La battaglia di Mentana venne combattuta il 3 novembre 1867, quando le truppe franco-pontificie si scontrarono con i volontari di Garibaldi, che tentavano di raggiungere Roma e cacciarne Papa Pio IX. Quando Vittorio Emanuele II di Savoia divenne re d'Italia il 17 marzo 1861, il nuovo Regno ancora non controllava nè Venezia, nè Roma. La situazioni delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e la principale priorità della sua politica estera. A volte le tensioni assumevano particolare gravità, come accadde nel 1862 quando Garibaldi, in marcia dalla Sicilia verso Roma, venne fermato dall'esercito italiano alla giornata dell'Aspromonte: ferito, venne fatto prigioniero e messo agli “arresti domiciliari” a Caprera. La decisa azione italiana contro un eroe nazionale permise al governo di negoziare un favorevole accordo con la potenza protettrice del Papa, la Francia: con la convenzione franco-italiana del 15 settembre 1864, il Regno d'Italia si impegnava a rispettare l'indipendenza del reisiduo “Patrimonio di San Pietro” e di difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno) e la Francia a ritirare le sue truppe entro due anni, in modo da lasciare all'esercito pontificio il tempo di organizzarsi in una credibile forza di combattimento. L'obiettivo della annessione di Roma rimaneva comunque assai popolare, nè il Regno rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito, a suo tempo, dal Cavour in persona. Diverse furono, in effetti, le scaramucce e le azioni dei garibaldini sui confini o nella stessa città eterna. Il 12 agosto 1866, terminata la cosiddetta Terza guerra di indipendenza italiana (un segmento della Guerra Austro Prussiana) con l'Armistizio di Cormons, il Regno di Italia aveva guadagnato Mantova, Venezia ed una adeguata sistemazione dei confini orientali. Rimaneva aperta la questione di Roma e del Lazio, ultimo relitto degli Stati Pontifici. Rinviando a tempi migliori la questione di Trento e Trieste. A ciò si aggiunga che nel dicembre 1866, le ultime unità del corpo di spedizione francese si erano imbarcate a Civitavecchia per la Francia, in applicazione della convenzione del 1864. Particolarmente impegnato sulla "questione romana" era, ormai da due decenni, il grande generale Garibaldi, che andava dichiarando come fosse venuto il tempo di «far crollare la baracca pontificia» e, il 9 settembre 1867 ad un Congresso della Pace ospitato dalla protestantissima città di Ginevra, definiva il Papato «negazione di Dio ... vergogna e piaga d'Italia ». Da tenere ben presente, in questo contesto, è la rinnovata popolarità che Garibaldi aveva conquistato alla guerra del 1866, quale unico generale italiano che avesse saputo battere gli Austriaci alla battaglia di Bezzecca (mentre l'esercito e la marina del re avevano dovuto subire le sconfitta alla battaglia di Custoza ed alla battaglia di Lissa). Ciò lasciava a lui un rinnovato margine di manovra e rendeva assai più difficile al Governo Regio (comunque impegnato al rispetto della convenzione del 1864) fermare l'agitazione o i preparativi delle camicie rosse. Garibaldi ebbe così la libertà di organizzare, sostanzialmente indisturbato, un piccolo esercito di 10'000 volontari (benché vi sia generale incertezza in merito all'effettiva consistenza, in assenza di registri), predisponendo, al contempo, un piano per la sollevazione di Roma. La mobilitazione, tuttavia, era decisamente scoperta, ciò che permise all'Imperatore di Francia Napoleone III di programmare con congruo anticipo una spedizione di soccorso, che sarebbe, infatti, giunta a Civitavecchia solo alcuni giorni dopo l'inizio dell'invasione del Lazio. Vennero inoltre messe in allarme le truppe a disposizione del Papa, costituite, in maggioranza da volontari francesi (specie la cosiddetta legione di Antibes, mentre degli Zuavi Pontifici facevano parte anche volontari belgi, svizzeri, irlandesi e olandesi, oltre che francesi. Il 22 ottobre Roma assistette ad un attentato alla caserma Serristori, causando la morte di ventitré degli zuavi pontifici che lì avevano quartiere. L'attentato doveva dare il via ad una sollevazione che non ci fu, e portò, il 24 novembre 1868, alla decapitazione dei ribelli