifestazioni antimonarchiche con le loro fiocine in piazza, cui si aggiunsero anche i barcaioli e i tagliapietra: ne seguirono addirittura alcuni arresti per la troppa irruenza usata. Testimonia Dell'Ongaro: «chi xelo sto sior Carlo Alberto? - chiedevano le buone donne di Castello e di Santa Marta - Nu no volemo che el nostro Manin e el nostro Tommaseo».
L'italianità era un sentimento sconosciuto ai vari popoli della penisola, connotati da identità etniche del tutto diverse, formatesi in tanti secoli: ancor oggi possiamo riscontrarle. Inoltre, tanti episodi mostrarono che i Veneti tendevano a costituirsi come nazione a parte. Le truppe italiane non legarono affatto con il popolo veneziano. La notte del 23 luglio 1848 tra l'altro vi furono zuffe sanguinose tra popolani di San Pietro di Castello e soldati romani, mentre il 17 febbraio 1849 tra i Nicolotti di San Leonardo e militi napoletani.
Purtroppo la riconquista austriaca della Terraferma fu rapida, perché al governo di Manin mancò un adeguato supporto militare. La difesa del territorio veneto si affidò alla resistenza locale. Fecero eccezione alcune pagine gloriose, seguite ad iniziative intraprese dalla capitale lagunare. Da Venezia il 5 aprile partirono centinaia di volontari per la fortezza di Palmanova, mentre tra l'8 ed il 14 aprile furono migliaia gli armati ad accorrere e a combattere in difesa di Vicenza, capeggiati dallo stesso Manin. Soprattutto vi fu la leggendaria resistenza dei Cadorini: sotto il comando del militare di carriera noalese Pier Fortunato Calvi furono messi 400 volontari e 4.000 guardie civiche, che riuscirono a bloccare la calata di 8.000 effettivi austriaci per tutto il mese di maggio 1848. Cadendo una città dopo l'altra, il 20 giugno 1848 il nemico poté prendere Mestre. I Veneziani formarono un sistema difensivo su cinque fortificazioni sulla gronda lagunare, che resistettero eroicamente quasi un anno.
Il 2 aprile 1849 i deputati dell'Assemblea Permanente di Venezia, eletti a suffragio universale maschile e dal 70 % degli aventi diritto, votavano la seguente risoluzione: «L'Assemblea dello Stato di Venezia in nome di Dio e del Popolo, unanimemente decreta: Venezia resisterà all'Austriaco ad ogni costo. A tale scopo il Presidente Manin è investito di poteri illimitati». Il 24 maggio 1849 gli arciduchi austriaci e gli ufficiali dello Stato maggiore osservarono comodamente con i loro cannocchiali dalla torre civica di Mestre il loro tenente maresciallo Thurn precipitare sulle teste dei resistenti il fuoco concentrato di 150 pezzi d'artiglieria. Così, la notte del 26 maggio la guarnigione veneta sui forti di gronda fu costretta ad evacuare. La punta avanzata della difesa divenne allora il cosiddetto "Piazzale Maggiore". In pratica furono fatte saltare in aria alcune campate del ponte ferroviario translagunare e costruita all'estremità una piazzola per sistemarvi una batteria: essa si nota ancor oggi in parte conservata sullo spiazzo erboso vicino ai binari, dove sono stati lasciati un paio di cannoni. Questa postazione si appoggiava all'avamposto dell'isola di San Secondo. Ambedue venivano bersagliate di continuo dalle postazioni nemiche situate a San Giuliano, sicché ogni giorno dovevano essere ricostruite e rifornite a caro prezzo di vite umane. La notte tra il 6 ed il 7 luglio un coraggioso contingente austriaco assaltò la piazzola alla baionetta, però l'attacco fu respinto dopo aspro combattimento.
Il colpo di grazia alla resistenza cittadina lo diedero il cannoneggiamento della città dalle nuove postazioni conquistate dagli Austriaci nel margine lagunare e la dilagante epidemia di colera, che sterminò 2788 persone. Il popolo di Venezia si accaniva in una lotta senza speranza: tormentato dalla fame e dagli stenti, mentre non sapeva più che dar da mangiare ai suoi figli, quando vedeva passare i suoi governanti, invece di invocare la resa, urlava loro di non voler giammai consegnare la città al nemico. Nell'isola di San Pietro di Castello si cominciarono ad ammassare all'aria aperta i cadaveri che non si riusciva a seppellire; si moltiplicavano gli orfani di guerra, tutte le famiglie di Cannaregio furono sfollate ed ammassate negli altri sestieri. I morti per causa violenta di guerra ammontarono a 1015, senza contare quelli dei primi giorni di disordini.
