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sabato 19 dicembre 2009

Religiosità


Levita Giuseppe nasce a Barcellona P.G. il 6 Agosto 1925 e’ ordinato Sacerdote presso la diocesi di Messina nel '48 a soli 23 anni. Nello stesso anno (1948) " Mons. Angelus Paina" nomina il " reverendo Sac. Josepho Levita, Antonini fiíio» parroco della " Paroecia" di S. Barbarae, frazione del Comune di Montaíbano Elicona dove rimane fino al 14 Febbraio del 1950. Dopo aver partecipato al concorso per la nomina di parroco titolare della parrocchia di San Giovanni Battista in Barcellona, viene assegnato il 25 Febbraio del 1950, quale vincitore, alla suddetta parrocchia dove rimane a svolgere l'attività pastorale fino alla sua immatura scomparsa. Nel novembre del 1955 viene nominato, in sostituzione di Mons. Stracquadaini Salvatore, " Vtcarium Oeconomum» della Cattedrale di Barcellona P.G., nomina che rifiutò per non abbandonare i suoi fedeli e la sua amata Parrocchia di S. Giovanni Battista dove continuò la sua missione dedicandosi ai poveri, ai bisognosi e a tutti quelli che fiduciosi si sono avvicinati a lui. Dal 1957 al 1966 ha retto l'Ufficio di Vicario Foraneo nella Forania di Barcellona che comportava il governo di 17 Parrocchie. L'incarico svolto con precisa puntualità è stato rimesso volutamente nel 1966. Uomo saggio, sacerdote vigilante, persona accorta e umile. Uomo di riflessione, di preghiera, di meditazione, di grande cultura. Non pago del suo sapere, quasi a spronarsi all'approfondimento teologico, dopo il Concilio Vaticano II frequentò, con ottimi risultati, l'Università del Laterano a Roma, dove conseguì, a pieni voti, la licenza in Sacra Teologia con specializzazione in Pastorale. Amò la sua famiglia quanto la sua comunità facendo della parrocchia la sua casa. Lì a San Giovanni Battista era presente a chiunque avesse bisogno di lui, di un suo consiglio, di una parola di conforto o soltanto di sana compagnia, lì trascorreva tutto il suo tempo, lì muore in una grigia mattina del 28 Marzo del 1990 mentre il cielo piange la sua scomparsa e la terra trema per il grande dolore.



San Giovanni Bosco
San Giovanni Bosco è indubbiamente il più celebre santo piemontese di tutti i tempi, nonché su scala mondiale il più famoso tra i santi dell’epoca contemporanea: la sua popolarità è infatti ormai giunta in tutti i continenti, ove si è diffusa la fiorente Famiglia Salesiana da lui fondata, portatrice del suo carisma e della sua operosità, che ad oggi è la congregazione religiosa più diffusa tra quelle di recente fondazione. Don Bosco fu l’allievo che diede maggior lustro al suo grande maestro di vita sacerdotale, nonché suo compaesano, San Giuseppe Cafasso: queste due perle di santità sbocciarono nel Convitto Ecclesiastico di San Francesco d’Assisi in Torino. Giovanni Bosco nacque presso Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) in regione Becchi, il 16 agosto 1815, frutto del matrimonio tra Francesco e la Serva di Dio Margherita Occhiena. Cresciuto nella sua modesta famiglia, dalla santa madre fu educato alla fede ed alla pratica coerente del messaggio evangelico. A soli nove anni un sogno gli rivelò la sua futura missione volta all’educazione della gioventù. Ragazzo dinamico e concreto, fondò fra i coetanei la “società dell’allegria”, basata sulla “guerra al peccato”.

Entrò poi nel seminario teologico di Chieri e ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1841. Iniziò dunque il triennio di teologia morale pratica presso il suddetto convitto, alla scuola del teologo Luigi Guala e del santo Cafasso. Questo periodo si rivelò occasione propizia per porre solide basi alla sua futura opera educativa tra i giovani, grazie a tre provvidenziali fattori: l’incontro con un eccezionale educatore che capì le sue doti e stimolo le sue potenzialità, l’impatto con la situazione sociale torinese e la sua straordinaria genialità, volta a trovare risposte sempre nuove ai numerosi problemi sociali ed educativi sempre emergenti.

Come succede abitualmente per ogni congregazione, anche la grande opera salesiana ebbe inizi alquanto modesti: l’8 dicembre 1841, dopo l’incontro con il giovane Bartolomeo Garelli, il giovane Don Bosco iniziò a radunare ragazzi e giovani presso il Convitto di San Francesco per il catechismo. Torino era a quel tempo una città in forte espansione su vari aspetti, a causa della forte immigrazione dalle campagne piemontesi, ed il mondo giovanile era in preda a gravi problematiche: analfabetismo, disoccupazione, degrado morale e mancata assistenza religiosa. Fu infatti un grande merito donboschiano l’intuizione del disagio sociale e spirituale insito negli adolescenti, che subivano il passaggio dal mondo agricolo a quello preindustriale, in cui si rivelava solitamente inadeguata la pastorale tradizionale. Strada facendo, Don Bosco capì con altri giovani sacerdoti che l’oratorio potesse costituire un’adeguata risposta a tale critica situazione. Il primo tentativo in tal senso fu compiuto dal vulcanico Don Giovanni Cocchi, che nel 1840 aveva aperto in zona Vanchiglia l’oratorio dell’Angelo Custode. Don Bosco intitolò invece il suo primo oratorio a San Francesco di Sales, ospite dell’Ospedaletto e del Rifugio della Serva di Dio Giulia Colbert, marchesa di Barolo, ove dal 1841 collaborò con il teologo Giovanni Battista Borel. Quattro anni dopo trasferì l’oratorio nella vicina Casa Pinardi, dalla quale si sviluppò poi la grandiosa struttura odierna di Valdocco, nome indelebilmente legato all’opera salesiana. Pietro Stella, suo miglior biografo, così descrisse il giovane sacerdote: “Prete simpatico e fattivo, bonario e popolano, all’occorrenza atleta e giocoliere, ma già allora noto come prete straordinario che ardiva fare profezie di morti che poi si avveravano, che aveva già un discreto alone di venerazione perché aveva in sé qualcosa di singolare da parte del Signore, che sapeva i segreti delle coscienze, alternava facezie e confidenze sconvolgenti e portava a sentire i problemi dell’anima e della salvezza eterna”.

Spinto dal suo innato zelo pastorale, nel 1847 Don Bosco avviò l’oratorio di San Luigi presso la stazione ferroviaria di Porta Nuova. Nel frattempo il cosiddetto Risorgimento italiano, con le sue articolate vicende politiche, provocò anche un chiarimento nell’esperienza degli oratori torinesi, evidenziando due differenti linee seguite dai preti loro responsabili: quella apertamente politicizzata di cui era fautore Don Cocchi, che nel 1849 aveva tentato di coinvolgere i suoi giovani nella battaglia di Novara, e quella più religiosa invece sostenuta da Don Bosco, che prevalse quando nel 1852 l’arcivescovo mons. Luigi Fransoni lo nominò responsabile dell’Opera degli Oratori, affidando così alle sue cure anche quello dell’Angelo Custode. La principale preoccupazione di Don Bosco, concependo l’oratorio come luogo di formazione cristiana, era infatti sostanzialmente di tipo religioso-morale, volta a salvare le anime della gioventù. Il santo sacerdote però non si accontentò mai di accogliere quei ragazzi che spontaneamente si presentavano da lui, ma si organizzò al fine di raggiungerli ed incontrarli ove vivevano. Se la salvezza dell’anima era l’obiettivo finale, la formazione di “buoni cristiani ed onesti cittadini” era invece quello immediato, come Don Bosco soleva ripetere. In tale ottica concepì gli oratori quali luoghi di aggregazione, di ricreazione, di evangelizzazione, di catechesi e di promozione sociale, con l’istituzione di scuole professionali. L’amorevolezza costituì il supremo principio pedagogico adottato da Don Bosco, che faceva notare come non bastasse però amare i giovani, ma occorreva che essi percepissero di essere amati. Ma della sua pedagogia un grande frutto fu il cosiddetto “metodo preventivo”, nonché l’invito alla vera felicità insito nel detto: “State allegri, ma non fate peccati”.