Giuseppe Monti (muratore di Fermo) ed il romano Gaetano Tognetti, ultimi martiri del risorgimento a Roma. Il 23 ottobre 1867, ebbe luogo lo scontro di Villa Glori, quando un drappello di settantasei volontari da Enrico e Giovanni Cairoli (Fratelli Cairoli), giunti a prendere contatto con i rivoluzionari romani, non trovarono nessuno ad attenderli e vennero sopraffatti dai Carabinieri Esteri del Papa. Il 25 ottobre la polizia papalina occupò, non senza perdite, il lanificio Aiani, a Trastevere, dove erano raccolte bombe ed a disposizione degli insorti. Il 26 ottobre Garibaldi, con il suo piccolo esercito di 8'000 uomini, prese quindi posizione fra Tivoli, Acquapendente e Monterotondo. Qui, tuttavia, Garibaldi decise di arrestare la marcia, nella inutile attesa della sperata insurrezione in Roma. Solo alcuni reparti vennero inviati avanti verso Roma. Lo stesso generale il 29 ottobre avanzò sino a Villa Spada ed al Ponte Nomentano, nella speranza di suscitare, con la sua presenza, una ribellione in Roma. La quale, in effetti, si limitò ad alcuni scontri a fuoco: il 30 Garibaldi tornava sui propri passi a Monterotondo. Lo stesso 26 ottobre un reparto isolato alla retroguardia, guidato dal maggiore siciliano Raffaele de Benedetto, venne agganciato da quattrocento papalini al Colle San Giovanni, rifiutò di cedere le armi e venne interamente massacrato. Nel frattempo, giunse conferma che truppe regolari italiane avevano anch'esse traversato il confine, con la missione ufficiale di arrestare Garibaldi: si sperò, forse, in qualche complicazione fra queste e la guarnigione di Roma. Nulla di tutto questo accadde. L'inazione del Garibaldi diede, al contrario, il tempo ad un corpo di spedizione francese, sotto il comando del Pierre Louis Charles de Failly, di prendere terra a Civitavecchia il 29 ottobre e di ricongiungersi a Roma con l'esercito del Papa (carabinieri esteri o svizzeri, zuavi pontifici, legione di Antibes). Appariva ormai chiaro che l'invasione non si sarebbe tradotta in una marcia trionfale, e parte degli effettivi meno motivati a disposizione del Garibaldi, in questi giorni, disertarono, grandemente facilitati dalla prossimità del confine italiano: il fenomeno coinvolse, probabilmente, parecchie centinaia di unità, benché non vi sia nulla di certo. Il 3 novembre alle 2'00 del mattino, al comando del generale Hermann Kanzler, l'esercito del Papa e le truppe regolari francesi del generale de Polhes uscirono da Roma in ordine di marcia verso le posizioni garibaldine a Monte Rotondo. Garibaldi disponeva di truppe più numerose, ma male equipaggiate e sostanzialmente prive di cavalleria ed artiglieria. Erano state costituite sei brigate, ognuna composta da tre o quattro battaglioni, guidate rispettivamente dal Salomone, dal colonnello Frigyesi, dal maggiore Valanzia, dal maggiore Cantoni, dal Paggi, e dal colonnello Elia. Si aggiungeva uno squadrone di Guide a Cavallo, forte di circa 100 unità, guidato dal Ricciotti Garibaldi (l'ultimo figlio del generale con Anita Garibaldi defunta proprio mentre fuggiva da Roma e dai francesi) ed una singola batteria con quattro cannoni. L'armamento era costituito, probabilmente, per due terzi da fucili ad avancarica e per un terzo, addirittura, da moschetti a percussione. Probabilmente metà degli effettivi erano veterani di qualche campagna garibaldina, mentre la restante metà erano volontari privi di esperienza bellica. Le truppe papaline erano rappresentate da truppe anch'esse volontarie, ma veterane e di più prolungato inquadramento. L'esercito papalino era composto da circa 3'000 uomini, oltre ai circa 2'500 del corpo di spedizione francese, truppe regolari. Quest'ultimo era equipaggiato con il nuovo fucile chassepot modello 1866, a retrocarica, munito di un otturatore e caricato a cartuccia: esso permettevano di caricare sino a 12 colpi al minuto, un'enormità per l'epoca. La cavalleria era costituita da circa 150 dragoni e 50 cacciatori a cavallo; l'artiglieria di circa 10 pezzi. Proseguendo lungo l'antica Via Nomentana in direzione Monterotondo, papalini e francesi giunsero in prossimità della tappa intermedia di Mentana nel primo pomeriggio. Di fronte a loro il villaggio si