Il 24 agosto 1849 gli Austriaci tornavano ad occupare la città rendendole l'onore delle armi; agirono con rispetto e lealtà, non arrestarono nessuno e si limitarono a stilare una lista comprendente una quarantina delle personalità maggiormente compromesse con la sollevazione durata 17 mesi, che venivano quindi avviate all'esilio.
Dovendo trarre le somme da questa drammatica ed intensa esperienza, si può dire che i Veneti resero la più alta testimonianza di attaccamento alla loro Patria con impegno unanime, prodigandosi in una epica lotta senza quartiere. Con essa Venezia cancellò persino le ombre del 1797, laddove la vulgata storica ricorrente parla ancor oggi di caduta ingloriosa. Ma se guardiamo agli effetti politici prodotti dalla sollevazione, ebbene furono un vero disastro (come per tutte le rivoluzioni, d'altronde). Le energie della nostra gente furono annichilite in un sol colpo. Si preparò nel modo peggiore l'avvento dell’infausto Regno d'Italia, che trovò nelle Venezie una terra prostrata e priva di solida e consapevole classe dirigente. Gli Austriaci, infatti, resero la loro politica ancor più opprimente verso lo spirito di libertà del nostro popolo.
Un'ultima parola va spesa per Daniele Manin, accusato da certe parti di essere un intrigante legato alle società segrete. I fatti esaminati con spirito imparziale mostrano il contrario, un eroe veneto dei più puri, che per la difesa del suo popolo diede tutto se stesso, sacrificò la famiglia, la professione, gli averi, finì esule quasi in miseria, rifiutando persino i sussidi offertigli e mantenendosi all’estero con il modesto insegnamento. Come s'è visto, il 1848 fu un'epoca terribile, in cui all'improvviso venne meno l’ordine iniquo della Restaurazione, che aveva preteso di sanare la piaga tremenda della Rivoluzione Francese senza usare rispetto per i popoli, né giustizia per i poveri.
Daniele Manin era nato a Venezia il 13 maggio 1804. Il nonno paterno, Samuele Medina, di religione ebraica, si era convertito al cattolicesimo nel 1759, assumendo il cognome della famiglia che lo aveva preso a protezione: la legge prevedeva che con la conversione al Cristianesimo il battezzato prendesse il nome del padrino. Strano scherzo della sorte: questi fu Antonio Manin, fratello dell'ultimo doge di Venezia Ludovico Manin, quasi ad imparentare chi chiudeva una storia e chi ne apriva un'altra!
Tutt'altra faccenda fu la Società nazionale italiana che Manin fondò a Torino nel 1856, un anno prima della morte, avvenuta durante l’esilio parigino il 22 settembre 1857. Il motivo dominante dei suoi ultimi giorni sembrava essere una vendetta quasi ossessiva contro quell'Austria che aveva distrutto la sua libertà, la sua Patria, la sua vita, il suo futuro, invocando una redenzione che credeva ormai possibile solo sotto la corona sabauda. Ben presto, infatti, il Conte Camillo Benso di Cavour prenderà il totale controllo di detta società e piloterà la sovversione liberale con i soliti metodi. Quanto li condivideva il galantuomo Daniele Manin? Giudicate voi da questa sua dichiarazione apparsa sulla Gazzetta delle Alpi n. 135 del 7 giugno 1856: "Il partito cui appartenni è una mano d'assassini".
Il 25 maggio dello stesso anno aveva mandato al giornale "Il Diritto" (che non la pubblicava, ma lo scritto veniva rilanciato dal Times di Londra) una lettera in cui denunciava l'assassinio politico come metodo usuale praticato dai liberali italiani; vi si diceva tra l'altro: «E' cosa che strazia il cuore; è vergognoso il sentir ogni giorno di fatti atroci, di pugnalate, che succedono in Italia... possiamo noi negare che una parte di esse è perpetrata da uomini che chiamiamo patrioti, e che furono pervertiti dalla teoria del pugnale?».





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