Don Bosco, sempre attento ai segni dei tempi, individuò nei collegi un valido strumento educativo, in particolare dopo che nel 1849 furono regolamentati da un’opportuna legislazione: fu così che nel 1863 fu aperto un piccolo seminario presso Mirabello, nella diocesi di Casale Monferrato. Altra svolta decisiva nell’opera salesiana avvenne quando Don Bosco si sentì coinvolto dalla nuova sensibilità missionaria propugnata dal Concilio Ecumenico Vaticano I e, sostenuto dal pontefice Beato Pio IX e da vari vescovi, nel 1875 inviò i suoi primi salesiani in America Latina, capeggiati dal Cardinale Giovanni Cagliero, con il principale compito di apostolato tra gli emigrati italiani. Ben presto però i missionari estesero la loro attività dedicandosi all’evangelizzazione delle popolazioni indigene, culminata con il battesimo conferito da Padre Domenico Milanesio al Venerabile Zeffirino Namuncurà, figlio dell’ultimo grande cacico delle tribù indios araucane. Uomo versatile e dotato di un’intelligenza eccezionale, con il suo fiuto imprenditoriale Don Bosco considerò la stampa un fondamentale strumento di divulgazione culturale, pedagogica e cristiana. Scrittore ed editore, tra le principali sue opere si annoverano la “Storia d’Italia”, “Il sistema metrico decimale” e la collana “Letture Cattoliche”. Non mancarono alcune biografie,tra le quali spicca quella del più bel frutto della sua pedagogia, il quindicenne San Domenico Savio, che aveva ben compreso la sua lezione: “Noi, qui, alla scuola di Don Bosco, facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nell’adempimento perfetto dei nostri doveri”. Scrisse inoltre le vite di altri due ragazzi del suo oratorio, Francesco Besucco e Michele Magone, nonché quella di un suo indimenticabile compagno di scuola, Luigi Comollo. Pur essendo straordinariamente attivo, Don Bosco non avrebbe comunque potuto realizzare personalmente dal nulla tutta questa immane opera ed infatti sin dall’inizio godette del prezioso ausilio di numerosi sacerdoti e laici, uomini e donne. Al fine di garantire però una certa continuità e stabilità a ciò che aveva iniziato, fondò a Torino la Società di San Francesco di Sales (detti “Salesiani”), congregazione composta di sacerdoti, e nel 1872 a Mornese con Santa Maria Domenica Mazzarello le Figlie di Maria Ausiliatrice. L’opinione pubblica contemporanea apprezzò molto la preziosa opera di promozione sociale da lui svolta, anche se la stampa laica gli fu sempre avversa, tanto che alla sua morte la Gazzetta del Popolo si limitò a citarne cognome, nome ed età nell’elenco dei defunti, mentre la Gazzetta Piemontese (l’odierna “La Stampa”) gli riservò l’articolo redazionale dosando accuratamente meriti e demeriti del celebre sacerdote: “Il nome di Don Bosco è quello di un uomo superiore che lascia e suscita dietro di sé un vivo contrasto di apprezzamenti e opposti giudizi e quasi due opposte fame: quello di benefattore insigne, geniale, e quello di prete avveduto e procacciate”.

Personalità forte ed intraprendente, bisognosa di particolare autonomia nella sua azione a tutto campo, non lasciava affatto indifferenti coloro che gli erano per svariati motivi a contatto. Ciò costituisce inoltre una spiegazione ai ripetuti scontri che ebbe con ben due arcivescovi torinesi: Ottaviano Riccardi di Netro e soprattutto Lorenzo Gastaldi. Lo apprezzò e lo appoggiò invece costantemente e senza riserve papa Pio IX, che con la sua potente intercessione permise all’opera salesiana di espandersi non solo a livello locale, sorte invece subita da numerosissime altre minute congregazioni. Giovanni Bosco morì in Torino il 31 gennaio 1888, giorno in cui è ricordato dal Martyrologium Romanum e la Chiesa latina ne celebra la Memoria liturgica. Alla guida della congregazione gli succedette il Beato Michele Rua, uno dei suoi primi fedeli discepoli. La sua salma fu in un primo tempo sepolta nella chiesa dell’istituto salesiano di Valsalice, per poi essere trasferita nella basilica di Maria Ausiliatrice, da lui fatta edificare. Il pontefice Pio XI, suo grande ammiratore, beatificò Don Bosco il 2 giugno 1929 e lo canonizzò il 1° aprile 1934. La città di Torino ha dedicato alla memoria del santo una strada, una scuola ed un grande ospedale. Nel centenario della morte, nel 1988 Giovanni Paolo II, recatosi in visita ai luoghi donboschiani, lo dichiarò Padre e Maestro della gioventù, “stabilendo che con tale titolo egli sia onorato e invocato, specialmente da quanti si riconoscono suoi figli spirituali”.

La venerazione che Don Bosco ebbe, in vita ed in morte, per sua madre fu trasmessa alla congregazione, che negli anni ’90 del XX secolo ha pensato di introdurre finalmente la causa di beatificazione di Mamma Margherita. Merita infine ricordare la prolifica stirpe di santità generata da Don Bosco, tanto che allo stato attuale delle cause, la Famiglia Salesiana può contare ben 5 santi, 51 beati, 8 venerabili ed 88 servi di Dio.




Suor Lucia LISBONA

Suor Lucia LISBONA - E' morta a 97 anni la depositaria di uno dei "misteri" più famosi e studiati del mondo: il terzo "segreto" di Fatima. Suor Lucia era l'ultima ancora in vita dei tre pastorelli ai quali la Madonna era apparsa a Fatima (nel Portogallo centrale). Ultima testimone diretta di una delle rarissime apparizioni della Madonna venerate dalla Chiesa e da Giovanni Paolo II.
Suor Lucia, al secolo Lucia de Jesus dos Santos, si è spenta nel convento di Coimbra alle 17.25 ora locale (le 18.25 in Italia). Aveva assistito alle apparizioni della "signora vestita di bianco", a partire dal 13 maggio 1917 - in piena Prima guerra mondiale - assieme ai fratelli Francisco e Jacinta Martos. Entrambi sono morti da tempo.
Ai tre pastorelli la Madonna avrebbe rivelato i cosiddetti tre segreti di Fatima, a lungo oggetto di congetture ed esegesi da parte di teologi e studiosi, cattolici e no. Il santuario mariano di Fatima è uno dei luoghi più venerati del cattolicesimo. Wojtyla il 13 maggio 1982, esattamente un anno dopo l'attentato di Alì Agca, andò a Fatima per incontrare l'anziana suora carmelitana, allora ancora depositaria di quel segreto, poi svelato nel 2000, che proprio dell'attentato al papa parlava.
E nel santuario sorto nella zona delle apparizioni, del "miracolo del sole", e che attira ogni anno milioni di fedeli, c'è la statua dove il Papa ha voluto fosse incastonata la pallottola estratta dal suo intestino. Quella pallottola che, secondo Giovanni Paolo II, avrebbe solo sfiorato i suoi organi vitali grazie all'intercessione della Madonna.
Due anni fa suor Lucia parlò del terzo segreto di Fatima, spiegando che tutto era ormai noto: "Tutto è stato pubblicato, non c'è più nulla di segreto". A chi parlava di nuove rivelazioni disse: "Non c'è niente di vero. Se avessi avuto nuove rivelazioni non le avrei dette a nessuno, ma le direi direttamente al Santo Padre".
Nata nel 1907, Lucia de Jesus dos Santos era entrata nel 1921 - ad appena 14 anni di età - nel monastero di Vilar, a Oporto. Nell'ottobre 1928 aveva preso i voti temporanei, il 3 ottobre 1934 quelli perpetui. Nel 1948 era entrata nel convento del Carmelo di Santa Teresa, assumendo il nome di sorella Maria Lucia de Jesus y del Corazon Immaculado.
"La prima e la seconda parte del 'segreto' - riporta il sito della città del Vaticano - riguardano la spaventosa visione dell'inferno, la devozione al Cuore Immacolato di Maria, la seconda guerra mondiale, e poi la previsione dei danni immani che la Russia, nella sua defezione dalla fede cristiana e nell'adesione al totalitarismo comunista, avrebbe recato all'umanità".
"Nessuno nel 1917 - sottoline la Santa Sede - avrebbe potuto immaginare tutto questo". Nel 1944 Lucia mise finalmente per iscritto la terza parte del segreto di Fatima, la più controversa. Il documento, inviato in Vaticano, letto da tutti i Papi e da pochissimi altri stretti collaboratori, è stato poi divulgato da Giovanni Paolo II il 26 giugno 2000.