presentava sull'alto di una collina a forma di promontorio, cinto da un muraglione con in fronte un antico castello medioevale, volto proprio verso la Nomentana. Alcune miglia a sud tre compagnie di Zuavi Papalini vennero inviate lungo il Tevere verso Monterotondo ed il fianco destro del fronte garibaldino. La colonna principale, invece, con i dragoni all'avanguardia e i francesi in retroguardia proseguiva, sempre verso Monte Rotondo, lungo la Nomentana. Essi presero un primo, inaspettato, contatto con gli avanposti di Garibaldi già a sud di Mentana e li sospinsero verso la località Vigna Santucci, circa 1,5 Km. a sud-est del villaggio. Qui la posizione era difesa da tre battaglioni di camicie rosse, schierate a sinistra sul Monte Guarnieri ed a destra nell fattoria di Vigna Santucci. Entro le due del pomeriggio gli assalitori sloggiarono entrambe le posizioni e piazzarono l'artiglieria sul Monte Guarneri, in vista del villaggio e del vicino altopiano. Garibaldi schierò la modestissima artiglieria su una altura a nord, il Monte San Lorenzo e la gran parte delle truppe (Frigyesi, Valanzia, Cantoni, e Elia) all'interno ed intorno al villaggio murato ed al catello, in posizioni fortificate. Contro queste difese si infransero ripetuti assalti francesi, con relativi contrattacchi, continuati sino all'inizio della notte. A questo punto venne programmato un contrattacco di aggiramento su entrambi i fianchi dello schieramento papalino, che non ebbe successo. Nel frattempo le tre compagnie di Zuavi che avevano marciato lungo il Tevere occuparono la strada fra Mentana e Monterotondo, inducendo Garibaldi a recarsi personalmente sul luogo, lasciando l'esercito a difendere Mentana. A questo punto il corpo francese attaccò le camicie rosse sul loro fronte sinistro, e sfondarono le linee. I difensori fuggirono verso Monterotondo o si rifugiarono asserragliandosi nel castello. I difensori del castello si arresero ai papalini la mattina successiva. Garibaldi stesso ripiegò nel Regno d'Italia con 5'000 uomini. Al termine della giornata i franco-pontifici avevano registrato 32 morti e 140 feriti. I garibaldini 150 morti e 220 feriti. Sin dall'indomani della battaglia il merito della vittoria venne attribuita ai regolari francesi ed ai loro fucili chassepot modello 1866. Ad esempio, quando il 6 novembre i vincitori rientrarono in Roma per la sfilata trionfale la folla li acclamava come i veri vincitori della giornata e gridava «viva la Francia». Mentana asStato Pontificio, tre ultimi anni di vita, dei quali il sovrano pontefice profittò per tenere l'allora tanto discusso Concilio Vaticano I (giugno 1868 - luglio 1870). Lì Pio IX ottenne, fra l'altro, la sanzione dei principi già espressi nel Sillabo del 1864 e la costituzione apostolica Pastor Aeternus, che impone l'infallibilità del vescovo di Roma quando definisce solennemente un dogma. Mentana sancì, inoltre, il definitivo allontanamento di Napoleone III dalle simpatie del movimento nazionale italiano, ad esito di un processo già iniziato con l'Armistizio di Villafranca. Era facile, in quei giorni, ricordarlo come l'uomo che mise fine alla Repubblica Romana (1849). La storiografia conteporanea tende, con maggiore gratitudine, ricordarlo come colui che permise ai Piemontesi di cacciare gli Austriaci dalla Lombardia, il vero alleato del Camillo Benso Conte di Cavour. Garibaldi, anche se ormai vecchio (era nato il 4 luglio 1807), ebbe la insperata fortuna di regolare i propri personali conti con Napoleone III a seguito della sconfitta di quest'ultimo alla battaglia di Sedan, nel corso della alla guerra franco-prussiana: raggiunta la Francia nell'ottobre del 1870, ottenne uno dei rari successi della campagna in difesa della neonata Repubblica Francese (battaglia di Digione). Anche Vittorio Emanuele II di Savoia aveva saputo attendere: il 20 settembre 1870 (18 giorni dopo la resa dell'imperatore a Sedan e pochi giorni prima della partenza di Garibaldi per la Francia) il regio esercito italiano aprì una breccia nelle mura aureliane nei pressi di Porta Pia, segnando la fine dello Stato Pontificio. Porta Pia segna l'inizio della Via Nomentana.
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