I TRE PASTORELLI DI FATIMA

Nella corona di Maria è stato incastonato il proiettile usato nell’attentato a Giovanni Paolo II "Ti benedico,o Padre, (...) perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt 11, 25).
Fatima è un piccolo paese del Portogallo centrale, di appena qualche dozzina di case, raccolte attorno alla Chiesa e al camposanto.
Uscendo dal paese e andando verso occidente, una stradicciola di campagna conduce ad una frazione di Fatima chiamata Aljustrel: qui nacquero e vissero i tre piccoli protagonisti della storia di Fatima
Come tutti i ragazzi del loro paese. Lucia di Gesù e i due suoi cuginetti Francesco e Giacinta Marto, aiutavano i genitori portando a pascolare ogni giorno un piccolo gregge di pecore e di capre appartenente alle loro famiglie.
Lucia era nata ad Aljustrel il 22 marzo 1907 da Antonio Dos Santos e da Maria Rosa De Jesus, ultima di altre tre sorelle e di un fratello.
Francesco era nato l’11 giugno 1908 e la sorellina Giacinta il 10 marzo 1910, da Manuel Pedro Marto che aveva sposato Olimpia, una sorella del padre di Lucia, già vedova e madre di due figli, dalla quale ebbe, oltre Francesco e Giacinta, altri sei figlioli.
Dalle casette di Aljustrel i tre piccoli amici erano soliti spingere ogni giorno il piccolo gregge delle due famiglie verso questo o quel luogo, a loro scelta, nei dintorni. Ivi passamano assieme l'intera giornata custodendo le pecore e giocando, A mezzogiorno prendevano il cibo che le mamme avevano preparato per loro. Poi, prima di rimettersi a giocare, recitavano insieme il santo Rosario.
Un giorno piovigginoso di primavera (non possiamo precisare l'anno) i tre fanciulli furono testimoni di un fatto straordinario. Sentiamo la testimonianza di Lucia. (…) Vedemmo, ad una certa distanza sulla cima degli alberi,(…)una luce più bianca della neve, che lasciava intravedere la figura di una giovane trasparente e più sfavillante del cristallo colpito dai raggi del sole. Quando si avvicinò si più potemmo distinguerne meglio l’aspetto. Disse “ Non temete. Io sono l’Angelo della pace.pregate con me”. E inginocchiandosi Egli chinò il volto fino a terra. Guidati dallo stesso impulso soprannaturale, noi facemmo altrettanto e ripetemmo le parole che univamo pronunciare da Lui: “Mio Dio, io credo, adoro, spero in Voi e Vi amo. Chiedo perdono per quelli che non credono, non sperano, non Vi amano”.
Dopo avere ripetuto queste parole tre volte, egli si alzò e disse: “ pregate così. I Cuori di Gesù e Maria sono attenti alla voce delle vostre suppliche”. Poi egli disparve.
Le apparizioni dell'Angelo (in tutto tre) sarebbero certamente rimaste sconosciute a noi ed al mondo intero, se ad esse non avessero fatto seguito altre ed ancor più straordinarie apparizioni, delle quali i tre fanciulli di Aljustrel furono sì i soli interlocutori, ma alle quali furono presenti folle sempre più numerose di credenti e di increduli, di dotti e di semplici contadini…
Era la Domenica 13 Maggio 1917, i tre cuginetti, dopo aver assistito alla S. Messa nella Chiesa parrocchiale di Fatima, tornarono ad Aljustrel per prepararsi a condurre al pascolo il loro gregge. Il tempo era splendido e decisero di andare, questa volta, fino alla Cova da Iria, la grande radura a forma di anfiteatro delimitata verso Nord da una piccola altura.
" Qui, narra Lucia, mentre giocavo con Giacinta e Francesco in cima alla collina, improvvisamente vedemmo una folgore, come di lampi. “C’è una folgore di lampi, dissi io ai miei cugini, può darsi che venga il temporale, sarebbe meglio andare a casa”.
“ Si certo” – dissero essi.
Cominciammo a discendere la collina guidando il gregge lungo la strada. Quando arrivammo ad un grande leccio a metà strada dal pendio, la luce sfolgorò ancora (…)
Pochi passi più avanti scorgemmo una bella Signora vestita di bianco, ritta sopra un leccio, vicino a noi. Ella era più luminosa del sole,raggiante di una luce sfolgorante…
Colpiti da stupore, ci arrestammo davanti a questa visione. Eravamo così vicini da essere immersi nella luce che irradiava dalla sua Persona, alla distanza di circa un metro.
Quindi la Signora disse: “ Non abbiate paura, non vi farò del male”.
“ Da dove venite?” Io chiesi.
“ Vengo dal Cielo. Vengo per chiedervi di venire qui per sei mesi consecutivi, il giorno 13 alla stessa ora. In seguito vi dirò cosa io voglio. E ritornerò qui ancora una settima volta”.
“ E io andrò in Cielo?” “ Si ci andrai”.
“ E Giacinta? E Francesco?
“ Si, ci andranno, e Francesco prima dovrà recitare il suo Rosario”. La madonna poi chiese. “ Volete offrire a Dio tutte le sofferenze che Egli desidera mandarvi in riparazione dei peccati dai quali Egli è offeso, e per domandare la conversione dei peccatori?”
“ Si lo vogliamo”.
La Vergine Maria si manifestò ai tre pastorelli come la Madonna del Rosario, anche attraverso prodigi che ebbero centinaia di testimoni. A noi interessa ora conoscere più da vicino i tre pastorelli.
Parliamo del piccolo Francesco
"Ti benedico,o Padre, (...) perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" {Mt 11, 25).
In molte situazioni delle apparizioni a Francesco toccò l'ultimo posto: mentre le sue due compagne vedevano la Madonna e ne udivano la voce, lui dovette accontentarsi di vederla soltanto.
Ma è proprio questa circostanza, un poco umiliante specialmente nei confronti della sorella più giovane, che mette in luce la grandezza (vorremmo dire la superiorità) della virtù di Francesco. Mai si è lamentato per questa posposizione, ma con semplicità ha riconosciuto la cosa come normale. Ha accettato le parole della Vergine così come le compagne gliele hanno riferite, e sulla loro testimonianza le ha credute e le ha messe alla base della propria vita.
Di poche parole, Francesco ha nondimeno un grande influsso sull'atteggiamento delle due compagne, che lo vedono serio e riflessivo in tutto, sempre pronto a scegliere l'ultimo posto o le mansioni più umili.
Il suo carattere riservato gli fa preferire di pregare da solo: spesso lascia con una scusa le amiche e si ritira in qualche luogo solitario, oppure in Chiesa vicino a " Gesù nascosto ", ove rimane ore ed ore a " pensare ", come lui stesso si esprime per indicare la preghiera.
Ma a cosa " pensava " Francesco?
" Io penso a consolare Nostro Signore che è afflitto a causa di tanti peccati ".
Questa ansia di riparazione che si innestava su una natura così ben disposta alla compassione e al sacrificio, diverrà l'anima della vita spirituale di Francesco.
Un giorno del Novembre 1917 Lucia gli aveva domandato: " Cosa ti piace di più: consolare Nostro Signore o convertire i peccatori perché non vadano all'Inferno? "
" A scegliere - rispose Francesco - io preferisco consolare Nostro Signore. Non ti ricordi come era triste la Madonna il mese scorso quando chiese che non si offendesse più Nostro Signore che è già troppo offeso?"
All'inizio dell'anno 1918 Francesco cadde gravemente ammalato colpito dall'influenza detta "spagnola " che tante vittime fece nella intera Europa del dopo guerra. Presto l'influenza degenerò in polmonite e solo le cure di mamma Olimpia valsero a rimetterlo in piedi. Ma Francesco sapeva che ben presto la Madonna lo avrebbe portato in Cielo!
Alle buone persone che si rallegravano con lui per il miglioramento e che gli promettevano di pregare per la sua guarigione, rispondeva invariabilmente con un fare sereno ma che impressionava fortemente: "E'inutile che preghiate per questo. Io non otterrò mai la grazia della guarigione ".
Alla fine di Febbraio fece una ricaduta e incominciò ad essere afflitto da un terribile mal di testa. Giacinta e Lucia erano sempre al suo capezzale.
Durante questa malattia Francesco portava ancora la corda ai fianchi. Un giorno la consegnò a Lucia dicendole: "Prendila prima che la mamma la veda: ora non posso più portarla".
Verso i primi di Aprile la sua salute peggiorò: volle confessarsi e ricevere la Comunione. Avendo chiesto a Lucia e a Giacinta di dirgli se l'avevano visto commettere qualche peccato, e avendo avuto per risposta che qualche volta aveva disubbidito, aveva preso qualche spicciolo al papa, aveva litigato con i compagni... Francesco esclamò: "Questi peccati li ho già confessati, ma li confesserò ancora. Chissà se per questi peccati sono stato io la causa per cui il Signore è così triste...".
Il 2 Aprile il Parroco venne a confessarlo ed il giorno dopo, il 3 Aprile, Francesco poté fare la sua prima ed ultima Comunione.
Il colloquio con "Gesù nascosto" (questa volta nascosto dentro di lui) durò parecchio tempo. Improvvisamente chiese:
"Mamma, potrò ricevere Nostro Signore nuovamente?" La mamma fece cenno di sì.
Chiese allora a Lucia di recitare il Rosario ad alta voce perché lui non poteva più parlare. Ma durante il Rosario Giacinta, sapendo che Francesco stava per lasciarla, vinta dall'emozione scoppiò a dire: "Quando sarai in cielo fa tanti complimenti per me a Nostro Signore e alla Santa Vergine. Di' loro che io soffrirò tutto quello che essi vorranno per i peccatori e per fare riparazione al Cuore Immacolato di Maria...".
A notte inoltrata mamma Olimpia invitò tutti ad uscire per lasciar riposare il piccolo malato. Lucia disse: "Francesco, questa notte tu vai in Paradiso; non dimenticarci."
"Non vi dimenticherò".
"Allora, arrivederci in Cielo...".
Il giorno seguente lo passò pregando e chiedendo perdono a tutti. Verso le 10 di sera, improvvisamente disse alla mamma:
" Mamma, guarda che bella luce, là, vicino alla porta... ".
E dopo un momento: "Ora non la vedo più".
Dopo queste parole il suo viso si illuminò di un sorriso meraviglioso e, senza soffrire, il piccolo pastorello di Aljustrel andò a contemplare in Cielo quel "Gesù nascosto" che aveva tanto amato sulla terra.

Giacinta: "salvare dall'inferno i poveri peccatori"
"Ti benedico,o Padre, (...) perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" {Mt 11, 25).
Nelle sue apparizioni, la Madonna apriva sempre le sue mani e riversava sopra i pastorelli una luce così intensa che penetrava " nei più reconditi recessi del nostro cuore, facendoci rispecchiare in Dio molto più chiaramente che se fossimo rispecchiati in uno specchio”.
Durante l'apparizione solo Lucia aveva conversato con la "Signora"; Giacinta aveva sì udite le parole, ma non aveva parlato; Francesco non aveva neppure udito quello che la Signora diceva: tutti e tre però l'avevano vista, straordinariamente bella.
La loro meraviglia e la loro gioia era al colmo. Giacinta, come fuori di sé, batteva le mani esclamando: "Che bella Signora! Che bella Signora! Era la Santa Vergine!"
Una delle varie apparizioni della Madonna, l'apparizione del 1° Luglio, fu certamente quella che più si impresse nell'animo della piccola Giacinta. Le parole della Madonna "sacrificatevi per i peccatori" e la visione dell'Inferno nel quale essi cadono, polarizzarono tutti i suoi sentimenti e le sue aspirazioni. La ragazzina spensierata, giocherellona ed anche un po' scontrosa divenne da quel giorno riflessiva ed impegnata.
Dopo le apparizioni ella recitava il Rosario lentamente, con grande attenzione, riuscendo ad ottenere, con quel garbo grazioso che la rendeva irresistibile, che tutte le sere fosse recitato anche in casa sua:
“ Mammina bella, io ho già detto il mio Rosario, ma voi no... "
Ma oltre che alla preghiera Giacinta si convertì alla mortificazione: " Sacrificatevi per i peccatori " aveva chiesto la Madonna.
Da quel giorno ogni occasione fu buona per far sacrifici, come per esempio l'offerta della propria merenda ed anche del proprio pasto ad alcuni fanciulli poveri.
Temendo per la salute della cuginetta. Lucia le diceva:
" Giacinta, mangia ".
" No ", rispondeva; " voglio fare questo sacrificio per i peccatori che mangiano troppo! ".
La visione dell'Inferno l'aveva terrorizzata: non per se, che .sapeva sarebbe andata in Paradiso, ma per i peccatori. Alle volte esclamava: " Ma perché la Madonna non mostra l'Inferno ai peccatori?... Se essi lo vedessero non farebbero più peccati e non vi cadrebbero!".
Già durante la malattia di Francesco, Giacinta era stata colpita dalla febbre spagnola.Ella tuttavia non fece pesare la propria infermità sui suoi cari, cercando invece di far convergere tutte le attenzioni sul fratellino più grave di lei.
Un giorno Giacinta mandò a chiamare Lucia e le disse: " Mentre ero da Francesco nella sua camera, la Santa Vergine è venuta a trovarci. Ella ha detto che verrà presto a prendere Francesco per portarlo in Cielo…Ella m' ha detto che io andrò in un Ospedale e che soffrirò
molto, ma che devo sopportare tutto per la conversione dei peccatori ".
Un giorno Giacinta disse a Lucia che la Madonna era venuta a visitarla nella sua stanzetta: "
Ella m' ha annunciato che io andrò a Lisbona in un altro Ospedale, che non rivedrò più ne te ne i miei genitori, e che dopo aver molto sofferto morrò sola. M' ha detto di non aver paura perché Ella stessa verrà a prendermi per il Cielo ".

Nell'orfanotrofio di Nostra Signora dei Miracoli, a Lisbona, Giacinta passò gli ultimi tempi della sua vita terrena, in compagnia della Madre Generale Maria Godinho, alla quale confessò diversi pensieri che la Madonna le aveva detto. Ripeteva spesso: "Se gli uomini sapessero che cos'è l'eternità, come farebbero di tutto per cambiar vita!"
Il venerdì 20 febbraio, sapendo che quello sarebbe stato il giorno della sua morte, chiese i sacramenti. Il Parroco della Chiesa dei Santi Angeli venne a confessarla ma, vedendola in apparente buona salute, non ritenne opportuno darle subito la Comunione nonostante le insistenze della piccola; e se ne andò promettendole di tornare l'indomani mattina per portarle l'Eucaristia. Ma la sera stessa, verso le 22,30, spirò.
Si avverava così la predizione ricevuta dalla Madonna sugli ultimi giorni di Giacinta. Ora è sepolta all'interno della Basilica di Fatima.
Lucia :"diffondere nel mondo la devozione al Cuore Immacolato di Maria"
Dopo il 1920 dei tre pastorelli che videro la Madonna, solo Lucia era rimasta su questa terra. Sennonché nel 1925 la Madonna le apparve nuovamente con a fianco Gesù bambino.
La Vergine posò la Sua mano sulle spalle di Lucia, mentre con l'altra mano sosteneva un cuore circondato da acute spine. Nello stesso tempo il Bambino Gesù parlò:
" Abbiate compassione del Cuore della Vostra Santa Madre, coperto di spine con cui uomini ingrati lo trafiggono ad ogni momento e non c'è nessuno che li scuota con un atto di riparazione".
Quindi la S. Vergine disse a Lucia:
" Figlia mia, guarda il mio Cuore sormontato da spine, con cui uomini ingrati lo trafiggono ad ogni momento con le loro bestemmie e la loro ingratitudine. Tu almeno cerca di consolarmi e dì che io prometto di assistere nell'ora della morte con tutte le grazie necessarie per la loro salvezza tutti coloro che il primo sabato per cinque mesi consecutivi si confessano e ricevono la S. Comunione recitando 5 decine di Rosario e mi fanno compagnia per un quarto d'ora meditando i misteri del Rosario in riparazione”.
Questa visione fu decisiva per il suo avvenire:
l'anno dopo (aveva allora 19 anni) entrò nel Noviziato delle Suore Dorotee a Tuy ove emise i voti religiosi col nome di Suor Maria dell'Addolorata. Nel 1948, desiderando offrire a Dio una vita più austera e più raccolta, entrò fra le Carmelitane Scalze di Coimbra ove prese il nome di Suor Maria del Cuore Immacolato in omaggio alla missione cui si sentiva chiamata a diffondere nel mondo la devozione al Cuore Immacolato di Maria, specialmente attraverso la pratica dei primi cinque Sabati del mese.
A noi pare che l'umanità di oggi, sempre più disattenta ai problemi eterni e lesa tutta a crearsi un utopico paradiso terrestre, non abbia ascoltato il richiamo di Fatima.
Ma proprio per questo, prima che sia troppo tardi, esso ci deve scuotere dal torpore e avviarci nuovamente a quella vita di fede in Dio, dì preghiera, di carità e di sacrificio che Gesù e Maria ci hanno insegnato come l'unica via che conduce alla salvezza.






La Sacra Sindone
Questo lenzuolo di lino su cui è impressa la figura di un uomo torturato, ferito, crocefisso è da sempre oggetto di controversie, dibattiti, verifiche e prove scientifiche. Dal 1898, anno in cui la Sindone fu fotografata per la prima volta scoprendo che l’immagine di quell’uomo era un negativo e non un positivo si sollevarono numerose questioni in seno alla comunità scientifica facendo riacutizzare il dibattito, che ancora oggi non accenna a concludersi, sulla sua autenticità. La prova più attesa fu certamente quella del carbonio 14 avvenuta nel 1988 che farebbe risalire il lenzuolo a un periodo compreso tra il 1260-1390. Tuttavia diversi sindonologi, coloro i quali si schierano per l’autenticità della reliquia, ne hanno contestata l’attendibilità. Secondo questi ultimi è possibile che tale datazione sia dovuta al prelievo dei campioni analizzati da parti rammendate dopo l'incendio che colpì il lino nel 1532 a Chambéry. Chambéry non è stato l’unico incendio cui la sacra sindone è scampata nel corso degli anni. Un altro minacciò il lenzuolo nel 1997, nella notte tra l’11 e il 12 Aprile devastando la Cappella del Guarini nel Duomo, dove essa è conservata sin dal 1578 anno in cui il duca Emanuele Filiberto trasferendo la capitale del ducato a Torino vi portò anche la sindone. La sua storia è controversa, fatta di opinioni discordanti sulle date e sui luoghi, di prove tecniche e scientifiche per dimostrarne o confutarne l’autenticità. Nel corso degli anni sono stati tanti gli studiosi che hanno avanzato numerose teorie e altrettanti sono stati quelli che hanno cercato di demolirle. Come spesso accade in situazioni del genere il mondo scientifico si divide e allo stesso modo quello dei fedeli. In effetti, la Chiesa Cattolica non si è espressa sull’autenticità della Sindone lasciando alla scienza la facoltà di verificarla. Tuttavia ha autorizzato ai fedeli il culto come reliquia o icona, ossia raffigurazione artistica, della Passione di Gesù. Fu Papa Giulio II nel 1506 ad autorizzarne il culto. Giovanni Paolo II ha asserito durante il suo pontificato di credere all’autenticità della sindone, cosa che aveva fatto in precedenza anche Pio XI. Secondo la linea autenticista il lenzuolo, conservato oggi nel Duomo di Torino, è quello che ha avvolto Gesù nel sepolcro dopo la deposizione dalla croce e l’immagine in esso impressa è proprio quella del Cristo Salvatore. Il lenzuolo risalirebbe, sempre secondo questa linea, al I secolo e proverrebbe dalla Palestina. Ne sarebbe prova il ritrovamento nelle fibre del lino di pollini di diverse specie vegetali originari della Palestina stessa e dell’Asia Minore. Ovviamente anche questa tesi è stata al centro di dibattiti; alcuni hanno avanzato l’ipotesi di una manomissione dei campioni su cui furono fatti i test. È solo dal 1353 che gli studiosi attestano storicamente la presenza della Sindone. Questo è l’anno in cui a Lirey, in Francia, il cavaliere Goffredo di Charny annunciò di essere in possesso del telo che aveva avvolto il corpo di Cristo nel sepolcro. Margherita di Charny, discendente di Goffredo, vendette nel 1453 il telo ai duchi di Savoia che lo portarono a Chambéry, a quel tempo capitale del ducato. Sulla storia precedente del sacro lino non vi è accordo giacché non si può scientificamente e storicamente accertarla. Certo è che per chi crede, per chi ha fede quella figura d’uomo è quella di Cristo e la sindone è il lenzuolo in cui il corpo del messia fu avvolto per essere posto nel sepolcro dopo la crocefissione. Su di esso sono tracciati i segni della sofferenza del figlio di Dio. Quell’immagine rassomigliante alla raffigurazione tradizionale del Cristo, un uomo adulto con la barba e i capelli lunghi, vale per i credenti molto di più delle numerose prove scientifiche. Credere è un atto di fede e la fede che risiede nell’uomo non necessita di prove documentate. Non è importante dimostrare l’autenticità oppure confutarla; quell’oggetto, quel lenzuolo ha la capacità di mobilitare milioni di persone che si spostano solo per contemplarlo, ha la capacità di far commuovere e impietosire davanti all’immagine impressa di un uomo morto in sofferenza. La sua veridicità sta nella fede di chi crede e ulteriori prove non ne scalfirebbero né aumenterebbero la credibilità. Testimonianza ne è il grande afflusso di pellegrini che si sono riversati nel capoluogo piemontese negli anni delle pubbliche ostensioni avvenute nel 1978, nel 1998 e nel 2000, quest’ultima voluta da Papa Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo. Solo nelle due ultime ostensioni più di tre milioni e mezzo di persone (due e mezzo nel ’98 e oltre un milione nel 2000) si sono riversati nella vecchia capitale sabauda. Per la prossima, che avrà luogo quest’anno tra il 10 Aprile e il 23 maggio, il Comitato organizzativo di cui fanno parte il Comune e la Provincia di Torino, la Regione Piemonte e l’Arcidiocesi di Torino, ha previsto l’arrivo di oltre due milioni di pellegrini. Il Comune e la Provincia hanno stanziato 1.750.000 euro per un evento che per la sua importanza spirituale attirerà un gran numero di fedeli da tutto il mondo.



La Storia della Madonna del Tindari
Circa l'origine del culto alla Madonna del Tindari, rimontando esso a tempi molto remoti, non si trovano notizie storiche ben definite e criticamente accertate. Esiste però una pia tradizione che non contenendo, almeno sotto l'aspetto dell'ortodossia, alcunché d'inverosimile e di contraddittorio, possiamo accettare senz'altro, tanto più che si presenta su sfondo storico.
L'origine della devozione alla Madonna Bruna sembra infatti risalire al periodo della persecuzione iconoclasta.



Secondo la tradizione, una nave di ritorno dall'Oriente, tra le altre cose, portava nascosta nella stiva un'Immagine della Madonna perché fosse sottratta alla persecuzione iconoclasta. Mentre la nave solcava le acque del Tirreno, improvvisamente si levò una tempesta e perciò essa fu costretta ad interrompere il viaggio ed a rifugiarsi nella baia del Tindari, oggi Marinello.
Quando si calmò la tempesta, i marinai decisero di riprendere il viaggio: levarono l'ancora, inalberarono le vele, cominciarono a remare, ma non riuscirono a spostare la nave. Tentarono, ritentarono, ma essa restava ferma lì, come se fosse incagliata nel porto.
Essi allora pensarono di alleggerire il carico, ma , solo quando, tra le altre cose, scaricarono la cassa contenente il venerato Simulacro della Vergine, la nave poté muoversi e riprendere la rotta sulle onde placide del mare rabbonito.
Sono sconosciuti i luoghi di provenienza e di destinazione dell'Immagine sacra. Partita la nave che aveva lasciato il carico, i marinai della baia di Tindari si diedero subito da fare per tirare in secco la cassa galleggiante sulla distesa del mare. Fu aperta la cassa e, con grande stupore e soddisfazione di tutti, in essa fu trovata la preziosa Immagine della Vergine.
Sorse il problema ove collocare quell'Immagine. Si decise di trasportare il Simulacro della Vergine nel luogo più alto, il più bello, al Tindari, dove già da tempo esisteva una fiorente comunità cristiana.
La tradizione che fa arrivare la statua della Madonna a Tindari all'epoca degli iconoclasti, probabilmente verso la fine del secolo VIII o nei primi decenni del secolo IX, trova motivo di credibilità nel fatto che Tindari fu sotto la dominazione dei Bizantini per circa tre secoli (535-836); che la Sicilia si oppose con energia all'eresia degli iconoclasti; che a Tindari, essendo stata sede di diocesi per circa cinque secoli, fosse fiorente la professione della fede cristiana, e quindi facile l'accoglienza della sacra immagine.
Detta ipotesi, oltre che nel contesto storico, trova ancora una qualche consistenza in un'ininterrotta tradizione pressoché unanime.
Il colle del Tindari, così suggestivo, santificato dalla presenza della Madonna, divenne così il sacro, mistico colle di Maria.
S'ignora l'autore dell'Immagine, né è possibile definire l'epoca in cui fu scolpita. Considerando lo stile e tenendo conto che la Madonna tiene tra le braccia il divin Bambino, si potrebbe concludere che essa rimonti ad un'epoca posteriore al Concilio di Efeso in cui fu definita la divina maternità di Maria; quindi probabilmente la statua è stata scolpita in Oriente tra il quinto e il sesto secolo.
La Madonna è rappresentata seduta, mentre regge in grembo il Figlio divino, che tiene la destra sollevata, benedicente. Ella inoltre porta in capo una corona di tipo orientale, una specie di turbante, ricavato nello stesso legno, decorato con leggeri arabeschi dorati.
Migliaia e migliaia di fedeli sono passati dinanzi alla Vergine pietosa, che per tutti ha avuto un sorriso ed una grazia.




La Storia di Padre Pio da Pietralcina

Padre Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, nasce il 25 maggio del 1887 nel piccolo centro che sorge a pochi chilometri di distanza dal capoluogo del Sannio da Grazio e Maria Giuseppa De Nunzio. E' una modesta famiglia di contadini, ed il piccolo Francesco attende al lavoro dei campi nel podere di Piana Romana percorrendo quotidianamente quella che oggi viene chiamata "Via del Rosario".
Viene battezzato all'alba del giorno dopo nella chiesa di Sant'Anna dal parroco Don Nicolantonio Orlando. Sin dalla tenera età Francesco matura la vocazione e decide di entrare in convento seguendo l'esempio di Fra Camillo, un questuante che dal convento di Morcone - altro centro del beneventano - scendeva spesso a Pietrelcina.
E' lo stesso Fra Camillo ad accogliere il 6 gennaio 1903 il giovane Francesco nel convento di Morcone dove il futuro frate con le stimmate inizia il periodo del noviziato. Qui il 22 dello stesso mese indossa i "panni di pronazione", cioè l'abito religioso del noviziato, prendendo il nome di Fra Pio da Pietrelcina. Il noviziato dura quattro anni, ed il 27 gennaio del 1907 Padre Pio pronuncia i voti nel convento di Sant'Elia a Pianisi. Viene poi ordinato sacerdote nel Duomo di Benevento il 10 agosto 1910 da Mons. Paolo Schifosi, per poi celebrare la prima Messa il 14 agosto dello stesso anno a Pietrelcina. Dal maggio del 1909, infatti, inizia per il frate un lungo periodo di convalescenza nel paese natale. I suoi superiori sperano che in questo modo il frate, la cui salute appare già' cagionevole, possa riprendersi. Questa convalescenza durerà fino al mese di febbraio dell'anno 1916.
Ed è proprio durante la permanenza a Pietrelcina - presumibilmente tra il 1910 e il 1911 - che il frate, raccolto in preghiera presso il podere di Piana Romana, riceve le prime stimmate. Sì tratta dei segni della crocifissione definiti "invisibili", che si manifestano cioè solo con forti dolori. La manifestazione della passione di Cristo, seppur ancora non tangibile, turba profondamente Padre Pio che confida tutto al proprio direttore spirituale in una lettera dell'8 settembre del 1911. Concluso il periodo di convalescenza trascorso nel paese natale, Padre Pio fa ritorno al convento di Foggia nel febbraio del 1916. Passa qualche mese ed il 4 settembre dello stesso anno il frate viene trasferito al convento di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Rotondo. Doveva essere un trasferimento provvisorio, ma nessuno riuscì ad allontanare il frate dal piccolo centro del Gargano.
Il 5 agosto del 1918 nel confessionale Padre Pio riceve la grazia della "trasverberazione", fenomeno conosciuto anche come "assalto del Serafino". In una lettera del 21 agosto il frate racconta: "Me ne stavo confessando i nostri ragazzi quando tutto di un tratto fui riempito di un estremo terrore alla vista di un personaggio celeste...Teneva in mano una specie di arnese, simile ad una lunghissima lamina di ferro con una punta bene affilata...Vedere tutto questo ed osservare detto personaggio scagliare con tutta la violenza il suddetto arnese nell'anima, fu tutto una cosa sola...Da quel giorno in qua io sono stato ferito a morte. Sento nel più intimo dell'anima una ferita...".
Passa poco più di un mese ed il 20 settembre del 1918 Padre Pio riceve le stimmate mentre si trovava raccolto in preghiera nel coro della chiesa. Racconta ancora il frate in una lettera: "Era la mattina del 20 dello scorso mese in coro, dopo la celebrazione della messa, allorché venni sorpreso dal riposo, simile a un dolce sonno. Tutti i sensi interni ed esterni, non che le stesse facoltà dell'anima si trovarono in una quiete indescrivibile. In tutto questo vi fu un totale silenzio intorno a me e dentro di me; vi subentrò subito una gran pace ed abbandono alla completa privazione del tutto e una posa nella stessa rovina. Tutto questo avvenne in un baleno. E mentre tutto questo si andava operando, mi vidi dinanzi un misterioso personaggio, simile a quello visto la sera del 5 agosto, che differenziava in questo solamente che aveva le mani ed i piedi ed il costato che grondava sangue. La sua vista mi atterrisce: ciò che sentivo in quell'istante in me non saprei dirvelo. Mi sentivo morire e sarei morto se il Signore non fosse intervenuto a sostenere il cuore, il quale me lo sentivo sbalzare dal petto. La vista del personaggio si ritira e io mi vidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue. Immaginate lo strazio che sperimentai allora e che vado esperimentando continuamente quasi tutti i giorni. La ferita del cuore gitta assiduamente del sangue, specie dal giovedì sera sino al sabato".
La presenza del frate con le stimmate nel convento di San Giovanni Rotondo attira nel Gargano sempre più fedeli e curiosi. Così il 2 giugno 1922 il Santo Uffizio adotta dei provvedimenti restrittivi che limitano i ministeri sacerdotali di Padre Pio. Il 9 giugno arriverà anche una sospensione: Padre Pio potrà' celebrare solo la Santa Messa, ma in privato.
Questo provvedimento durerà fino al 16 luglio 1933, quando Padre Pio celebrerà nuovamente la Messa in pubblico a distanza di due anni. A marzo del 1934 il frate riprende anche a confessare i fedeli. Padre Pio matura nel frattempo la decisione di dare il via ad un grandioso progetto: la realizzazione con le offerte dei fedeli di un importante e innovativo centro ospedaliero proprio a San Giovanni Rotondo. Il 16 maggio 1947 viene posata la prima pietra della "Casa sollievo della sofferenza" verrà inaugurato il 5 maggio 1956.
Passano tre anni e Padre Pio versa in gravi condizioni di salute. E' il 6 agosto del 1959 quando il frate guarisce mentre la statua della Madonna di Fatima, in visita a S. Giovanni Rotondo, sorvola il convento a bordo di un elicottero.
Il 22 settembre 1968, alle cinque del mattino, Padre Pio celebra per l'ultima volta la Santa Messa.
Alle 2,30 della notte tra il 22 ed il 23 settembre il frate esala l'ultimo respiro nella sua cella.



La Storia Papa Giovanni Paolo II
Karol Józef Wojtyła nasce il 18 maggio 1920 a Wadowice, cittadina a 50 Km da Cracovia. È il secondo dei due figli di Karol, militare di carriera, e Emila Kaczorowka che morirà quando Karol Józef ha soltanto nove anni. Riceve la Prima Comunione a 9 anni e a 18 anni il sacramento della Cresima. Nel 1938 dopo aver terminato gli studi liceali si trasferisce con il padre a Cracovia dove si iscrive alla Facoltà di Filosofia dell’università Jagiellonica. Nel 1939 le forze naziste chiudono l’università, e il giovane Karol, per evitare la deportazione lavora come operaio nelle cave di Cracovia fino al 1942 quando viene trasferito nella fabbrica chimica della Solvay.

Nel febbraio del 1941 muore il padre, e nel 1942 comincia a frequentare clandestinamente i corsi della Facoltà di Teologia dell’Università Jagiellonica, come seminarista. Nel 1943 recita per la prima volta come protagonista nel "Samuel Zborowski" di Juliusz Slowacki, questa sarà la sua ultima comparsa sul palcoscenico. Nel 1944 l’arcivescovo Sapieha lo trasfersce, insieme ad altri seminaristi clandestini, nel Palazzo dell’Arcivescodado, dove rimane fino alla fine della guerra, continuando gli studi ed abbandonando definitivamente il lavoro in fabbrica.

Il primo novembre del 1946 è ordinato sacerdote, e dopo pochi giorni parte alla volta di Roma per proseguire i suoi studi. Nella capitale italiana risiede in via Pettinari, presso i Pallottini. Nel 1948 discute la tesi di laurea: "Doctrina de fide apud S. Joannem de Cruce". E nel 1949 rientra in Polonia, dove diventa viceparroco della parrocchia di Niegowiæ presso Gdów.

Iniziano gli anni dell’insegnamento, nell’ateneo polacco dove è docente di etica sociale e cattolica alla facoltà di Teologia, per poi passare, quando la facoltà sarà chiusa, ad insegnare presso il seminario di Cracovia e all’Università cattolica di Lublino. Saranno stati gli anni di insegnamento, la vita a stretto contatto con i suoi studenti ad infondere in quest’uomo, quello che negli anni è stato un simbolo, una caratteristica del suo pontificato: l’amore per i giovani, quel legame speciale che tutti hanno vissuto durante il Giubileo del 2000. Un amore ricambiato che nel pontefice, in quest’uomo a volte apparentemente troppo anziano e troppo fragile, ha infuso nuova vita.

Tra il 1962 e il 1964 partecipa a quattro sessioni del Concilio Vaticano II. Il 28 giugno del 1967 è creato cardinale da Papa Paolo VI, che morirà il 6 agosto del 1978. Karol Wojtila partecipa alle esequie del Papa e anche al conclave che il 26 agosto elegge il nuovo Ponteficie, Albino Lucani, Giovanni Paolo I, che scomparirà improvvisamente il 14 ottobre, data in cui ha inizio un nuovo conclave che elegge, il 16 ottobre 1978, il cardinale Karol Wojtyla, Papa, con il nome di Giovanni Paolo II. Il 263° successore di San Pietro, il primo Papa non italiano dal 1500.

E’ l’inizio di quello che sarà un pontificato unico, il pontificato dei grandi numeri, dei grandi viaggi, dei grandi incontri. Già all’alba del suo discorso inaugurale, pochi minuti dopo le 19 di quel lunedì del 1978, il nuovo Papa non si limita alla lettura della benedizione in latino della folla, ma con un italiano stentato improvvisa un breve discorso. Sostiene di aver avuto paura ad accettare la nomina, paura di non sentirsi in grado di esprimersi in una lingua non sua, e chiude con una frase destinata a rimanere nella storia: "se mi sbaglio, mi correggerete" da piazza San Pietro, immediata e calda si leva un’ovazione, è l’inizio di quel filo che ha sempre legato Giovanni Paolo II alla gente, perché in fondo è il papa della gente.
Giovanni Paolo II muore il 2 aprile 2005 nella sua residenza vaticana, dopo due giorni di agonia.



La Storia di San Francesco D’Assisi

San Francesco d'Assisi nacque ad Assisi nel 1182 ca. e morì nel 1226. Giovanni Francesco Bernardone, figlio di un ricco mercante di stoffe, istruito in latino, in francese, e nella lingua e letteratura provenzale, condusse da giovane una vita spensierata e mondana; partecipò alla guerra tra Assisi e Perugia, e venne tenuto prigioniero per più di un anno, durante il quale patì per una grave malattia che lo avrebbe indotto a mutare radicalmente lo stile di vita: tornato ad Assisi nel 1205, Francesco si dedicò infatti a opere di carità tra i lebbrosi e cominciò a impegnarsi nel restauro di edifici di culto in rovina, dopo aver avuto una visione di san Damiano d'Assisi che gli ordinava di restaurare la chiesa a lui dedicata.
Il padre di Francesco, adirato per i mutamenti nella personalità del figlio e per le sue cospicue offerte, lo diseredò; Francesco si spogliò allora dei suoi ricchi abiti dinanzi al vescovo di Assisi, eletto da Francesco arbitro della loro controversia. Dedicò i tre anni seguenti alla cura dei poveri e dei lebbrosi nei boschi del monte Subasio. Nella cappella di Santa Maria degli Angeli, nel 1208, un giorno, durante la Messa, ricevette l'invito a uscire nel mondo e, secondo il testo del Vangelo di Matteo (10:5-14), a privarsi di tutto per fare del bene ovunque.
Tornato ad Assisi l'anno stesso, Francesco iniziò la sua predicazione, raggruppando intorno a sé dodici seguaci che divennero i primi confratelli del suo ordine (poi denominato primo ordine) ed elessero Francesco loro superiore, scegliendo la loro prima sede nella chiesetta della Porziuncola. Nel 1210 l'ordine venne riconosciuto da papa Innocenzo III; nel 1212 anche Chiara d'Assisi prese l'abito monastico, istituendo il secondo ordine francescano, detto delle clarisse. Intorno al 1212, dopo aver predicato in varie regioni italiane, Francesco partì per la Terra Santa, ma un naufragio lo costrinse a tornare, e altri problemi gli impedirono di diffondere la sua opera missionaria in Spagna, dove intendeva fare proseliti tra i mori.
Nel 1219 si recò in Egitto, dove predicò davanti al sultano, senza però riuscire a convertirlo, poi si recò in Terra Santa, rimanendovi fino al 1220; al suo ritorno, trovò dissenso tra i frati e si dimise dall'incarico di superiore, dedicandosi a quello che sarebbe stato il terzo ordine dei francescani, i terziari. Ritiratosi sul monte della Verna nel settembre 1224, dopo 40 giorni di digiuno e sofferenza affrontati con gioia, ricevette le stigmate, i segni della crocifissione, sul cui aspetto, tuttavia, le fonti non concordano.
Francesco venne portato ad Assisi, dove rimase per anni segnato dalla sofferenza fisica e da una cecità quasi totale, che non indebolì tuttavia quell'amore per Dio e per la creazione espresso nel Cantico di frate Sole, probabilmente composto ad Assisi nel 1225; in esso il Sole e la natura sono lodati come fratelli e sorelle, ed è contenuto l'episodio in cui il santo predica agli uccelli. Francesco, che è patrono d'Italia, venne canonizzato nel 1228 da papa Gregorio IX. Viene sovente rappresentato nell'iconografia tradizionale nell'atto di predicare agli animali o con le stigmate




La vita di San Sebastiano
il cui nome deriva dal greco significa“venerabile”, appellativo che gli stessi greci avevano dato all’imperatore Augusto per significare un senso di grandezza e di rispetto. Nacque a Narbona, città della Francia meridionale, verso la seconda metà del ‘200 d.C., da illustre famiglia. Rimasto orfano del padre ancora fanciullo, fu condotto dalla madre a Milano dove trascorse i primi anni dell’infanzia e dell’adolescenza. La madre educò questo suo unico figlio alla scuola della generosità e del coraggio, preparandolo al grande ed ultimo sacrificio: l’imitazione di Gesù Crocifisso. Giovane, dall’animo forte, dal carattere energico, rispose alla voce della grazia che ne fece un difensore della Chiesa, pieno di entusiasmo corse là dove c’era più bisogno di lui. Parte per Roma, ove la persecuzione contro i cristiani era diventata violenta e feroce. Questa fu la causa determinante del viaggio di San Sebastiano verso la capitale, per assistere i cristiani, proteggerli e soprattutto impedire le abiure. Sebastiano temeva che i cristiani, atterriti dai tormenti e dalle persecuzioni, per sfuggire alla morte, rinnegassero quel Cristo e quella fede che con tanto slancio avevano abbracciata. Ma prima di toccare la tappa gloriosa e finale del suo mortale cammino, Sebastiano per un tempo abbastanza lungo guidò la conquista missionaria dei cristiani e si arruolò nell’esercito imperiale per poter esercitare più facilmente, sotto l’emblema della milizia, il suo fecondo apostolato di fede. Per la sua cultura, per la sua gentilezza d’animo, per la sua bontà, Sebastiano seppur ancora giovane raggiunse i massimi gradi della gerarchia militare, permettendogli di occupare il posto di comandante della Prima Corte della Guardia Pretoriana, sotto l’impero di Diocleziano e Massimiano che lo stimarono, lo amarono senza nutrire alcun sospetto sulla sua appartenenza alla fede cristiana. Nell’anno 287 d.C. la persecuzione di Diocleziano infierì sempre più contro la Chiesa, che fu costretta a ritirarsi nel silenzio delle catacombe, mentre i suoi figli innocenti venivano portati nell’Arena del Colosseo per essere lacerati dalle fiere o per essere arsi vivi. Durante questo eccidio, indegno di un popolo civile, Sebastiano non riuscì a tacere e a nascondere la sua fede in Cristo Signore e cominciò ad operare. Un vile cortigiano, Torquato, accusò e denunziò Sebastiano come cristiano all’imperatore Diocleziano. L’imperatore non trenette a quelle parole e chiamò Sebastiano per testimoniare. Sebastiano nemico dell’ipocrisia, da vero soldato di Gesù Cristo, confessò la sua fede. Per questa nobile e franca dichiarazione, Diocleziano inveisce, lo accusa di tradimento e di ingratitudine: Sebastiano, quindi, malgrado le sue virtù morali e civili, solo perché cristiano, venne condannato a morte. Condotto nel boschetto sacro ad Adone, sul Palatino e legato ad un tronco d’albero, Sebastiano diviene bersaglio di frecce. L’iconografia cristiana, la letteratura, e la tradizione popolare di ogni tempo rappresentano San Sebastiano giovanissimo e trafitto da poche frecce: nelle braccia, nel petto, alle gambe come se gli esecutori, i suoi stessi soldati che lo amavano, avessero tentato di risparmiarlo, mentre gli “Atti” della sua passione confermano che fu trafitto da tanti dardi da poter essere paragonato ad un riccio. Abbandonato sul campo, perché considerato morto, fu ritrovato notte tempo dai compagni di fede. Era notte avanzata quando la pietosa Irene giunse al luogo del martirio per portare via il corpo e dargli onorata sepoltura nelle catacombe: ma quale non fu il suo stupore nel constatare che il martire non era morto. !!! Lo fece quindi portare da alcuni servi nel palazzo imperiale dove ella abitava e qui aiutata dal prete Policarpo, curò le terribili ferite così che Sebastiano in pochissimo tempo tornò a rifiorire. Tuttavia, Sebastiano aveva ormai votato la propria vita a Dio e così un giorno presentatosi a Diocleziano gli gridò: “Diocleziano, sono un uomo uscito dalla tomba per avvertirti che si avvicina il tempo della vendetta ! Tu hai bagnato questa città col sangue dei servi di Dio e la sua collera poserà grave su di te: morrai di morte violenta e Dio darà alla sua Chiesa un imperatore secondo il suo cuore. Pentiti mentre è tempo e domanda perdono a Dio.” Un profondo silenzio, rotto soltanto dalla proclamazione della condanna a morte, seguì queste parole. Come si usava solo per gli schiavi, Sebastiano fu fustigato e annegato
Era il 20 gennaio dell’anno 304 d.C.
Il suo corpo fu gettato nella cloaca che passa sotto la via dei Trionfi, presso l’arco di Costantino. Gli “Atti” narrano che il Santo apparve alla matrona romana Lucina, alla quale chiese di essere sepolto nel sacro recinto presso le spoglie degli apostoli Pietro e Paolo, dopo averle indicato il luogo dove il suo corpo era rimasto impigliato.Lucina ritrovò, con l’aiuto dei cristiani, il corpo di San Sebastiano e lo seppellì con tutti gli onori nel Cimitero ad Catacumbas, meta di venerazione in ogni tempo. Nel IV secolo fu costruita una basilica chiamata “Ecclesia Apostolorum” e tale titolo rimase fino al IX secolo, quando prevalse la denominazione di Basilica di San Sebastiano (sull’Appia Antica a Roma). Le sacre Reliquie sono conservate sull’altare della cripta. La fama di San Sebastiano si propagò rapidamente nell’antichità, nel medioevo, sino al XVI secolo anche come taumaturgo e protettore contro la peste. Papa Caio lo elesse Difensore della Chiesa; di molte corporazioni, come gli arcieri, è il protettore. La gioventù di Azione Cattolica lo ha prescelto come modello di vita. Attualmente è patrono dei Vigili Urbani d’Italia e compatrono di Roma. In questi tempi di dissacrazione e negazione dei valori spirituali e religiosi, umani e sociali, la figura di San Sebastiano è sempre più viva e attuale e la sua intercessione è implorata per aiutare i giovani disorientati e fuorviati, a salvarsi dal peccato.




Biografia di Bernadette Soubirous

I suoi genitori, François Soubirous (1807-1871) e Louise Castérot (1825-1866), gestirono il mulino di Boly, dove ella nacque, sino al 1854. Fu la maggiore di 6 figli.
La crisi che colpì la Francia agricola si abbatté anche sulla sua famiglia, che visse in estrema povertà. Bernadette conobbe la fame e la malattia. Di salute fragile causa l'asma, dimostrava meno anni di quelli che aveva. I suoi sentimenti religiosi erano già forti sebbene ella non conoscesse per nulla il Catechismo. («[...]se la Santa Vergine mi ha scelto, è perché sono la più ignorante!» dirà più tardi.)

Per contribuire al mantenimento della famiglia Bernadette fu affidata ad una famiglia di amici presso Bartrès, impiegata nella sorveglianza e pascolo delle greggi e come cameriera presso la loro taverna.

I Soubirous si trasferirono in una malsana cella dell'antica prigione de la rue Haute, denominata Le Cachot. Nel 1857, nell'anno che precedette le apparizioni, il padre Francois Soubirous, fu accusato di furto.

L'11 febbraio 1858, appena quattordicenne, mentre assieme ad una sorella e ad alcune amiche raccoglieva legna da ardere in un boschetto vicino alla grotta di Massabielle (poco fuori Lourdes), ebbe la prima visione della Beata Vergine Maria. Le giovani che erano in sua compagnia dissero di non aver visto nulla. Questa visione e le successive diciassette analoghe che la giovane ebbe sono state accettate come eventi miracolosi dalla chiesa cattolica.

L'identità dell'apparizione - nelle parole di Bernadetta - rimase sconosciuta fino alla diciassettesima visione; fino ad allora la giovane di Lourdes si limitò a chiamarla semplicemente Acquero (nel dialetto locale, Ella).

Bernadetta fu canonizzata santa dalla chiesa cattolica nel 1933. Viene ricordata il 16 aprile.

La figura di Bernadette di Lourdes - come è principalmente conosciuta e ricordata - è stata rievocata tanto dal cinema quanto dalla televisione

2 commenti:

  1. Cronaca.

    La visita di Benedetto XVI in Sinagoga
    "Mete comuni nonostante i contrasti"

    Il Papa tra gli applausi al suo ingresso, poi il minuto di silenzio per i morti di Haiti. Il presidente della Comunità Ebraica di Roma: "Il silenzio di Pio XII ancora brucia". Commosso Ratzinger: la Chiesa ha chiesto perdono.

    Roma - Benedetto XVI è entrato nella Sinagoga di Roma, mentre il coro intonava un salmo. Procedendo verso la tribuna, il Pontefice ha salutato il sottosegretario Gianni Letta e il presidente del Senato Renato Schifani. Su invito del presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, "il momento di festa e di incontro" è iniziato con un minuto di silenzio per le vittime del terremoto di Haiti. Approfittando della diretta televisiva, Pacifici ha lanciato all'intero Paese "un appello alla solidarietà".

    L'abbraccio con Toaff - È stato particolarmente commovente l'abbraccio tra il Papa e il rabbino Elio Toaff, davanti alla lapide che ricorda l'attentato del 1982. Toaff era rabbino capo a quel tempo e ha raccontato a Ratzinger la terribile esperienza vissuta. Durante il percorso a piedi per raggiungere la sinagoga di Roma, Benedetto XVI ha stretto le mani e scambiato poche parole con i sopravvissuti dell'attentato in cui morì il piccolo Stefano Tachè, un bambino ebreo di due anni, e rimasero ferite altre 37 persone che uscivano dal Tempio.


    Nel Tempio Fini, Montalcini e Letta - Sono tanti i volti noti della politica, dell'economia e della cultura italiana presenti nella Sinagoga di Roma per la visita di Papa Benedetto XVI: dal presidente della Camera, Gianfranco Fini al sottosegretario alla presidenza del consiglio, Gianni Letta, da Rita Levi Montalcini a Giuliano Ferrara. Sono entrati nel tempio, tra gli altri, anche il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, il presidente della provincia di Roma, Nicola Zingaretti, l'ad di Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il segretario generale del centro islamico d'Italia, Abdellah Redouane, l'Imam Pallavicini, il presidente della Uir, Aurelio Regina e Jocelyn.


    "Il silenzio di fronte alla Shoah duole come un atto mancato" - Nei rapporti tra ebrei e cattolici, "il peso della storia si fa si sentire con ferite ancora aperte che non possiamo ignorare. Per questo guardiamo con rispetto anche coloro che hanno deciso di non essere fra noi". Lo ha detto il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, che ha ricordato, dopo aver reso omaggio, "a Largo 16 Ottobre, teatro del rastrellamento infame del 43". "Colgo per questo l'occasione - ha aggiunto - per salutare con commozione e orgoglio i superstiti della Shoa'h qui presenti". "Il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah, duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso, un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz". È uno dei passaggi del discorso in sinagoga di Riccardo Pacifici davanti a papa Benedetto XVI. "In attesa di un giudizio condiviso, auspichiamo - ha detto ancora -, con il massimo rispetto, che gli storici abbiano accesso agli archivi del Vaticano che riguardano quel periodo e tutte le vicende successive al crollo della Germania nazista". (continua...)

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  2. Ebrei e cristiani come fratelli - Un lunghissimo applauso, con tutti i presenti che si sono alzati in piedi, ha seguito il "saluto grato di benvenuto" al Papa espresso dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, all'inizio del suo intervento. Di Segni ha ringraziato Benedetto XVI "per il gesto che compie oggi visitando il luogo più importante di preghiera della nostra Comunità". "Malgrado una storia drammatica, i problemi aperti e le incomprensioni, sono le visioni condivise e gli obiettivi comuni che devono essere messi in primo piano", ha detto il rabbino. "Sono passati 24 anni dalla storica e indimenticabile visita di Papa Giovanni Paolo II in questa Sinagoga - ha affermato -. Allora fu forte la richiesta rivolta al Papa dai nostri dirigenti di riconoscere lo Stato d'Israele, cosa che effettivamente avvenne pochi anni dopo. Fu un ulteriore segno di tempi cambiati e più maturi". "Lo Stato di Israele - ha ricordato Di Segni - è un'entità politica, garantita dal diritto delle genti. Ma nella nostra visione religiosa non possiamo non vedere in tutto questo anche un disegno provvidenziale". "Nella visita a questa Sinagoga - ha continuato Di Segni - Papa Giovanni Paolo II descrisse il rapporto tra ebrei e cristiani come quello tra fratelli".


    Il Papa: abbiamo chiesto perdono - Papa Benedetto XVI nel suo discorso ha ricordato la deportazione degli ebrei di Roma e "l'orrendo strazio" con cui vennero uccisi ad Auschwitz. In quell'occasione - ha detto il pontefice - "la Sede Apostolica svolse un'azione di soccorso, spesso nascosta e discreta". Possano le piaghe dell'antisemitismo e dell'antigiudaismo "essere sanate per sempre": è l'auspicio fatto da papa Ratzinger nel discorso alla Sinagoga di Roma. Benedetto XVI ha ricordato come la Chiesa non abbia mancato di deplorare le "mancanze dei suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell'antisemitismo e dell'antigiudaismo". Il "dramma singolare e sconvolgente della Shoah" rappresenta "il vertice di un cammino di odio che nasce quando l'uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell'universo". Lo ha affermato Benedetto XVI nel suo discorso pronunciato nella Sinagoga di Roma. "La Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell'antisemitismo e dell'antigiudaismo". Lo ha detto Benedetto XVi, menzionando il documento della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998. "Possano queste piaghe - ha auspicato - essere sanate per sempre!". "Torna alla mente - ha confidato il Pontefice con tono commosso - l'accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore: 'Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perchè il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell'Alleanza'".
    (ALFREDO ANSELMO)- 17/01/2010

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